Pensionamento, inevitabile la flessibilità

E' una strada obbligata per le condizioni attuali e di prospettiva del mercato del lavoro e l'obiezione della Ragioneria sui costi appare immotivata. Per "Opzione donna", per esempio, si è speso metà del previsto. Le possibili modulazioni nelle diverse situazioni

Si seguita discutere come se un pensionamento anticipato rispetto all’età standard debba essere comunque un evento eccezionale. La riforma Dini aveva previsto la flessibilità come strutturale al sistema contributivo di calcolo della pensione nel range tra 57 e 65 anni.

Le condizioni attuali e di prospettiva del mercato del lavoro giustificano a maggior ragione un sistema flessibile anche tenendo conto che una manutenzione efficace della salute delle persone potrebbe mantenerle attive anche ben oltre i 70 anni.

Un’altra ragione nasce dal fatto che sempre meno gli ultimi anni della vita lavorativa sono i migliori dal punto di vista della retribuzione. E’, invece, sempre più frequente il caso di chi perdendo il lavoro oltre i 55 anni si trova a dover accettare un lavoro meno retribuito di prima. Si osserva che la cosa riguarda anche i dirigenti.

Allora mi pare ragionevole poter prevedere una decina di anni nel corso dei quali sia possibile accedere alla pensione, continuare a lavorare a tempo parziale oppure no versando altri contributi, ricalcolare la pensione tenendo conto degli ulteriori contributi versati e finalmente ritirarsi in via definitiva.

Per lo Stato e l’Inps non c’è costo se i coefficienti di trasformazione sono onesti. Per il lavoratore una gamma di possibilità di scelta e seconda della sua condizione e prospettiva. Preferibile che passi a tempo parziale, ma non deve essere un obbligo. Così come dovrebbe poter decidere di non trasformate subito in pensione tutto il montante contributivo accumulato, ma rinviare ad una fase successiva l’entrata in gioco della parte che resterebbe accantonata. E dovrebbe poter rimodulare il dosaggio strada facendo.

So bene che la Ragioneria strillerà che ci sono problemi di cassa. "Opzione donna" ha dimostrato che il sistema ha il servofreno. Si è spesa la metà del preventivato.

Un ricorso di massa a soluzioni del genere creerebbe problemi organizzativi alle aziende. Bisogna affrontarli anche prevedendo compensazioni qualora si dimostrino giustificate. A maggior ragione deve prendere piede una contrattazione decentrata che sappia affrontare i problemi di organizzazione del lavoro con assunzione reciproca di responsabilità tra aziende e rappresentanti dei lavoratori. E bisogna smettere di parlare di conciliazione e invece fare il contrario, come avvenuto nel Jobs Act per il part time elastico.

C’è il problema di chi arriva al traguardo in condizioni di salute non brillanti e magari proprio non se la sente di continuare a lavorare neppure a tempo parziale; ed allora deve poter combinare la pensione contributiva maturata con un surrogato di compensazione all’invalidità.

Altra tipologia da considerare è quella dei lavori usuranti. L’impianto del sistema attuale sembra ragionevole, ma  ci sono differenti gradazioni di usura (davvero c’è chi pensa di assimilare  la condizione dell’altoforno o degli autisti di autobus urbani a quella delle maestre d’asilo?). E rimane un problema: perché non devono pagare le aziende usuratrici?

Sono ragionamenti da valere con l’attuale sistema e buoni anche qualora si proceda con una riforma fondata su una base pensionistica uguale per tutti e pagata con il sistema fiscale alla quale sommare quella contributiva unificando per tutti l’aliquota al 24-25%, e a queste sommare ulteriormente quella complementare. Abbiamo cominciato a parlarne ai tempi dell’ultimo governo Prodi, il consenso sembra allargarsi, ma non pare che si faccia sul serio.

Naturalmente va affrontato il problema di come si collochi la previdenza complementare in un tale impianto, anche in relazione alle funzioni che potrebbe avere rispetto al problema della non autosufficienza. Anche su questo le idee sono molte e disordinate. Meritevoli di ragionamenti specifici.

Infine resta un problema che non si risolve ma tende ad aggravarsi: il solco tra lavoratori dell’impiego privato a quelli pubblici. Non mi lamento che per loro sia stato salvato l’articolo 18. Vedo nel governo una smania di cambiare le regole contrattuali per dare valore al contratto aziendale perfino in alternativa a quello nazionale. Il governo pensa anche ai contratti pubblici? Oppure pensa proprio che la separazione tra questi mondi debba accrescersi?

Lunedì, 2. Novembre 2015
 

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