Pensioni basse, due proposte e una alternativa

A sostenere che servano ulteriori risparmi sulla previdenza non c’è quasi più nessuno. Il problema è oggi come provvedere a integrare quelle che non basteranno a sopravvivere. Giliano Cazzola e Tiziano Treu hanno presentato due progetti molto simili, anche in un difetto esiziale. Ma c’è anche un’altra ipotesi da prendere in considerazione

Gli interventi di riforma del sistema pensionistico attuati dal 1992 hanno affrontato il nodo della sua sostenibilità finanziaria, agendo sia sul versante della diminuzione del numero delle pensioni con l’innalzamento dell’età di pensionamento sia su quello della riduzione dell’importo medio di pensione con il calcolo esteso all’intera vita retributiva (Amato) e poi di quella contributiva (Dini).

 

A sostenere oggi la necessità di un ulteriore intervento restrittivo sulle pensioni sono ormai restati in pochi, compreso qualche cocciuto e nostalgico liberista del Partito democratico. Persino la Ragioneria generale dello Stato ha smesso di sollevare il tema, aprendo semmai quello relativo alla sanità. Del resto, come già detto, gli interventi possibili sul sistema pensionistico somma ormai pochi a meno di non intervenire cancellando il principio che tutte le riforme fatte hanno assunto, il pro-rata, o di porre mano alle pensioni in essere.

 

Si pone invece in prospettiva un problema di sostenibilità sociale che riguarderà una larga parte del mondo del lavoro, soprattutto quello parasubordinato, autonomo e delle professioni. Di tutti quei lavoratori cioè che hanno periodi lavorativi discontinui e/o basse contribuzioni, fattori solitamente legati anche a basse retribuzioni. Il calcolo della pensione basato sui contributi versati nell’intera vita lavorativa produrrà per queste tipologie di lavoratori pensioni molto basse insufficienti a garantire un reddito pensionistico adeguato alle loro esigenze di vita come afferma l’art. 38 della Costituzione e, per una parte, sotto la soglia della povertà (per un’analisi dei tassi di sostituzione prevedibili per queste tipologie di lavoratori rinvio al primo articolo, “Preparatevi ad una vecchiaia povera”).

 

Come si può affrontare il problema? Una possibile soluzione era stata prospettata all’inizio dell’ultimo governo Prodi con l’idea di introdurre una pensione di base finanziata dal fisco. La proposta prevedeva anche una graduale unificazione contributiva nel mercato del lavoro con aliquote pensionistiche comprese per tutti i lavoratori tra il 25 e il 27%. L’obiettivo era quello di assicurare a tutti i lavoratori precari una base pensionabile minima derivante dalla somma della pensione di base e di quella contributiva, salvaguardando i livelli pensionistici previsti per i lavoratori dipendenti. Contemporaneamente si sarebbe unificato dal punto di vista contributivo il mercato del lavoro e, come promesso da Prodi in campagna elettorale, si sarebbe ridotto, attraverso la diminuzione contributiva sui lavoratori dipendenti, il cuneo fiscale tra costo del lavoro e retribuzione netta. Parte del finanziamento dell’operazione doveva essere, infatti, attuato con i 5 miliardi di euro indicati da Prodi in campagna elettorale per la riduzione del cuneo, mentre altre risorse dovevano provenire dall’aumento di contribuzione richiesto agli autonomi e ai parasubordinati che avevano allora aliquote attorno al 20%.

L’ipotesi non passò, anche per l’opposizione sindacale, e il governo Prodi preferì dirottare i 5 miliardi di euro sulla riduzione dell’Irap. L’attenzione generale si spostò successivamente sulle modifiche allo scalone e il problema della sostenibilità sociale futura del sistema pensionistico fu ignorato.

 

L’introduzione di una pensione di base è oggi rilanciata in modo bipartisan da Giuliano Cazzola e Tiziano Treu con due proposte di legge simili presentate alla Camera e al Senato che prevedono una legge delega al governo per una revisione del sistema pensionistico dal 1° gennaio 2011 applicabile ai lavoratori di prima occupazione dipendenti e autonomi e agli iscritti alla Gestione separata.

Riassumendo le proposte di legge prevedono:

1.      una graduale unificazione dell’aliquota contributiva a un valore del 26% Cazzola e del 28% Treu, per2/3 a carico del datore di lavoro, del committente o dell’associante.

