Pensioni, Bush vuole seppellire il New Deal

E' in atto una fortissima campagna mediatica per convincere i lavoratori che il sistema pubblico istituito da Roosevelt è alla bancarotta e che affidandosi ai privati ci si guadagnerà. L'economista Krugman: 'Menzogne come quelle sull'Iraq'
Nel discorso inaugurale della sua seconda presidenza, George W. Bush ha promesso con toni profetici non solo una grande crociata per "l'espansione della libertà in tutto il mondo" (a quante Falluja dovremo ancora assistere?), ma anche una crociata interna per liberare l'America da quanto rimane del vecchio New Deal. In questo caso l'Iraq è rappresentato dalla Social security, il sistema pensionistico pubblico promosso nel lontano 1935 da Franklin D. Roosevelt.
Naturalmente l'attacco ha bisogno di una giustificazione forte. E il presidente l'aveva data qualche giorno prima con la necessaria drammaticità. "E' un dato di fatto - aveva affermato - che quando dovranno andare in pensione quelli che oggi sono fra 20 e 30 anni, il sistema avrà fatto bancarotta" (Washington Post, 11 gennaio 2005). Paul Krugman ha paragonato, sul New York Times, la minaccia di "bancarotta" della Social security al pericolo imminente delle armi di distruzione di massa utilizzato per l'invasione dell'Iraq. In sostanza, una menzogna.
E, come per l'invasione dell'Iraq non si trattava solo di scongiurare un pericolo imminente ma, secondo la filosofia neoconservatrice, di espandere la democrazia nel mondo, così per la Social security non si tratta solo della minaccia di collasso finanziario del sistema ma, nelle parole del presidente, di "costruire una società basata sulla proprietà individuale…per allargare la proprietà della casa e dei beni ai risparmi per la pensione e per la sanità…per fare di ogni cittadino un agente del proprio destino…per creare una società più prospera, più giusta e più uguale". Il mezzo per realizzare questo doppio obiettivo di risanamento finanziario e di una società più giusta e più uguale è l'avvio della privatizzazione del sistema pensionistico pubblico. Il programma non è stato ancora presentato nei dettagli, ma si conosce l'asse della riforma alla quale i consiglieri dei Bush hanno cominciato a lavorare sin dal 2001. In pratica, si consentirà ai lavoratori di trasferire una parte, si calcola fino a un terzo, dei contributi pubblici su conti individuali privati da investire in Borsa.
La riforma è presentata da una potente macchina propagandistica come il trionfo della libertà di scelta contro l'invadenza del controllo statale nella vita e nelle scelte dei cittadini. "Lo stratega di Bush, Karl Rove - ha scritto il Corriere della Sera - usa le stesse tecniche della campagna elettorale per promuovere i tagli al welfare promessi dal presidente". Si parla di una grande "offensiva", basata su spot e un esercito di volontari con i quali "la Casa Bianca vende porta a porta la riforma delle pensioni". Ma non si tratta solo di spot e di un esercito mediatico. Il dibattito e le proposte di riforma vengono da lontano. Dietro la proposta, vi è il lungo lavoro di alcuni potenti think thank, istituti e centri di ricerca americani, come il Cato Institute, l'Heritage Foundation, l'American Enterprise Institute, per citare solo i più noti.
 
Sapendo che le idee dei neo-conservatori americani tracimano facilmente nel resto del mondo e in Europa, vale la pena di tentare di capire di cosa si tratta: da dove provenga la minaccia della "bancarotta" e quale sia il significato di una parziale privatizzazione del sistema pubblico mirato ad espandere lo spazio storicamente molto grande (benché oggi in crisi) dei regimi privatistici a capitalizzazione che coprono circa la metà dei lavoratori americani. Per rendere il tema il più possibile chiaro, nonostante i molti aspetti tecnicamente complessi che lo caratterizzano, proviamo a distinguere gli argomenti per punti.
