Pensioni. Ragionando sulla “controriforma”

Dietro il progetto del governo c'è un imbroglio. Ma ai sindacati si chiede di avanzare anche proprie proposte. Proviamo a individuare alcuni elementi di una possibile “contropiattaforma

Di fronte all’attacco alle pensioni del governo Berlusconi, da più parti si chiede ai sindacati di presentare la propria contro-piattaforma. La questione è metodologicamente corretta, ma rischia di essere del tutto astratta, se non tiene conto del punto di partenza, dell’imbroglio che sottende la posizione del governo.
Tremonti propone una riforma che, nei suoi aspetti strutturali, dovrebbe partire dal 2008. Perché la questione è posta con tanta drammatica urgenza, in termini di vita o di morte del sistema previdenziale, se per il suo funzionamento vi sono cinque anni di tempo?

La risposta che tutti conoscono è che la legge finanziaria di questo governo, infarcita di condoni e di entrate “una tantum”, è impresentabile in Europa. La già scarsa attendibilità del governo Berlusconi rischia un ulteriore colpo nel corso del semestre di presidenza dell’Unione europea, già iniziata nel peggiore dei modi. La riforma del 2008 non serve a riparare le incongruenze della politica economica e fiscale del governo, ma si sforza di offrire in cambio l’agnello sacrificale delle pensioni.

Il rifiuto delle confederazioni sindacali di sedersi a un tavolo negoziale truccato in partenza è del tutto comprensibile. Ma anche volendo prescindere dal quadro nel quale la controriforma del governo s’inserisce, non è difficile per un osservatore esterno entrare nel merito della proposta e costatarne i paradossi e le contraddizioni. Proviamo a esaminarne i punti essenziali.

Primo. Il governo sostiene che le risorse del sistema previdenziale pubblico non sono nei prossimi anni sufficienti a sostenere la spesa previdenziale. La risposta paradossale del governo è il taglio dei contributi. Innanzitutto, il taglio per tutti coloro che, avendo maturato i requisiti per la pensione, rinunciano a pensionarsi. Il paradosso sta nel fatto che meno della metà di coloro che maturano i requisiti scelgono il pensionamento, per cui il sistema previdenziale sarà privato dei contributi di centinaia di migliaia di lavoratori che non avrebbero scelto, pur avendone i requisiti minimi, di chiedere il pensionamento.

Questa misura scriteriata si aggiunge all’altra, già prevista nella delega al governo, di riduzione dei contributi (3-5 punti) per i nuovi occupati. Stupefacente incoerenza creativa: per risolvere un problema di scarsità di risorse – vero o gonfiato che sia – si riducono le risorse in entrata, in parte a titolo strutturale, in parte per costituire un incentivo a favore di una massa di lavoratori che, se non vi sono costretti, non coltivano l’intenzione di ritirarsi dal lavoro.

Secondo. Dal 2008 lo scenario degli incentivi si ribalta. Entrano in gioco le penalizzazioni, pesanti quanto irragionevoli. Per richiedere il pensionamento, bisogna aver raggiunto 65 anni (60 per le donne), o aver maturato 40 anni di contribuzione. Dal punto di vista della coerenza del sistema, questa misura liquida un punto centrale della riforma del 1995 che prevede la correlazione della pensione, per un verso, ai contributi accumulati e, per l’altro, all’età.

Ma la controriforma colpisce nel contempo quella fascia (maggioritaria) di lavoratori che, in un mercato del lavoro sempre più precario, non avranno potuto accumulare 40 anni di contributi, e tuttavia per ragioni legate al ciclo economico, o ai processi di ristrutturazione delle imprese, sono espulsi dal lavoro. Per loro al danno si aggiunge la beffa. Potranno, infatti, continuare ad andare in pensione con i requisiti attualmente previsti (57 anni d’età e 35 di contribuzione), ma la loro pensione sarà retroattivamente calcolata col sistema contributivo anche per l’attività svolta prima della riforma del 1995. Si tratta di uno scippo a danno di chi è ormai prossimo alla conclusione della vita lavorativa.

Terzo punto. La riforma Dini, che collega, come abbiamo ricordato, il livello della pensione sia ai contributi versati, sia all’età del pensionamento (libera fra 57 e 65 anni), segue un principio di attuazione graduale. La ragione sta nella possibilità per i lavoratori e le lavoratrici che, al momento della riforma (1995) avevano meno di diciotto anni d’anzianità contributiva, e perciò soggetti alle nuove regole del sistema contributivo, di costituirsi una pensione complementare, tramite i fondi a capitalizzazione. Si tratta del “secondo pilastro”, mirato a neutralizzare o contenere la riduzione, più o meno accentuata a seconda della carriera lavorativa, della pensione calcolata secondo il nuovo sistema.
La contro-riforma di Berlusconi cancella ogni gradualità, prevedendo un passaggio istantaneo nel 2008 al sistema contributivo, indipendentemente dal fatto che la grande maggioranza dei lavoratori non sarà stata in condizione di garantirsi, anche volendolo, una quota di pensione complementare, come prevede l’instaurazione del secondo pilastro contenuto nella riforma Dini. In breve, non siamo di fronte a un’accelerazione della riforma del 1995, ma al suo stravolgimento.

