Tutti i media hanno parlato dell’articolo sul Financial Times firmato da Mario Draghi e dal presidente francese Emmanuel Macon. Una mossa importante, certo per i contenuti: il debito va ridotto, ma non aumentando le tasse o tagliando la spesa; la politica fiscale è fondamentale “per proteggere le nostre persone e trasformare le nostre economie”; il Next Generation EU “è stato un successo” e “offre un utile modello per il futuro”; soprattutto, le regole europee vanno cambiate.
Ma è altrettanto importante il fatto che i due leader abbiano voluto far sapere in modo così evidente che la vedono nello stesso modo. Scrive l’agenzia Ansa: “Fonti dell'Eliseo spiegano che il testo di Draghi e Macron è stato condiviso con altri capi di stato e di governo Ue” e che “hanno consultato diversi leader, in particolare il cancelliere tedesco Olaf Scholz”. Solo loro due, però, hanno firmato. Forse un modo per rimarcare che quella è la posizione del secondo e terzo paese più importanti dell’Ue e dunque nella discussione non se ne potrà prescindere, e forse perché non coincide esattamente con quello che pensa il leader del paese più importante, la Germania.
Trattandosi di un articolo, comunque, la presa di posizione resta necessariamente sui principi generali, senza entrare nei dettagli. Ma quasi alla fine dell’intervento c’è un link, neanche molto evidente perché è solo sulla parola “discussione”. L’economista Gustavo Piga, su Twitter, chiede un chiarimento al Financial Times: quel link è un’iniziativa della redazione o è stato suggerito dagli autori? Una domanda retorica, perché sarebbe davvero singolare un’iniziativa autonoma della redazione in un articolo scritto da due importanti leader politici.
Quel link porta a un breve saggio, pubblicato anche sul sito del governo, non casualmente intitolato “Rivedere il quadro fiscale europeo”, datato 23 dicembre 2021. Gli autori sono Francesco Giavazzi, Veronica Guerrieri, Guido Lorenzoni e Charles-Henri Weymuller. La prima e l’ultima firma sono le più significative dal punto di vista politico. Come tutti sanno Giavazzi è il braccio destro (decisamente destro) di Draghi per le questioni economiche; e Weymuller è membro del gabinetto dell’Eliseo per le politiche macroeconomiche e commerciali. I due leader, insomma, non si limitano all’articolo, propongono un vero e proprio documento, anche se in modo indiretto e quasi ufficioso.
Il saggio esordisce prendendo atto del fatto che lo scenario macroeconomico è molto diverso da quello in cui furono pensate le regole ora sospese ed è caratterizzato da bassi tassi d’interesse e una forte domanda mondiale per investimenti sicuri. La politica monetaria è in difficoltà con i tassi a zero o vicini, ed è necessario un coordinamento con la politica fiscale, che d’altronde in questa situazione può guadagnare nuovi spazi: ma le regole europee devono permettere di sfruttarli per combattere le recessioni e per permettere una normalizzazione della politica monetaria. E definisce un successo il NGEU, perché ha mostrato la capacità europea di mobilitare risorse per investimenti pubblici destinati alla crescita, per la cooperazione tra governi nazionali e istituzioni europee, per la connessione con riforme pro-crescita, per l’individuazione di obiettivi comuni.
Gli strumenti: l’Agenzia del debito
Va costituita un’Agenzia del debito – che, si dice in una nota, potrebbe essere il Mes oppure un organismo di nuova costituzione – a cui trasferire gradualmente la parte dei debiti pubblici dovuta alle spese per il Covid attualmente detenuta dalla Bce. Il trasferimento dovrebbe avvenire in 5 anni. L’Agenzia emetterebbe debito, ad un costo inferiore a quello della maggior parte dei titoli sovrani, che la Bce acquisirebbe in cambio dei debiti degli Stati trasferiti. Questi titoli sono utili alla Bce per le operazioni di politica monetaria, quindi non costituirebbero un ingombro. Si avanza anche – ma timidamente – l’ipotesi che l’Agenzia possa acquisire anche la parte di debito causata dalla crisi del 2008, “se si volesse espandere la portata del piano”: un’idea accennata senza insistervi. La proposta di un’Agenzia del debito era già stata avanzata in modo molto articolato in un saggio di Massimo Amato, Everardo Belloni, Paolo Falbo e Lucio Gobbi.
Gli Stati dovrebbero pagare interessi all’Agenzia in base a una formula che prende in considerazione la differenza tra il costo del debito emesso dall’Agenzia e il tasso di crescita del paese, la quantità di debito di quel paese detenuto dall’organismo e il suo Pil dell’anno precedente. Un esempio mirato sull’Italia, utilizzando stime prudenziali su tasso d’interesse e crescita, mostra che su quella quota del debito il nostro paese risparmierebbe poco meno di due terzi della spesa per interessi. Chi si indebita a tassi ancora inferiori, come la Germania, avrebbe invece uno svantaggio, a cui però – rassicurano gli autori – si potrebbe ovviare facilmente.
Finché i tassi rimarranno bassi, osservano gli autori, i contributi degli Stati saranno superiori agli interessi sul debito emesso dall’Agenzia, che quindi accumulerà liquidità. Sulla sua destinazione si fanno tre ipotesi: retrocessione agli Stati; costituzione di un fondo per interventi di emergenza; o infine, destinarla a una spesa centralizzata addizionale, andando così a beneficio anche degli Stati che non traggono vantaggio da questo meccanismo ma grazie ai quali l’Agenzia può indebitarsi a tassi molto favorevoli.