(1) La Social security, vale a dire il sistema di pensioni pubblico gestito dal governo federale, copre il 90 per cento dei lavoratori americani. Nessun altro programma sociale ha questa estensione, e nessun altro è così profondamente radicato nel costume americano. I beneficiari del sistema sono 47 milioni tra ex lavoratori, disabili e superstiti. A 65 anni il rendimento medio della pensione è attualmente di 14.000 dollari l'anno. Una sua caratteristica molto rilevante è il meccanismo di solidarietà implicito nel sistema. Vale a dire, tutti i lavoratori insieme con i rispettivi datori di lavoro pagano in parti uguali un contributo (una "tassa", nella dizione americana), pari complessivamente al 12,4 per cento della retribuzione (al quale si aggiunge il tre per cento per la parte del servizio sanitario dedicato agli anziani, Medicare). Ma, pur essendo la contribuzione proporzionale ai guadagni, il rendimento della pensione è consistentemente più alto per i lavoratori con i salari più bassi.
Infatti, mentre la media del tasso di sostituzione rispetto al salario è intorno al 40 per cento, un lavoratore appartenente alla fascia salariale più bassa avrà una pensione mediamente pari al 57 per cento della retribuzione, mentre per i salari più elevati il rendimento può scendere fino alla media del 37 per cento (Roger Lowenstein, NYT, 16. 1. 05 ). Le pensioni più basse si accompagnano generalmente a una pensione aggiuntiva di carattere privato, basata sui Fondi a capitalizzazione che, come abbiamo detto, coprono grosso modo il 50 per cento dei lavoratori americani, dotati di salari più alti e di maggiore stabilità dell'impiego. L'effetto universalmente riconosciuto della Social security è l'abbattimento della povertà tra gli anziani. Senza la Social security - osserva il Washington Post - circa la metà della popolazione americana in età avanzata sarebbe sotto la soglia della povertà. 
 
(2) Se questo è il quadro di riferimento, dobbiamo chiederci da dove proviene la minaccia di collasso finanziario posto alla base della crociata contro il sistema pubblico. Allo stato attuale, il sistema non è in deficit, come si sarebbe indotti a ritenere dai discorsi del presidente, ma gode di un poderoso attivo finanziario. L'attivo dipende dalla differenza accumulata negli anni fra spesa corrente per il pagamento delle pensioni e entrate derivanti dalla contribuzione. Più precisamente, i contributi sono investiti in Buoni del tesoro americani detenuti da un Trust Fund, il fondo di garanzia della Social security. L'avanzo consente al Fondo di accumulare gli interessi corrisposti sulle obbligazioni del Tesoro americano.
Da dove nasce il rischio di crisi? I fautori della riforma si appellano al forte aumento di pensionati che nei prossimi anni deriverà dall'invecchiamento della popolazione in relazione al baby boom dei primi due decenni del dopoguerra. Ma il sistema è in attivo e continuerà, secondo le stime ufficiali, ad accumulare riserve fino a tutto il 2018. Da allora in poi dovrà cominciare a utilizzare le risorse accumulate. Fino a quando disporrà di riserve? A metà degli anni 90, si era calcolato fino al 2029. Oggi, secondo i garanti della Social security, il periodo si è allungato e le riserve saranno sufficienti a integrare le entrate correnti fino al 2042. A quel punto, vale a dire fra 37 anni, il sistema andrà in disavanzo. Ma questo solo secondo le previsioni più cautelative. Secondo l'autorevole Ufficio del Bilancio del Congresso, l'inizio di uno squilibrio fra le entrate e le uscite non si verificherebbe prima del 2052.
Che dire di queste stime, che sono quelle ufficialmente accreditate, se non che, contrariamente al terrorismo economico dell'amministrazione, non si vede in un orizzonte temporale ragionevole di 40 o 50 anni, nessun rischio di crisi finanziaria e tanto meno di "bancarotta"? Quella bancarotta che, invece, ha investito negli ultimi anni una parte crescente del sistema privato di pensioni a capitalizzazione, a partire dalla Enron che ne è stata il simbolo più eclatante, ma che rappresenta solo la punta dell'iceberg.
