Pensioni, quante ingiustizie in quella riforma

Non solo l’eliminazione di tutta l’indicizzazione per chi supera i 1.405 euro, non solo l’innalzamento dell’anzianita fra 67 e 70 anni, ma persino una norma che rende non conveniente lavorare più a lungo. Lo rileva il Nucleo di valutazione: del quale il ministro Fornero era membro

Non tutti hanno ben compreso gli effetti delle misure adottate con il decreto “Salva Italia” a proposito di pensioni.

 

Cominciamo dal meccanismo di rivalutazione. Fra quelli che hanno un importo superiore a tre volte il minimo (1405,05 euro mensili) ci si illude di poter incassare la rivalutazione di questo importo (35,53 euro pari al 2,6%) e nulla per la parte eccedente tale importo mensile come avvenuto in occasioni precedenti. Invece non avranno un bel niente. Salvo coloro che stanno sopra i 1405,05, ma sotto i 1440,58 che arriveranno comunque a quest’ultima cifra.

 

Si è protestato soprattutto sugli effetti immediati delle misure adottate ed in parte si è posto rimedio a talune ingiustizie ed  esagerazioni in occasione del decreto “milleproroghe”. Ma sono ben più rilevanti, e discutibili, taluni effetti a regime.

 

In primo luogo viene di fatto abolita la flessibilità. Non solo perché gli si cambia nome rinominandola pensione anticipata. Come staremo? A far tempo dal 2018 (cioè domani) la norma per tutti sarà che si può andare in pensione tra i 66 anni e 7 mesi e i 70 anni (anche questo limite slitterà in ragione degli aggiornamenti biennali dell’aspettativa di vita) a condizione di avere almeno venti anni di anzianità contributiva e che l’importo della pensione a calcolo sia non inferiore ad 1,5 volte quello dell’assegno sociale (nel 2011 pari a 417,30 euro mensili). Si ricordi che con la riforma Dini la scelta era tra 57 e 65 anni con almeno 5 anni di contributi e l’importo pari ad almeno 1,2 volte l’assegno sociale. Vero che si avrà diritto alla pensione anticipata dai 63 anni ma, ferma restando la condizione dei 20 anni, l’importo dovrà essere di almeno 2,8 volte l’assegno sociale. Ne consegue che soltanto chi avrà lavorato stabilmente e con buone retribuzioni potrà fare la scelta. L’avere alzato l’asticella avrà l’effetto di indurre più che in passato tante persone a ritenere conveniente lavorare al nero piuttosto che versare contributi all’inps per una pensione improbabile prima dei 70 anni. Già oggi abbiamo oltre un milione di colf e badanti al nero oltre alle quasi 900mila in regola.

 

La mia opinione è che sia desiderabile allungare la vita lavorativa, ma che sia saggio, in un regime effettivamente contributivo, lasciare effettiva libertà di scelta dai 60 anni in avanti. In un regime contributivo onesto ci si porta a casa una pensione correlata ai versamenti effettuati e alla aspettativa di vita; non come con le pensioni di anzianità per cui si è pescata solidarietà dagli altri (compresi quei “silenti” che una pensione non l’avranno mai).

 

Si tenga conto come sia sempre meno vero che gli ultimi anni di lavoro siano i migliori della carriera dal punto di vista retributivo. Può capitarti a sessanta anni di dover accettare un lavoro meno pagato che a 40 e allora può essere una soluzione quella di abbinare una retribuzione non brillante con una pensione anch’essa non fra le migliori, versare ulteriori contributi per poi riliquidare la pensione quando ti ritirerai definitivamente dal lavoro. La nuova situazione drammatizza il problema degli ultra55enni che perdono il lavoro e sono ben lontani dalla pensione. Per adesso la ricollocazione dei licenziati non funziona. Le aziende i curriculum di queste persone non li leggono neanche. L’unico filone che dà qualche risultato è l’operato delle agenzie di outplacement, ma con numeri assoluti decisamente modesti. O si mette mano a questo problema oppure si dovranno gestire drammi sociali per ora non immaginabili. E non si racconti che ci sarà la riforma degli ammortizzatori sociali. Si pensa di poter coprire dei vuoti di dieci anni? Con il reddito di cittadinanza? Per ora non la beve nessuno.

 

Questi discorsi era desiderabile che i sindacati li proponessero prima dell’intervento del governo Monti. Il tram è passato. Si ha ragione a dire che il discorso non può considerarsi chiuso, ma va riconosciuto che sarà tutto in salita.

 

E’ poi sorprendente che il ministro Fornero abbia lasciato un sistema di ricalcolo dei coefficienti che rende non conveniente il lavorare più a lungo. Il nucleo di valutazione della spesa previdenziale lo ha commentato come segue: “Il differenziale prodotto dall’aggiornamento determina una evidente disparità di trattamento tra i lavoratori che vanno in pensione nei diversi anni interessati alla revisione, tanto da rendere conveniente, in prossimità della futura revisione, l’anticipazione di un anno del pensionamento. Il maggiore montante accumulato con la permanenza in attività per un ulteriore anno non copre il peggioramento del coefficiente di trasformazione dal montante in rendita.” La cosa  ancor più sorprendente è che la professoressa Fornero era componente del nucleo.

 

Tra altre perle delle misure sulle pensioni c’è poi quella della decontribuzione. Si progetta di consentire al lavoratore di pagare meno contributi all’Inps per poterli dirottare verso schemi previdenziali integrativi. A questo ed altri scopi si costituisce una commissione che dovrà fare proposte entro il dicembre 2012. Se non è semplicemente uno svarione allora è qualcosa di molto grave da prendere parecchio sul serio. Sarebbe magari il caso di offrire al lavoratore la possibilità di versare all’Inps i soldi che ora si possono versare solo ai Fondi complementari; cioè il contrario di quanto proposto.

Venerdì, 17. Febbraio 2012
 

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