2.      un trattamento pensionistico formato da una pensione di base finanziata dalla fiscalità generale d’importo pari all’assegno sociale e dalla pensione contributiva.

3.      requisiti per l’accesso alla pensione: 10 anni di soggiorno legale nel territorio italiano, 10 anni di contribuzione effettiva, maturazione dei requisiti anagrafici previsti dalla legge.

4.      un’applicazione ai lavoratori già iscritti alla Gestione separata al 31/12/2010 di meccanismi differenziati di calcolo della pensione nella forma di una maggiorazione fino a un massimo del 20% dei coefficienti di trasformazione, ovvero di un incremento dell’aliquota di computo entro il valore dell’aliquota dei lavoratori dipendenti.

5.      Nella sola proposta Treu è prevista la possibilità per il lavoratore di destinare una quota fino a 2 punti percentuali dell’aliquota di contribuzione obbligatoria alla previdenza complementare.

 

Le proposte prevedono inoltre una revisione dei criteri di perequazione automatica delle pensioni, anche su opzione del lavoratore, secondo meccanismi dinamici di compensazione che prevedano trattamenti iniziali ridotti (idea ripresa da una proposta di Sandro Gronchi). Un ripristino del pensionamento flessibile unificato per vecchiaia e anzianità nel sistema contributivo e anche in quello misto e un riconoscimento di peculiari agevolazioni pensionistiche alle lavoratrici madri.

 

La differenza fondamentale tra l’ipotesi del 2006 e la proposta Cazzola-Treu riguarda il suo campo di applicazione. Cazzola-Treu propongono un’unificazione contributiva per chi entra nel mercato del lavoro a partire dal 2011, o comunque dopo l’approvazione della legge. Avremmo, quindi, per i lavoratori di prima occupazione un mercato del lavoro unificato contributivamente senza differenze tra tipologie di lavoro e di contratto, ma una differenziazione ulteriore tra questi lavoratori, compresi i dipendenti regolari, e quelli già al lavoro prima della data indicata.

 

Si unificherebbe il mondo del lavoro futuro, ma ci sarebbe un lungo periodo intermedio in cui rimarrebbero forti differenze contributive tra lavoratori, compresi i dipendenti regolari. E’ difficile non pensare che per un’impresa sarebbe forte la tentazione di sostituire dipendenti con aliquota contributiva al 33% con dipendenti con aliquota contributiva al 26/28%, a meno di non riservare a esclusivo vantaggio del lavoratore la diminuzione del contributo pensionistico, lasciando inalterato per i datori di lavoro il carico contributivo. La proposta del 2006 si applicava a tutti i lavoratori e questo determinava fin da subito un costo elevato data la diminuzione immediata di entrate contributive per l’Inps (nell’Inpdap sarebbe stata una partita di giro), mentre la proposta Cazzola-Treu non presenta nell’immediato un problema di risorse, ma lo spalma progressivamente nel tempo a mano a mano che aumenta il peso dei nuovi arrivati nel mercato del lavoro.

E’ questo il punto fortemente debole della proposta: se per i lavoratori di nuova occupazione verrebbe meno uno dei fattori di differenziazione oggi esistenti tra le varie tipologie di contratto, nell’immediato, e per un lungo periodo, il mercato del lavoro sarebbe più diviso rispetto a oggi introducendo una differenziazione anche per i dipendenti regolari. Sorprende che a firmare questa proposta non sia solo Cazzola, solitamente attento ai soli temi pensionistici, ma anche Treu che pure dovrebbe essere più attento ai problemi relativi al mercato del lavoro.

Si tratta, quindi, a mio avviso, di una proposta non accettabile ma che ha comunque il merito di riportare all’attenzione un problema sociale alquanto trascurato e ritengo pertanto utile esaminarla in tutti i suoi aspetti. L’idea di aggiungere alla pensione contributiva una pensione di base finanziata dal fisco affronta di petto il problema di chi ha una contribuzione bassa o periodi contributivi irregolari. Per tutti questi soggetti il vantaggio è evidente, aggiungerebbero alla loro pensione contributiva, non diversa da quella oggi prevedibile, un ulteriore importo, pari nella proposta Cazzola-Treu all’assegno sociale, corrispondente oggi a circa 5.350 euro annui.