(3) Gli analisti che si occupano di calcoli attuariali a così lungo termine sanno che le variabili in gioco sono troppo complesse, e che basta una variazione sia pure minima dei parametri considerati per alterare profondamente proiezioni a così luno termine. Si fa osservare che se l'immigrazione dovesse rimanere al livello attuale, invece che ridursi (secondo le assunzioni delle stime attuariali correnti), o se i salari crescessero a un ritmo moderatamente più elevato, come si dovrebbe ammettere, in base a una contrazione della forza lavoro dovuta all'invecchiamento, la solvibilità del sistema potrebbe prolungarsi fino ai prossimi 75-80 anni, che rappresentano l'orizzonte estremo di previsione sul quale lavorano gli specialisti attuariali della Social security.
Ma, assumendo che si verifichino le condizioni più sfavorevoli, come potrebbe essere garantito il sistema anche oltre la metà del secolo? Anche a quest'interrogativo rispondono i calcoli dei centri statistici ufficiali. Nelle condizioni previsionali più sfavorevoli l'equilibrio si otterrebbe con un aumento della contribuzione dell'1,9 per cento. Ma, secondo Lawrence Thompson, ex presidente della Social security, questa misura potrebbe essere stemperata da altre manovre del tutto ordinarie, come l'aumento del tetto di contribuzione rimasto fermo a 90.000 dollari e con altri aggiustamenti minori. Nessuna minaccia imminente, dunque, e, nel peggiore dei casi, la possibilità di intervenire con misure relativamente modeste nell'ambito di un certo numero di decenni. Ma non è detto che la crisi non possa essere creata proprio dalla crociata contro il sistema e dall'avvio della privatizzazione. La previsione della crisi potrebbe autorealizzarsi. Vediamo come.
(4) La Social security si basa, come abbiamo visto, su un Fondo di garanzia destinato a rimanere in attivo per molti decenni. Ma questo è stato possibile perché, sotto la presidenza di Reagan all'inizio degli anni 80, di fronte alle difficoltà in cui venne a trovarsi il sistema a causa della stagflazione (le pensioni aumentavano in rapporto a un elevato tasso d'inflazione, mentre i contribuiti diminuivano per l'alta disoccupazione), fu necessario intervenire per garantirne l'equilibrio finanziario a lungo termine. L'intervento adottato, su proposta di una Commissione indipendente presieduta da Alan Greenspan, portò all'aumento della contribuzione dal 10,1 al 12,4 per cento. La misura si rivelò efficace, com'è dimostrato dal fatto che venti anni dopo il sistema gode di un consistente attivo e che un eventuale problema di disavanzo si porrà solo intorno alla metà del secolo. In altri termini, l'aumento di circa due punti della contribuzione si è rivelato necessario e sufficiente per consolidare il sistema a lungo termine. Ma cosa succede con l'avvio della privatizzazione, che dovrebbe consentire l'uscita volontaria dal sistema pubblico e il trasferimento di una parte della contribuzione (i calcoli correnti si basano su almeno un terzo) ai Fondi individuali privati? 
Se l'amministrazione della Social security incasserà minori contributi, come potrà pagare le rendite pensionistiche in atto e quelle future, senza indebitarsi e rischiare, in questo caso, la sbandierata "bancarotta"? Per evitarla il costo della transizione, valutato in 2000 miliardi di dollari nei primi dieci anni, dovrà essere assunto dal bilancio federale. In sostanza, o aumentando il debito pubblico con riflessi negativi sui tassi d'interesse, e/o con tasse di carattere indiretto gravanti in particolare sui cittadini meno abbienti. Ma questo non basterà nel lungo periodo. Bisognerà, com'è del tutto logico, ridurre i rendimenti dei nuovi pensionati, misura sempre impopolare. Secondo i "riformatori", si potrà farlo con qualche semplice aggiustamento tecnico. Glenn Hubbard della Columbia Business School e consigliere economico del presidente indica una soluzione molto semplice: sarà sufficiente calcolare la pensione iniziale abolendo l'indicizzazione "alla crescita dei salari medi negli anni durante i quali il pensionato ha lavorato...Una riforma che sostituisce l'indicizzazione sui salari con quella sui prezzi elimina quasi completamente il problema finanziario del sistema" (Business Week, 29.11.04).
