Pensioni, uscire dalla confusione

Una serie di misure più o meno improvvisate e incoerenti, tra cui quelle per lo "scalone", hanno sfigurato l’originaria riforma Dini, che andrebbe anche integrata per tener conto dei mutamenti intervenuti nel mercato del lavoro. Alcune proposte per razionalizzare ed eliminare ingiustizie

Non c’è occasione di discussione sullo Stato sociale nella quale non si suoni la fanfara al protocollo del 23 luglio 2007. E’stato così anche al convegno del  di fine novembre organizzato in vista di una Conferenza nazionale del PD sul welfare prevista per la primavera del 2009. La mia opinione è che l’occasione del 2007 sia stata sprecata, e che da questa considerazione bisogna partire per “trovare il coraggio di cambiare, di innovare, di riformare” come sosteneva Enrico Letta nella sua relazione del 27 novembre.

 

Nel 2007, il grosso della discussione e del negoziato ruotarono intorno alla questione “scalone”. Peraltro con un grande abbaglio: il vero grande scalone non era quello riguardante le pensioni di anzianità con 35 anni di contributi che passavano con la legge di Maroni da 57 a 60 anni, ma quello dei maschi del regime contributivo che passavano da 57 a 65 anni (le donne a 60). Il risultato è stato modesto per gli interessati alle pensioni di anzianità (poche centinaia di migliaia e per un periodo di tempo limitato), e pagato a caro prezzo dagli altri con la elevazione dell’età pensionabile per tutti, mascherata dietro l’istituzione delle finestre di uscita per chi va in pensione di vecchiaia (milioni di persone e per sempre).

 

Ma davvero era così impellente e ineludibile la smania di andare in pensione prima del tempo? Penso che ciò non sia vero se non per chi fa un lavoro sgradevole, gravoso, usurante; ma non immagino schiere di 57enni desiderosi di passare il tempo ai giardinetti. La verità è che il diritto alla pensione di anzianità è una polizza assicurativa contro il pericolo di rimanere senza lavoro prima di avere maturato il diritto alla pensione. Oppure è considerato una buona opportunità per chi progetta di svolgere comunque un lavoro, magari in nero. Se sono fondate queste considerazioni ci si poteva limitare a ripristinare il pensionamento di anzianità a 57 anni solo per chi perde involontariamente il lavoro. E magari affrontare con approccio più selettivo e serio il tema dei lavori usuranti anche, per esempio, tornando alla regola semplicemente ragionevole, secondo la quale solo in parte il costo va pagato dalla solidarietà generale, lasciando che il grosso della spesa debba essere a carico delle stesse aziende usuratrici che secondo le regole di adesso non pagano un bel niente.

 

Si poteva operare diversamente? Probabilmente, si. Romano Prodi fin dal dicembre 2005 aveva tra le mani un progetto le cui idee non erano completamente nuove (è sempre difficile inventare cose nuove), ma erano messe in bell’ordine e corredate di conti e ragionamenti sulla fattibilità. Il che è sempre un esercizio difficilissimo quanto fondamentale.

 

L’idea era quella di passare dai due pilastri pensionistici a tre:

 

-         una pensione di base uguale per tutti da finanziare tramite il fisco;

-         la pensione contributiva Inps da sommare a quella base, ma ridotta nel suo peso in modo da portare l’aliquota contributiva intorno al 24-25% rendendola uguale per tutti;

-         una pensione complementare di tipo volontario.

 

Un tale impianto avrebbe risolto il problema di tornare ad avere un trattamento minimo di pensione che la legge Dini aveva abolito e avrebbe ripristinato la flessibilità della età di pensionamento. Queste due questioni sono affrontate con dichiarazioni di principio prive di qualunque efficacia nel Protocollo del luglio 2007 e nella sua trascrizione legislativa. Flessibilità dell’età pensionabile tornata all’ordine del giorno dopo la sentenza europea a proposito del carattere “discriminatorio” dei 60 anni per le donne rispetto ai 65 degli uomini. Il ministro Brunetta, dopo aver  suscitato un vespaio con le sue dichiarazioni del 13 dicembre, ha poi anche detto “Si torni alla flessibilità prevista dalla riforma Dini” (Corriere della sera del 14 dicembre).

 

Se si adeguano i coefficienti, come previsto dalla legge o giù di lì, si può tornare ai 57 anni e magari allungare il range oltre i 65 anni su base volontaria. Se, infatti, siamo in regime contributivo non crea alcun problema il fatto che una persona vada in pensione a 57 anni perché, appunto, avrà diritto a quanto gli spetta sulla base dei contributi versati e in ragione dell’attesa di vita. Da un punto di vista attuariale, l’età del pensionamento non incide sulla spesa pensionistica. E non dovrebbe costituire un problema il fatto che, eventualmente, continui a lavorare a part time o a tempo pieno. In questo caso verserà altri contributi che gli serviranno a rimpinguare la pensione quando si ritirerà del tutto.

 

In questo quadro è anche ragionevole ripristinare il diritto di opzione al “contributivo” per quelli del regime retributivo che avevano 18 o più anni di contributi nel 1995. Questo diritto era previsto dalla legge 335, ma poi si è scoperto che una platea di soggetti con redditi alti ci avrebbe guadagnato, e si è abolita la possibilità per tutti. Bastava, invece, porre il limite in base al quale il calcolo contributivo non poteva comunque superare quello retributivo. Una tale misura risolverebbe il problema di persone che si trovano disoccupate a 57 anni magari con 25-30-35 anni di contributi versati, e che sono comunque obbligate ad aspettare, con le regole attuali, i 65 anni, se uomini, o 60 se donne. Certo, percepirebbero una pensione bassa, ma sarebbe una possibilità, una opzione nelle loro mani senza oneri per la collettività. E questa soluzione potrebbe combinarsi  con la riforma degli ammortizzatori sociali e, in particolare, dell’indennità di disoccupazione.

