Pensioni, i pasticci delle riforme

I continui interventi non hanno risolto alcuni importanti problemi e a volte ne aggiungono di nuovi. Per esempio, anche con anni di contributi si può non raggiungere nemmeno l’importo dell’assegno sociale. Sarebbe ora di pensare a una nuova riforma complessiva che tenga conto delle mutate condizioni del mercato del lavoro

Ne abbiamo sentito di tutti i colori a proposito del livello minimo della pensione quale requisito (tra gli altri 67 come età e venti anni almeno di contributi) per il diritto alla pensione. La riforma Dini del 1975 lo aveva stabilito a 1,2 volte quello dell’assegno sociale.  Poi si è alzato a 1,5 cioè pari a 755 euro (infatti l’assegno sociale è 503,77). In queste settimane ne abbiamo sentite di tutti i colori, anche quella di abolirlo. Dal testo della proposta di legge finanziaria per il 2024 pare che il nuovo livello sia pari all’assegno sociale. Ne scaturisce maggiore flessibilità in uscita, ma potrà verificarsi comunque il caso (soprattutto nel lavoro domestico) di lavoratrici che ai 67 anni di Fornero e pure con molti anni di contributi si sentiranno rispondere “ripassi a 70 anni, le daremo la pura pensione contributiva che può essere anche la metà dell’assegno sociale.”

Al tempo della riforma Dini la mia opinione, da Segretario generale della Filcams-Cgil era che questo requisito, per chi svolga lavori a part-time, o stagionali, può non essere realizzato neppure con 20-25 anni di lavoro (da Rassegna Sindacale n. 34 del 2 ottobre 1995). Aggiungo oggi: per una Colf o Badante neppure con 40 anni di lavoro regolare.

E non è che non ci sia stata una pressione unitaria della categoria. Si puntava ad ottenere almeno 0,8 volte l’importo dell’assegno sociale. Inascoltati perfino dai coordinamenti donne. Si è rivista, anche in quella fase, la condizione concreta per la quale anche dentro le organizzazioni sindacali hanno forza, voce e udienza i soggetti che sono forti nel mercato del lavoro. Del resto si è mai sentito di stagionali o lavoratori di piccole imprese che abbiano costituito Cobas o si siano autoconvocati?.

Cgil Cisl e Uil avanzano ora la proposta di una “pensione di garanzia per i giovani e le donne” in condizioni di precarietà. Cioè rimediare con solidarietà strutturata a vuoti di contribuzione. Assomiglia alla vecchia integrazione al minimo del regime retributivo, ma con un grosso inconveniente: a seconda di come congegnata potrebbe costituire un messaggio di questo genere: non disperatevi troppo per la irregolarità del vostro lavoro; un rimedio si troverà comunque anche se sarà esso stesso un rimedio povero.

Allora, tutto considerato, meriterebbe di essere ripescata una proposta spuntata a fine 2009 suggerita da Giuliano Cazzola e Tiziano Treu con la forma di un disegno di legge bipartigiano (il Riformista del 23 dicembre 2009) “orientata alla costruzione di un sistema pensionistico pubblico basato su due componenti o “pilastri”, entrambi a carattere obbligatorio: una pensione di base finanziata dalla fiscalità generale, su base universalistica, destinata a garantire, sia pure mediante la presenza e la maturazione di alcuni requisiti, a tutti i cittadini anziani prestazioni minime adeguate alle loro esigenze di vita; e una pensione di secondo livello calcolata secondo il vigente sistema contributivo, volta a garantire prestazioni aggiuntive correlate ai contributi versati dai singoli soggetti nel corso della loro vita.”

Io stesso e Angelo Mazzieri ci buttammo a sostenerla (un articolo del marzo 2010 su una rivista semiclandestina denominata Solcando); la condivise anche Romano Prodi il quale, quando si presentò la condizione del famoso “tesoretto”, propose di destinare la somma ad una riduzione del cuneo fiscale-contributivo del 5% per cominciare un processo che poteva portare a ulteriori riduzioni imputando gradualmente al fisco la pensione di base uguale per tutti.

La proposta, a quel tempo, fu affossata dall’opportunismo di chi riteneva fastidioso e difficile, nel rapporto con i lavoratori, un nuovo ragionamento sulle pensioni. E fu affossata dalla priorità dello “scalone” che poi, con la teoria dei “precoci” da tutelare ancora non si sa da cosa, ci portò alla bellezza di “quota 100”.

Sarebbe bene ripescare quella idea. Per ora si vede sempre all’opera la battaglia per la riduzione del cuneo, ma senza alcuna finalità di riforma.

Intanto per i giovani si insiste che gli farebbe così bene la pensione complementare, ma che loro non ne capiscono i benefici. Qualcuno pensa bene di renderla obbligatoria. Ma signori, la pensione complementare è per chi ha retribuzioni ricche o almeno decenti e regolari. Come fa uno che non arriva alla quarta settimana a buttarsi in questa prospettiva?

Intanto si seguita a ridimensionare “opzione donna”, rendendola utilizzabile a sempre meno donne e con requisiti sempre più alti per l’età e stringenti perché debbono essere o caregiver o disoccupate o invalide, nonostante che sia l’unica misura a costo zero perché in regime totalmente contributivo. I movimenti delle donne balbettano e non si avvedono che per salvare questa misura sacrosanta, e magari migliorarla un tantino, occorreva bocciare quota 100 che nessuno può sostenere fosse per i più poveri.

Vanno riaffrontati altri due titoli:

-          Colf, Badanti e Caregiver che con le attuali condizioni rischiano di stare ben al di sotto dell’assegno sociale

-          Gli immigrati. O si fanno le convenzioni con i paesi extraUE, oppure, se e quando tornano al paesello, restituire quanto versato a Inps anche per favorire un loro turn over, altrimenti sono spinti, contro i loro desideri, a stare in Italia fino alla pensione con annessi ricongiungimenti familiari.

(Aldo Amoretti è presidente di Professione in Famiglia)

Sabato, 4. Novembre 2023
 

SOCIAL

 

CONTATTI