Dunque, abbiamo da un lato un buco finanziario causato inizialmente dalla minore raccolta di contributi, poi una drastica riduzione del tasso di sostituzione della pensione rispetto al salario. Basta chiamare le cose col loro nome: riduzione dei trattamenti pensionistici.
Ma questo punto viene omesso nella campagna mediatica e nei sondaggi di opinione la cui domanda principale è: "vuoi usare liberamente sulla base di scelte personali una parte della "tassa" attualmente pagata sulla retribuzione per la Social security?". Posta così la domanda una buona maggioranza delle risposte manifesta consenso e anche entusiasmo. Ma quando la domanda diventa se c'è disponibilità a subire una riduzione della pensione, il consenso si riduce drasticamente. Il linguaggio è una componente fondamentale. Osserva Geoffrey Nunberg del Centro di studi del linguaggio e dell'informazione di Stanford che i fautori della riforma spostano l'accento da "privatizzazione" a "libertà di scelta", collocandola sullo sfondo della "Ownership": termine suggestivo che vuole indicare la possibilità di operare scelte individuali libere in relazione a beni di propria appartenenza, ma nel caso specifico significa chiedere "ai lavoratori di accettare il rischio, la volatilità e l'incertezza in cambio della possibilità di ritorni più alti sui contributi (sottratti al sistema pubblico)" (The American Prospect, febbraio 2005).
La possibilità di un vantaggio non scongiura il rischio di una perdita netta che per molti lavoratori significherebbe precipitare al di sotto della soglia di povertà. I rendimenti dei mercati finanziari sono per la loro stessa natura oscillanti. I risultati medi non dicono cosa succederà ai singoli lavoratori. Una parte non riuscirà a compensare la perdita derivante dalla riduzione della pensione pubblica. Altri si troveranno a ritirarsi dal lavoro in periodi di crisi della Borsa con un conseguente crollo delle annualità nelle quali si convertono i risparmi impegnati nei Fondi privati.  
Naturalmente, i fautori della privatizzazione considerano secondari i rischi rispetto ai vantaggi derivanti dall'investimento privato che, si calcola, può dare un rendimento al netto dell'inflazione e delle spese di amministrazione del 4,9 per cento annuo contro un rendimento lordo del 6 per cento e netto del 3,5 per cento dei buoni del tesoro nei quali sono investiti i fondi della Social security. Si tratterebbe, dunque, di uno scambio che vedrebbe ampiamente compensata la riduzione della pensione pubblica dal maggiore rendimento dell'investimento privato di una quota della contribuzione. Ma l'autorevole Ufficio del bilancio del Congresso rigetta la tesi della compensazione e stima per una pensione mediana di circa 16.000 dollari una perdita di oltre 2000 dollari entro i primi 20 anni. Uno scambio ineguale. Ma, bisogna ripeterlo, soprattutto, uno scambio aleatorio. I rendimenti dei mercati finanziari - spiega Joseph Stiglitz - tendono a egualizzarsi, nel senso che un rendimento maggiore può ragionevolmente essere atteso solo in presenza di una maggiore rischiosità dell'investimento.
Non si tratta di un rischio puramente teorico. La maggior parte dei Fondi a capitalizzazione accumulati nei decenni passati sono in crisi. Per salvarli, quando è stato possibile, da un'effettiva bancarotta è stato necessario nel corso degli ultimi anni l'intervento della Pension Benefit Guaranty Corporation, l'Agenzia nazionale di garanzia dei Fondi pensione privati. Ma in presenza di una situazione di dissesto generale, l'Agenzia ha esaurito le risorse disponibili, per cui i 44 milioni di americani che partecipano ai Fondi a capitalizzazione non dispongono di alcuna certezza per il futuro.
Per risolvere il problema dal punto di vista delle imprese che hanno istituito Fondi pensione a capitalizzazione con contributi propri e dei lavoratori si va affermando, fino a essere ormai prevalente, una soluzione "ingegnosa". Si è mutato il sistema a prestazione pensionistica definita (defined benefit) - che consente al lavoratore di conoscere esattamente in anticipo l'entità della pensione integrativa - al sistema che fissa l'entità dei contributi (defined contribution), mentre la pensione sarà funzione dell'andamento dei mercati finanziari. In altri termini, un trasferimento del rischio dall'impresa al lavoratore, come si verifica con i famosi piani 401(k) che lasciano ai singoli lavoratori la scelta dell'investimento, senza alcuna garanzia per il futuro della pensione. Un mutamento radicale rispetto alla tradizione americana, che trasforma una parte consistente - e, per molti, la più consistente - della pensione attesa in una scommessa basata sull'andamento dei mercati finanziari.