 

Quanto alla pensione base, l’età per maturarne il diritto dovrebbe essere  uniformemente stabilita per tutti. Il suo finanziamento sarebbe in larga misura assicurato dalla razionalizzazione e dall’utilizzo dei fondi che lo Stato già impegna per prestazioni sociali, integrazioni al minimo, sconti contributivi alle imprese – che sarebbero compensati dal minor prelievo contributivo – e, ultimo ma non meno importante, un’effettiva lotta all’evasione contributiva.

 

Romano Prodi aveva in mano una carta per cominciare il processo di riforma: la sua promessa di ridurre il cuneo fiscale-contributivo del cinque per cento. Ridurre gli oneri all’Inps e rimpiazzarli con versamenti dello Stato comportava una riduzione dell’aliquota dal 33 al 28 per cento. Era un passo nella direzione descritta prima. Senonchè invece di una soluzione lineare e trasparente, si è finito con l’adottare una soluzione che, da un lato, ha favorito le imprese; dall’altro, ha spalmato la parte della spesa statale a vantaggio dei lavoratori in una misura di riduzione del peso fiscale sulla basta paga scarsamente significativa per l’insieme dei lavoratori. Un risultato che sembra si possa tranquillamente definire negativo sia dal punto di vista politico del governo, sia dal punto di vista sindacale in relazione alle attese alimentate fra i lavoratori.

 

Ora l’esigenza di ridiscutere il tema delle pensioni si ripropone all’ordine del giorno anche per non rimanere prigionieri delle misure più o meno improvvisate e incoerenti  che hanno sfigurato l’originaria riforma Dini, oltre che per integrarla in quelle parti che, col tempo, si sono dimostrate carenti, anche in relazione ai mutamenti intervenuti negli ultimi dieci-quindici anni nel mercato del lavoro. La proposta di un sistema a tre pilastri potrebbe rappresentare un recupero della parte essenziale della riforma del 1995 e insieme una sua ragionevole ed efficace integrazione.

 

Si tratta di proposte con una coerenza interna perché mirano a regole uguali per tutti, conformi all’idea che si debba dare luogo ad un solo Istituto previdenziale; cosa, questa, esclusa dal governo Berlusconi, ma abbandonata anche dalla sinistra. Proposte, peraltro, coerenti con il diritto alla totalizzazione gratuita dei contributi versati in qualsiasi istituto o Cassa. Oggi siamo al punto che all’interno dello stesso Inps non si possono mettere insieme i contributi versati come dipendente e come co.co.co, se non avendo raggiunto in ambedue i fondi uno standard minimo. Oggi si ammette che a questo soggetto venga accreditata contribuzione figurativa, ma non che possa sommare in unico conto tutti i versamenti che lo riguardano. E’ una norma che deve valere per tutte le casse. Se una persona, ad esempio, tenta la carriera del libero professionista, ma non ha successo e trova poi un lavoro dipendente, perché deve aver regalato i contributi alla cassa pensioni della professione? Per pagare la pensione ricca a quelli che hanno avuto successo? E’ lo stesso tipo di vergognosa ingiustizia con la quale trattiamo gli immigrati: prima della Bossi-Fini, quando tornavano nei paesi di provenienza, potevano rivolgersi all’Inps e ritirare quanto versato. La Bossi-Fini ha abolito questa possibilità promettendo una improbabile pensione a 65 anni per popolazioni che mediamente non arrivano ai 60.

 

Né si può trascurare la questione delle Casse privatizzate dei liberi professionisti. Tutte proclamano di avere i conti in ordine. Anche i dirigenti di imprese industriali sbandieravano la bontà della loro Inpdai, poi hanno chiesto di confluire nell’Inps, mettendo a carico di Cipputi il rosso del loro bilancio. Si deve aspettare che ogni cassa si trovi in questa condizione? Non si potrebbe cominciare perlomeno dal superamento dell’attuale sbriciolamento delle casse relative alle diverse professioni, e fare i conti a livello aggregato? Un governo serio dovrebbe metterci mano.

 

Torna di attualità il dibattito sulla riforma degli ammortizzatori sociali. Si vuole davvero una regola uguale per tutti? Questo implica abbassare il trattamento di cassa integrazione e indennità di mobilità e portare tutti gli altri (compresi collaboratori e partite Iva) al nuovo livello definito? Io penso che non sia né giusto, né praticabile un abbassamento dei trattamenti in vigore, specialmente alla luce degli strappi fatti anche alle norme di legge per assicurare i sette anni senza tetti a quelli dell’Alitalia. Tanto più che si manifesta una spinta ad alzare i tetti oggi in vigore. La mia opinione e che la si smetta di agitare genericamente il tema della riforma, e si affronti il tema dei miglioramenti della indennità di disoccupazione e della sua estensione a quelle tipologie di collaboratori e partite Iva che si confondono con il lavoro dipendente. Un gruppo di volonterosi sta mettendo a punto proposte. Speriamo che se ne possa discutere seriamente.

 

(Aldo Amoretti  è Consigliere Cnel)

Domenica, 18. Gennaio 2009
 

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