Pensioni / 2 - Tra scaloni e coefficienti

L'età media di pensionamento non è lontana dalla media europea e probabilmente la raggiungerebbe se il sistema produttivo non tendesse ad espellere i lavoratori più anziani. Quanto alla modifica dei coefficienti, innanzitutto non è una scelta tecnica ma politica, e in secondo luogo la tesi di un aumento futuro della spesa è tutta da verificare
Come sempre accade, i confronti di tipo generale fra confederazioni sindacali e governo suscitano alternativamente perplessità per l'estensione o per l'incompiutezza della materia in discussione. Nel suo articolo Maurizio Benetti rimprovera al sindacato vaghezza di propositi e mancanza di scelte prioritarie. Credo anch'io che una forte selettività degli obiettivi, ordinati secondo una precisa gerarchia di priorità, sia un fondamento essenziale di un'efficace piattaforma negoziale o anche concertativa. Compito non semplice in generale, ma reso ancora più complicato quando non si sa esattamente dove voglia andare la controparte e quale concreta disponibilità alla mediazione sia in grado di esercitare. Situazione che oggi si riproduce per le incertezze e l'intrinseca debolezza del governo.

Quale che sia lo scenario, rimane il fatto che, ancora una volta, al centro del confronto troviamo le pensioni, lo scalone, i "coefficienti" previsti dalla riforma contributiva. Ed è su questo che voglio soffermarmi.
 
Partiamo dalla questione dello scalone (o scalini) che coincide con quella dell'allungamento dell'età minima di pensionamento dagli attuali 57 a 60 anni. In Italia l'età media di uscita dal mercato del lavoro oscilla intorno a 60 anni, circa un punto al di sotto della media europea. Uno scarto non drammatico, che ha anche la sua origine nella tendenza discriminatrice che colpisce  i lavoratori più anziani, costretti a uscire dal mercato del lavoro anche contro la loro volontà, perché licenziati o dopo un periodo di messa in cassa integrazione e mobilità. Se la media dei lavoratori anziani (56-64 anni) in attività è in Italia intorno del 30 percento contro la media europea del 40, il problema non sta in una differenza antropologica, ma nelle dinamiche del mercato del lavoro.
 
Nel discutere questo punto non si può prescindere da tre constatazioni. La prima è che le imprese tendono a sbarazzarsi dei lavoratori cinquantenni, sia perché danno scarso rilievo alla professionalità derivante dall'esperienza di lavoro, sia perché il loro costo del lavoro è più alto rispetto ai giovani con contratti precari. La seconda constatazione è che dopo i 50 anni è difficile trovare una ricollocazione. La terza è l'assenza di sistemi generalizzati di difesa del reddito, quando si entra nell'area della disoccupazione. L'insieme di queste circostanze lascia la pensione come soluzione unica e obbligata anche per chi vorrebbe rimanere al lavoro. Soluzione, peraltro, auspicata e rivendicata dalle imprese, come insegna il recente caso della Fiat.
 
Per dimostrare la pretesa anomalia italiana vediamo spesso citare i famosi modelli nordici. Ma in Svezia o Danimarca, esempi diventati di moda, i tassi di occupazione sono i più alti del mondo, molto più alti della media europea. Per un'impresa è più importante conservare un lavoratore sperimentato, indipendentemente dalla sua età e dalla maggiore costosità. In ogni caso, siccome il rischio della disoccupazione non è mai scongiurato, intervengono allora gli strumenti di salvaguardia del reddito con indennità di disoccupazione dell'80 per cento del salario che si prolungano per un certo numero di anni, alla scadenza dei quali (se non si è trovata una nuova collocazione) può intervenire una pensione per inabilità al lavoro o un consistente assegno sociale (insieme con vari benefici legati al costo dell'abitazione, ai servizi e così di seguito). Siamo in grado di importare un modello di questo tipo in Italia dove l'indennità di disoccupazione è del 40 per cento del salario e per la durata di sei mesi? Questo non significa che l'età media del pensionamento non possa innalzarsi anche in Italia, recuperando alcuni decimali di scarto sulla media europea. Ma non si può discuterne in astratto e a prescindere dal contesto del mercato del lavoro e dei sistemi di assicurazione. E soprattutto non si può imporla per decreto.
 