Ma oltre all'obiezione sulla rischiosità dell'investimento individuale, gli analisti contrari allo smembramento del sistema pubblico fanno una seconda e intrigante obiezione. Perché, se si ritiene a lungo termine più conveniente l'investimento azionario, non si autorizza il Fondo di garanzia della Social Security a investire una parte delle proprie risorse a Wall Street, in sostituzione delle obbligazioni del Tesoro? In questo caso, i singoli cittadini sarebbero liberati dal rischio di una partecipazione individuale e senza rete ai giochi dei mercati finanziari, mentre il Fondo potrebbe garantire un costo di amministrazione impareggiabilmente più basso e una distribuzione del rischio su oltre 100 milioni di contribuenti.
(5) Attendersi delle risposte logiche sarebbe del tutto ingenuo, semplicemente perché nella logica neoconservatrice vi sono due elementi indissolubili. Il primo, per così dire di carattere filosofico, è la libertà di scelta affidata a ciascun individuo, anche a costo di rischiare una vecchiaia fatta di miseria. L'altro, di carattere assolutamente concreto, è che cento e più milioni di quote contributive dirottate a Wall Street, attraverso la partecipazione individuale ai Fondi a capitalizzazione, significano una dimensione fantastica di guadagni di intermediazione e di spazi speculativi.  Con ammirevole franchezza si poteva leggere su Business Week a proposito del "fattore Bush" dopo la riconferma alla presidenza: "La prospettiva di cento milioni di lavoratori che aprono conti individuali - e pagano le relative commissioni agli intermediari finanziari o ai gestori dei Fondi - ha dato slancio al mercato azionario nel dopo-elezioni" (Business Week, 27.12.2004). Scrive icasticamente Robert Reich: "Raramente nella storia è stato offerto uno scambio così cattivo a così tanta gente per arricchire così pochi"
Insomma, il collasso finanziario del sistema è un'invenzione. La Social security può funzionare senza rischi imminenti o gravi per molti decenni. Se poi si volesse promuovere una garanzia di stabilità a scadenza ancora più lunga, in pratica fin verso la fine del secolo, bisognerebbe, sulla base delle proiezioni di cui si discute, incrementare il Fondo di garanzia con una quota relativamente modesta di risorse aggiuntive. Scrive a questo proposito Alan Blinder, economista del Centro per gli studi di politica economica dell'Università di Princeton: "Misurata lungo un periodo di 75 anni, come si fa per i calcoli della Social security, il costo del taglio delle imposte operato da Bush è grosso modo tre volte il gap del finanziamento della Social security"(American Prospect, cit.). In altri termini, "se il taglio delle tasse fosse ridotto di un terzo e le risorse liberate fossero assegnate alla Social security, il suo intero deficit sparirebbe in un colpo".
E' evidente, giunti a questo punto, che sarebbe del tutto ingannevole discutere della riforma rimanendo ancorati alla sofisticazione delle proiezioni attuariali e alle stime rese, nel migliore dei casi, aleatorie dalla complessità delle variabili in gioco in una prospettiva quasi secolare. Il retroterra di quella che viene definita una "battaglia epica" nel corso del secondo mandato di Bush, a cominciare dalle prossime settimane, quando il piano di riforma sarà ufficialmente presentato, ha un carattere eminentemente politico e, per molti versi, storico, trattandosi del passaggio dal vecchio New Deal a quello che viene definito il New Deal conservatore. George Will, autorevole commentatore del Washington Post, schierato a favore della proposta di Bush, scrive che la battaglia sui numeri ha scarso senso ed è fuorviante. Il progetto, afferma, merita di essere difeso come scelta di filosofia politica. I conservatori - argomenta - nel presentare questa "mirabile riforma" non debbono indulgere alla retorica delle profezie: "La verità più sobriamente è che le ragioni filosofiche per riformare la Social security sono molto più importanti delle ragioni di bilancio" (Whashington Post, 20.1.2004).