 

Per i lavoratori dipendenti l’idea del 2006 era quella di rendere la proposta neutra per un lavoratore dipendente regolare con retribuzione annua pari a 25.000 euro. La pensione derivante dalla somma di pensione di base più pensione contributiva, con aliquota unificata e uguale per tutti attorno al 26/27%, doveva essere pari a quella derivante dalla pensione contributiva con aliquota del 33%. Lo schema di Cazzola-Treu è simile, ma l’importo della pensione di base, per raggiungere questo risultato, dovrebbe essere, con aliquota al 26%, superiore all’assegno sociale di almeno il 15%.

 

In ogni caso si avrebbe una redistribuzione a vantaggio delle pensioni più basse. Abbiamo detto dei lavoratori irregolari; per i regolari risulterebbero più alte, rispetto a quanto oggi previsto nel contributivo, le pensioni derivanti da retribuzioni inferiori a circa 25.000 euro e più basse quelle derivanti da retribuzioni superiori. La soglia indicata dipende dal valore che si attribuisce alla pensione di base.

 

La pensione di base non sarebbe una pensione di “cittadinanza”,(1) ma una pensione da lavoro non legata al reddito. Richiede, infatti, un periodo minimo di contribuzione che nella proposta presentata è di dieci anni. L’altro requisito richiesto nella proposta sono i 10 anni di soggiorno legale nel territorio italiano. Mi pare un requisito superfluo, mutuato dalle norme recentemente introdotte per l’assegno sociale: se ci sono i dieci anni di contribuzione ad un ente previdenziale italiano non ci sono in automatico anche i 10 anni di soggiorno legale?

 

Applicando le nuove norme ai soli lavoratori di prima occupazione dal 2011, la proposta lascerebbe scoperti i precari che hanno avuto un’occupazione dal 1996 a oggi. La soluzione, per gli iscritti alla gestione separata, è indicata nella forma di una maggiorazione fino a un massimo del 20% dei coefficienti di trasformazione, ovvero di un incremento dell’aliquota di computo per la pensione, fermo restando quella di finanziamento, entro il valore dell’aliquota dei lavoratori dipendenti.

 

Quest’ultima parte della proposta Cazzola-Treu ci porta a esaminare proposte alternative alla soluzione del problema dell’insufficiente copertura pensionistica futura. Pur avendo lavorato e sostenuto l’idea della pensione di base, infatti, credo che oggi la proposta incontri serie difficoltà di finanziamento se, superando il limite indicato nella proposta Cazzola-Treu, si punta a unificare contributivamente il mercato del lavoro anche per chi è già al lavoro. Con un calcolo di massima una parificazione dell’aliquota al 28% dovrebbe richiedere risorse, al netto degli effetti fiscali, per almeno 5/7 miliardi di euro, la parificazione al 26% risorse per 11/13 miliardi di euro. Trovarli oggi sembra difficile sia per lo stato dei conti pubblici sia per la priorità che sembra data a una riforma fiscale. E’ ovvio che limitando l’unificazione contributiva ai nuovi entranti sul mercato del lavoro questi costi sarebbero drasticamente ridotti, ma ritengo questa ipotesi non accettabile per i motivi indicati.

Si tratta allora di provare a risolvere il problema dell’adeguatezza del sistema pensionistico rinunciando ad unificare contributivamente il mercato del lavoro, tema che potrebbe semmai essere ripreso in alternativa ad una nuova ipotesi di riduzione dell’Irap.

 

Nel sistema retributivo e misto è prevista l’integrazione al minimo del trattamento pensionistico quando questo, a calcolo, non superi un determinato importo pari nel 2010 a circa 6.000 euro annui. Un pensionato, dipendente o autonomo, senza altri redditi personali e familiari, ha quindi diritto a un importo annuo di pensione non inferiore a questo valore, eventualmente ulteriormente integrato da una maggiorazione sociale.

 

A godere dell’integrazione al minimo è oggi il 29% delle pensioni erogate dall’Inps con una sensibile differenza tra quelle dei lavoratori dipendenti e quelle degli autonomi. Sono integrate al minimo il 24% delle pensioni dei lavoratori dipendenti e il 39% delle pensioni degli autonomi, frutto quest’ultimo della bassa contribuzione e dei bassi redditi dichiarati.