Un altro argomento portato a difesa dello scalone, vale a dire il passaggio istantaneo o scaglionato in due o tre anni, è che la spesa pensionistica è destinata ad aumentare di alcuni miliardi di euro. Aumentare rispetto a che cosa? Alla previsione del governo Berlusconi-Tremonti. Una previsione legata a una legge varata dal passato governo per essere applicata dal nuovo. Che non l'ha prevista nel suo programma, e che si trova a fronteggiare uno scontro sindacale e sociale al quale opportunisticamente o furbescamente si sottrasse il governo di centrodestra.
 
Di fronte alla debolezza o all'inconsistenza degli argomenti portati a difesa dello scalone, entra in scena l'argomento principe, considerato inappellabile. La promessa è stata fatta alle istituzioni europee, ed è quindi vincolante. Ma l'argomento è fasullo per due ragioni. La prima è che il governo di centrosinistra, invertendo la deriva berlusconiana, ha già riportato il livello del disavanzo al di sotto dei parametri di Maastricht,  e ha avviato l'inversione della tendenza a crescere del debito pubblico che ci aveva regalato il governo di centrodestra. La seconda che si tende a nascondere, ma si tratta del segreto di Pulcinella, è che le famose "raccomandazioni" provenienti da Bruxelles o dal Fondo Monetario internazionale sono confezionate in casa, sono un prodotto home-made, che Bruxelles o Washington rinviano a Roma per rafforzare le posizioni cosiddette riformatrici, attraverso l'ampio battage mediatico e pubblicitario che le accompagna. In effetti, le istituzioni europee, se non fossero sollecitate, avrebbero ben altre questioni di cui occuparsi, compresi una notevole quantità di paesi che non hanno mai fatto una riforma effettiva del sistema pensionistico - o, quando ne hanno fatta più d'una come nel Regno Unito, l'hanno portato in una situazione confusionale.
 
Il secondo tema riguarda la revisione dei coefficienti sulla cui base si determina l'ammontare contributivo che, alla fine della carriera di un lavoratore, si traduce in rendita pensionistica. La revisione dei coefficienti dovrebbe, in altri termini, promuovere un abbassamento delle pensioni future, visto che è aumentata l'attesa di vita. E' una misura prevista - si afferma - dalla riforma del 1995 con la quale è stato introdotto il sistema contributivo. E' vero, ma la legge che prevede una revisione ogni dieci anni, associa al prolungamento dell'attesa di vita altri elementi, come l'andamento del PIL e dell'occupazione. In sostanza se produttività, occupazione e reddito nazionale aumentano, aumenta anche la sostenibilità finanziaria del sistema pensionistico, senza ridurre i (già ridotti) rendimenti pensionistici.
 
Al di là di questi calcoli che prendono in considerazione, come giustamente ricorda Benetti, non una sola  ma diverse variabili, la decisione finale spetta al governo e al Parlamento, sentite le parti sociali. Non c'è una ghigliottina di carattere statistico, ma uno scenario in cui s'intrecciano dati previsionali di carattere tecnico e scelte politiche che coinvolgono da un lato, la sostenibilità finanziaria; dell'altro, la tollerabilità sociale dei potenziali aggiustamenti.
 
Dal lato della sostenibilità finanziaria nei prossimi decenni sono in gioco almeno due fattori. Il primo riguarda la dinamica della crescita. Durante il governo Berlusconi abbiamo avuto alcuni anni di sostanziale stagnazione, ma le previsioni, comprese quelle del ministro dell'economia, indicano una prospettiva di ripresa consistente e duratura che, per definizione, tende ad abbassare il rapporto spesa pensionistica /PIL. Il secondo aspetto riguarda l'andamento dell'occupazione. Sotto questo profilo, rimane il problema di un basso tasso di occupazione (in termini patologici, nel Mezzogiorno). Ma ciò non toglie che nei dieci anni che ci separano dal varo della riforma Dini, il tasso di occupazione in Italia è aumentato di circa sette punti dal 51 al 58 per cento, riducendo il distacco dalla media europea. Se l'aumento del tasso di occupazione continuerà a crescere e, soprattutto, se avremo un'occupazione meno precaria, come tutti auspicano, la sostenibilità finanziaria del sistema ne sarà rafforzata. E, del resto, anche le previsioni fatte nelle sedi di Ecofin indicano una sostanziale stabilità del sistema pensionistico italiano e, nel peggiore dei casi, un minore slittamento di quanto si può prevedere per i paesi a noi più vicini come Francia e Germania.
 