Le regole fiscali
Viene introdotto qui un particolare tipo di golden rule, il principio secondo cui gli investimenti possono essere fatti in deficit perché stimoleranno la crescita ripagandosi da soli. Si propone il concetto spending for the future, spesa per il futuro, quella che riguarda beni comuni europei come la lotta al cambiamento climatico, la difesa, la politica industriale (che includa una produzione strategica come quella dei semiconduttori), la sanità e gli aiuti internazionali; e anche quella di ogni paese che possa aumentare la sua crescita nel lungo termine. Questa spesa non dovrebbe essere calcolata ai fini del deficit, ma siccome produce comunque debito, dovrebbe avere un trattamento più favorevole rispetto agli obiettivi di riduzione di quest’ultimo, cioè per questa parte – definita “debito lento” – si dovrebbe concedere più tempo per raggiungere l’obiettivo. Nel “debito lento” si dovrebbero computare anche quelli accumulati a causa delle crisi, ma siccome è definito tale quello del periodo in cui è scattata la clausola di sospensione delle regole, ci si limita evidentemente alla crisi del Covid.
Il debito comunque – si afferma – “va ridotto”. E si propone un obiettivo di medio termine a 10 anni, introducendo però vari casi in cui gli Stati possono contrattare con la Commissione: insomma, la già nota “flessibilità”. Mantenendo anche la clausola di sospensione, “che si è rivelata così utile”, per fronteggiare eventuali profonde recessioni.
L’obiettivo di medio termine per il debito – prosegue lo studio – può essere raggiunto applicando una “regola della spesa”, che consiste nel fissare un tetto al deficit della spesa primaria, cioè quella che non comprende gli interessi, la spesa per gli stabilizzatori automatici e la “spesa per il futuro”. Il tetto viene calcolato in modo da conseguire l’obiettivo di medio termine e può essere rivisto ogni tre anni. Naturalmente questo richiede “stime realistiche”, e si potrebbe obiettare che nell’ultimo decennio le stime hanno sbagliato quasi sempre. Ma è sempre meglio che usare i vecchi parametri come il Pil potenziale, che gli autori nominano come possibilità ma chiariscono di non preferire perché si sono dimostrati “inaffidabili” (e meno male!).
Aspetti positivi
Le novità positive sono molte. D’altronde, quando si parte da un sistema disfunzionale e tecnicamente sbagliato come quello attuale, è probabile che qualsiasi variazione sia un miglioramento. La mano pubblica torna protagonista. E’ chiamata a definire gli obiettivi, ad occuparsi della politica industriale – cosa che fino a poco fa era considerata una bestemmia – e ad usare la politica fiscale in funzione anticiclica, mentre nel 2012 il Two pack e il Six Pack avevano inasprito le regole di Maastricht costringendo l’Italia, che è stata quasi la sola ad essere spinta a perseguire quella strada (inutile ricordare i cospicui deficit, per esempio, di Spagna e Francia), a non contrastare i danni della crisi del 2008. All’epoca, giova ricordarlo, Giavazzi era tra i cantori dell’austerità. E’ ancora la mano pubblica, sia a livello Ue che di Stati, che deve occuparsi degli investimenti, visto che lasciar fare ai privati ha provocato guai, da quelli ambientali all’arretratezza tecnologica.
Torna finalmente la “regola aurea”: gli investimenti non rientrano nel conteggio del deficit. Inoltre le nuove regole prevedono numerose possibilità di aggiustamento, per tener conto sia del ciclo economico che delle scelte politiche, e mandano finalmente in soffitta i “parametri non osservabili” che tanti danni hanno fatto finora. L’Agenzia del debito è un primo passo, anche se per ora limitato, verso il debito comune e viene ipotizzato anche un suo ruolo per gli investimenti comuni. Rispetto alle vecchie regole, si tratta di passi avanti notevoli.
Aspetti negativi
Quello che c’è nella proposta, ripetiamolo, è decisamente migliore delle regole attuali. I problemi stanno in quello che manca.
Neanche di sfuggita si parla di occupazione, come se il problema del lavoro – quello che manca, quello precarizzato, quello sottopagato – non avesse bisogno dell’attenzione della politica. Non c’è nulla contro i dumping salariali e normativi, e contro le delocalizzazioni produttive guidate solo da questi motivi. Niente sulla concorrenza fiscale, anche quello un flagello che mina le economie specie dei paesi di maggiore dimensione. Si ignora la questione dei surplus eccessivi di bilancia dei pagamenti, che pure sono un danno per l’economia europea. Nulla riguardo al livello dell’indebitamento privato, fonte di instabilità forse maggiore di quella del debito pubblico, come si è visto con la crisi del 2008.
Insomma, una conversione a metà. Che rivede alcuni concetti fondamentali di gestione macroeconomica, ma continua ad ignorare problemi altrettanto importanti. Qui li abbiamo ricordati in estrema sintesi, ma affrontarli è fondamentale sia per la qualità della vita delle persone, sia per un migliore funzionamento dell’economia.
Non vogliamo dire, come usava una volta la retorica politica, che “il problema è ben altro”. Se il piano passasse – e per ora è firmato da due paesi su 27 – costituirebbe un progresso notevole. Ma certo resterebbe ancora tanto da fare.