 

Nel sistema contributivo l’integrazione al minimo non è prevista, ma è sostituita dalla possibilità per il pensionato, in assenza di altri redditi, di usufruire di parte dell’assegno sociale.(2) In concreto tutte le pensioni contributive d’importo pari o inferiore all’assegno sociale, oggi 5.354 euro, (in effetti, anche quelle di poco superiori) godranno di parte di questo assegno poiché il loro importo costituisce reddito ai fini dell’assegno solo per 2/3.

 

Si può allora agire sul limite indicato dalla legge 335. Se, ad esempio, tutto l’importo della pensione fino al valore dell’assegno sociale non fosse considerato reddito ai fini del godimento dell’assegno stesso, tutte le pensioni fino a 2 volte l’assegno sociale (in termini attuali tutte le pensioni fino a 10.700 euro) godrebbero dell’assegno stesso. Le pensioni d’importo inferiore all’assegno percepirebbero l’intero assegno, le pensioni d’importo superiore ne percepirebbero una parte decrescente all’aumentare del loro importo.

 

Il rischio di questa proposta, rischio già presente peraltro nell’attuale formulazione della 335, è di premiare chi ha le aliquote contributive più basse. A usufruire di questa prestazione sarebbero, infatti, oltre ai lavoratori precari anche molti autonomi per la loro ridotta contribuzione. La soluzione andrebbe ricercata o in un incremento delle aliquote contributive degli autonomi almeno a livello di quelle della gestione separata (26%) o in una diminuzione corrispondente alla minore aliquota dell’importo dell’assegno sociale previsto come integrazione della pensione contributiva.

 

Sarebbe una forma di tutela superiore all’attuale integrazione al minimo. Comporta naturalmente un incremento della spesa futura a partire dall’entrata a regime del sistema contributiva (2030) in corrispondenza della prevista diminuzione del rapporto spesa/Pil.

 

Le proposte di Cazzola-Treu di aumentare i coefficienti di trasformazione o le aliquote di computo per i lavoratori iscritti alla gestione separata hanno il pregio di essere semplici, ma ignorano le situazioni in cui la precarietà è data dalle interruzioni del lavoro o dall’obbligo di iscrizione ai fondi autonomi. L’aumento dei coefficienti inoltre varrebbe solo per chi al momento della pensione è iscritto a quella gestione o, in caso di totalizzazione, solo per parte di pensione erogata dalla gestione separata. E’ comunque un’ipotesi su cui lavorare, anche se si configura come una manomissione del sistema contributivo (nell’ipotesi Cazzola-Treu riguardando solo i lavoratori già iscritti alla gestione separata sarebbe una manomissione temporanea).

 

Un’altra soluzione sarebbe quella di affrontare il problema all’interno di una riforma degli ammortizzatori. Le basse pensioni sono il frutto, oltre che di basse contribuzioni, anche di carenza di periodi contributivi. Per i dipendenti regolari questo problema è risolto o attenuato dalla contribuzione figurativa prevista in caso di Cig o di mobilità. Una riforma degli ammortizzatori che estendesse le forme di tutela contro la disoccupazione prevedendo per questi periodi e per tutti una contribuzione figurativa potrebbe affrontare il problema delle carenze di periodi contributivi. Gli oneri di questa contribuzione dovrebbero essere coperti direttamente dagli schemi di assicurazione per l'erogazione degli ammortizzatori sociali; in questo modo  i datori di lavoro si farebbero carico di una parte dei costi sociali differiti (al momento della pensione) del ricorso al lavoro flessibile e precario.

 

Resta per alcune categorie il problema del basso valore delle aliquote contributive. Per questo non c’è altra strada che il loro incremento. Se si ritiene, autonomi in testa, che il loro incremento non sia possibile l’alternativa è quella di tenersi le basse pensioni. Il tema però andrebbe affrontato, in queste categorie, con i giovani e non con chi è al riparo del sistema retributivo.

 

Note

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1) Una pensione di cittadinanza già esiste ed è la pensione e l’assegno sociale legati all’età e al reddito.

 

2) Agli effetti del conferimento dell'assegno sociale non concorre a formare reddito la pensione liquidata secondo il sistema contributivo ai  sensi  dell'articolo  1,  comma  6,  a carico di gestioni ed enti previdenziali  pubblici e privati che gestiscono forme pensionistiche obbligatorie  in  misura  corrispondente  ad  un terzo della pensione medesima e comunque non oltre un terzo dell'assegno sociale (art. 3, comma 6, legge 335).
 
Giovedì, 4. Marzo 2010
 

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