Di fronte alla constatazione dell’incongruenza e dell’iniquità della pretesa riforma (meraviglia di un vocabolario capovolto), Tremonti risponde che l’obiettivo è risparmiare un punto del PIL. E Berlusconi completa il discorso, affermando che il compito del suo ministro è ridurre le tasse…se non vorrà essere impiccato. Questo è lo stato dell’arte. E, francamente, l’insistenza con la quale tanti “riformisti” chiedono di apprezzare il “coraggio” di Berlusconi nel rilanciare il tema delle pensioni appare fuori luogo e piuttosto stupefacente.

Naturalmente, questo non significa che non ci siano problemi da affrontare in un quadro negoziale, quando questo potesse aprirsi senza ultimatum, e con l’intento di completare, non snaturare, la riforma esistente. Le questioni che rimangono aperte non mancano. Ma la loro soluzione si pone sotto un profilo rovesciato rispetto all’impostazione di Tremonti. Proviamo, a titolo esemplificativo, a esaminarne alcune.

Primo. Sappiamo che, in futuro, la pensione dipenderà innanzitutto dalla continuità e dal livello dei contributi versati. Più bassi i contributi versati durante tutto l’arco della vita lavorativa, più bassa la pensione.

Il caso dei co.co.co costituisce il problema più evidente. All’atto della riforma Dini, i parasubordinati erano inesistenti dal punto di vista previdenziale. La loro emersione inizia nel 1996, con una contribuzione ai fini pensionistici del 10 per cento, destinata ad arrivare al 19 per cento. Nel frattempo, il loro numero è cresciuto continuamente, senza possibilità di paragoni in Europa, fino a superare i due milioni di iscritti nelle liste corrispondenti dell’Inps. Con il livello di contribuzione attuale, la loro pensione sarà insignificante. E sarà del tutto improbabile che siano riusciti a costituirsi una pensione complementare a capitalizzazione.

D’altra parte, un aumento drastico e ravvicinato dell’aliquota si ritorcerebbe contro questa tipologia di lavoro, rischiando di creare vuoti occupazionali drammatici per migliaia di giovani. La soluzione non può che essere quella di una modifica che preveda un’aliquota di computo allineata a una contribuzione piena. Si tratterebbe, in sostanza, di introdurre un fattore di solidarietà effettiva nei confronti di giovani che pagano il prezzo più alto della precarietà del mercato del lavoro.

Secondo. I sistemi pensionistici in tutta l’Europa sono collegati agli ammortizzatori sociali. Se si ritiene che un punto cruciale del futuro delle pensioni sia l’innalzamento dell’età media del pensionamento, è indispensabile affrontare il problema dei lavoratori più anziani che, senza avere alcuna intenzione di smettere di lavorare, sono espulsi dalle imprese per ragioni di ristrutturazione, di ringiovanimento degli organici, di riduzione del costo del lavoro.

Qui i rimedi possibili sono di vario ordine, e già sperimentati in altri paesi. Nei processi di licenziamento collettivo, la “seniority” non dovrebbe essere considerata come una ragione in più per essere licenziati, ma piuttosto il contrario. Più in generale, dovrebbe essere applicato il principio di non discriminazione con riferimento all’età. Bisognerebbe, inoltre, prevedere la mobilità interna ed esterna, mediante una formazione appositamente programmata.

Il passaggio al part-time dei lavoratori prossimi alla pensione dovrebbe essere incentivato, garantendo una contribuzione piena ai fini pensionistici. Infine, bisognerebbe prevedere, quando si dimostri esaurita l’efficacia di tutti gli altri strumenti, un’indennità o sussidio di disoccupazione che accompagni il lavoratore o la lavoratrice, involontariamente disoccupata, fino alla piena maturazione della pensione. Quest’ultimo è lo strumento utilizzato nella maggior parte dei paesi europei per evitare un pensionamento precoce che, prima ancora di porre un problema di sostenibilità finanziaria, pone quello dell’insostenibilità sociale, per quanti vi sono costretti.

In conclusione, una piattaforma coerente dovrebbe mirare non a sradicare, ma a completare la riforma già attuata. In questo contesto potranno emergere elementi della riforma Dini che debbono essere rivisitati, come del resto era previsto per il 2005, ed eventualmente corretti.

Vi sono certamente privilegi che sopravvivono per alcune categorie (bassi contributi o elevati tassi di pensionamento) che debbono essere gradualmente riequilibrati. Vi è la necessità di una più congrua ripartizione fra spese che attengono al sistema previdenziale e altre con esplicito carattere assistenziale. Dovrebbe essere riconsiderata la clausola dell’indicizzazione, attualmente riferita (e in modo incompleto) solo all’inflazione, con la conseguenza di una compressione progressiva del reddito dei pensionati rispetto alla distribuzione del reddito fra le classi d’età. Infine, nella prospettiva del completamento della riforma Dini, si dovrebbe verificare la congruità del passaggio dal sistema retributivo a quello contributivo con una più ravvicinata applicazione del sistema pro rata, in modo da rafforzarne la gradualità.

Ma ognuno di questi punti, e l’insieme di una possibile piattaforma unitaria dei sindacati, è cosa ben diversa dall’improvvisazione scriteriata di un governo senza principi. Al cospetto della quale la risposta sindacale non può che essere l’opposizione e la mobilitazione, giustificata, netta e ragionata.

Giovedì, 9. Ottobre 2003
 

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