Si potrebbe ritenere, concludendo, che la crociata contro la Social security sia una vicenda tutta americana. Ma non è così. Il tema della privatizzazione delle pensioni  è presente in tutto il mondo, sostenuto dalle principali organizzazioni finanziarie internazionali come il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale. E' un tema centrale in Europa. E non a caso, le storie dello Stato sociale in America e in Europa, per quanto diverse, hanno sempre avuto momenti di confronto e di intreccio.
 
Quando, all'inizio del 1935, F.D. Roosevelt decise che bisognava far qualcosa di radicale per togliere dalla povertà milioni di cittadini americani non più in età lavorativa, chiese ai suoi consiglieri di studiare i sistemi pensionistici europei, a cominciare da quello britannico. Il suo obiettivo era chiaro e, per quell'epoca, rivoluzionario. Voleva, in sostanza, un regime di protezione universale in grado di coprire tutti i cittadini. Di fronte a un diluvio di obiezioni di carattere economico e organizzativo, rispondeva: "Non vedo proprio perché no. (Tutti i cittadini) dovrebbero essere protetti da un sistema di assicurazioni sociali dalla culla alla tomba". Si apriva - scrive Arthur Schlesinger nella sua monumentale L'Età di Roosevelt - "una nuova fase della storia nazionale". E, non a caso, i suoi avversari lo accusarono di essere un "socialista", "di soffocare la responsabilità individuale" e "di condurre verso l'inevitabile abbandono del capitalismo". In altri termini, di volere importare dall'Europa le perverse concezioni socialdemocratiche allora considerate quasi bolsceviche.
Sui temi dell'eguaglianza la storia europea e quella americana continuarono a intrecciarsi per un lungo periodo che va dal New Deal, allo sviluppo delle esperienze socialdemocratiche nell'Europa continentale, al programma del liberale Beveridge che improntò la politica sociale laburista del dopo-guerra, fino alla "New economics" di Kennedy, ispirata alle politiche keynesiane e alla "Grande società" di Johnson. Ma oggi, nell'era della globalizzazione, i percorsi ideologici sono rovesciati. A partire dalla rivoluzione neoliberista della Thatcher e di Reagan, il welfare europeo così come l'eredità del New Deal sono sotto l'attacco neoconservatore. Le giustificazioni rispondono allo stesso asse di ragionamento: cambia la demografia, la società invecchia e i sistemi di welfare pubblici non sono più finanziariamente sostenibili.
La stranezza sta nel fatto che lo stesso argomento è oggi alla base della crociata di Bush, vale a dire in un paese dove la spesa per il sistema pensionistico pubblico è intorno al cinque per cento del prodotto interno lordo (l'altra parte della spesa pensionistica è già di carattere privato): vale a dire meno della metà della spesa media europea. Dichiarare la "bancarotta" della Social securiy è, come abbiamo visto, un puro atto di terrorismo economico che cerca di mascherare, come scrive George Will, una scelta forte di carattere ideologico. Ma l'aspetto curioso sta nel fatto che anche questa volta, come 70 anni fa, l'esperienza dell'opting out, cioè della libertà accordata ai singoli cittadini di uscire dal sistema obbligatorio pubblico per passare alle assicurazioni private di tipo individuale, viene dalla Gran Bretagna. E' qui che le prime sperimentazioni di privatizzazione su vasta scala sono iniziate con la signora Thatcher per poi proseguire con Blair. Un esperimento che ha già abbondantemente dimostrato i suoi fallimenti, che ha gettato nel caos il sistema e nell'incertezza più brutale milioni di lavoratori. Ma questo è un altro discorso sul quale converrà tornare in un'altra occasione, anche perché il tema della privatizzazione, in forme più o meno estese, è agitato in tutta l'Europa e tocca ormai da vicino l'Italia.
 
Venerdì, 28. Gennaio 2005
 

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