Questo per la sostenibilità finanziaria che si presenta in termini meno allarmistici di quanto ci viene propspettata. Ma che dire dal punto di vista della sostenibilità sociale? La riforma Dini, studiata e poi varata nella prima parte degli anni 90, poteva legittimamente fondarsi su  un'ipotesi di mercato del lavoro ancora "tipico", caratterizzato da contratti a tempo indeterminato, con occupazione a tempo pieno e con l'effettiva possibilità di una carriera lavorativa di 40 anni. Su questi presupposti, il passaggio dal sistema retributivo a quello contributivo avrebbe implicato una relativa, ma non drammatica, riduzione della rendita pensionistica.
 
In questi due o tre lustri, le cose sono cambiate profondamente. Le forme di lavoro "atipiche" tendono a diventare tipiche. Si comincia a lavorare più tardi. Si lavora part time, con contratti a termine, in condizioni di pseudo-autonomia, con fasi intermittenti di disoccupazione sempre più frequenti. In queste circostanze, il sistema contributivo, confrontato con quello retributivo tradizionalmente riferito agli anni più recenti della vita lavorativa, rivela i suoi effetti potenzialmente più dirompenti. Si può infatti arrivare all'età della pensione, con una contribuzione discontinua, con vuoti consistenti collegati a periodi di disoccupazione involontaria, di lavoro ridotto  o di astensione dal lavoro per ragioni di cura.

Il problema non sta nella logica del sistema in quanto tale, ma nel suo rapporto con le dinamiche del mercato del lavoro. E' perciò necessario prevedere nell'ambito di un coerente sistema di ammortizzatori sociali, l'attribuzione di una contribuzione figurativa nei periodi d disoccupazione, di occupazione ridotta o di astensione motivata dal lavoro.
 
Vi è un secondo problema che si pone sotto il profilo della sostenibilità sociale. Si tratta dell'indicizzazione. La riforma del 1992 ha abolito il collegamento tra pensione e andamento medio dei salari, grosso modo corrispondente a quello del reddito nazionale. La conseguenza di questo sganciamento - che si somma a una ridotta indicizzazione rispetto al tasso d'inflazione - incide pesantemente sulle condizioni di vita per una grande massa di lavoratori con pensioni relativamente basse. Poiché per soglia di povertà si intende statisticamente quella che corrisponde  al 60 per cento del reddito mediano della popolazione, un numero crescente di pensionati rischierà di finire, andando avanti negli anni, al di sotto della soglia di povertà.
 
Stiamo parlando di problemi risolvibili con un colpo di bacchetta magica? Ne siamo ben lontani. E' necessario un programma coerente e di lunga lena. Sotto  questo profilo è necessario uscire dalla trappola di un discorso frammentato. Sarà inevitabile che i sindacati pongano sul tappeto gli aggiustamenti necessari per rendere compatibile con un'accettabile grado di equità sociale la riforma del '95. Ma se non si può fare tutto in una volta, è anche necessario non smarrire il senso del quadro complessivo. E se il cammino per fornire al sistema una maggiore coerenza e tollerabilità non solo finanziaria ma anche sociale si annuncia lungo, questa non è una buona ragione per cominciarlo con due passi nella direzione sbagliata. Passi sbagliati destinati a far male anche al governo minacciato dall'aggressione della destra, ma anche dalle incertezze interne, e da un'immagine sbiadita anzi tempo, alla quale non gioverebbe un ulteriore abbassamento del consenso popolare.
Mercoledì, 28. Marzo 2007
 

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