Partito unico e una sinistra senza identità

Prodi coerente, non D’Alema, nel volere la nascita del partito democratico, considerando superata l’esperienza socialista in Europa. Ciò in contrasto con i movimenti nella società. Perché si è lasciato cadere il progetto di Trentin

Romano Prodi lavora da anni alla costruzione di un soggetto politico unitario del centrosinistra che esula dalla tradizione socialista e socialdemocratica della sinistra italiana ed europea. La proposta che ha di recente avanzato di una lista unitaria delle forze dell’Ulivo alle elezioni europee del 2004 è, in questo disegno, la precondizione necessaria alla realizzazione del partito democratico. L’Internazionale Socialista, ha sostenuto Prodi, rappresenta un contenitore, un ‘otre’, vecchio, mentre il nuovo partito e i suoi rappresentanti devono collocarsi “oltre i recinti ideologici della vecchia Europa”. Posizione non nuova e coerente. Nel giugno del ’97, nella sua veste di Presidente del Consiglio, ad una delegazione di parlamentari socialisti, appartenenti ai gruppi della sinistra democratica (PDS) che lo aveva incontrato per una valutazione sulle prospettive politiche, senza molti giri di parole affermò che in Europa la fase socialdemocratica si era conclusa e non esistevano valide prospettive per i partiti socialisti. Un convincimento che riecheggiava quello di Ralph Dahrendorf il quale, con analoghi intenti, qualche tempo prima aveva parlato e scritto sulla “fine del secolo socialdemocratico”. L’affermazione suscitò nei presenti qualche imbarazzo, ma fu presto accantonata, sotto l’incalzare degli accadimenti politici che si muovevano in una direzione opposta a quella indicata da Prodi. Da noi, in Italia, erano in corso i lavori del Forum della Sinistra per il progetto della ‘Cosa 2’ e si stavano preparando gli Stati Generali della Sinistra (Firenze febbraio ’98). In Europa, nei mesi che seguirono quell’incontro, i partiti socialisti vincevano le elezioni e tornavano al governo, in Francia con Jospin, in Germania con Schroeder, mentre in Inghilterra trionfavano i laburisti di Tony Blair.

Sul perché oggi, alla vigilia di una stagione politica decisiva per le forze che si oppongono al governo Berlusconi, Prodi riproponga con forza il suo progetto, non vi è molto da discutere, se non prendere atto che, pur in una diversa situazione e rivestendo ruoli differenti, tale disegno ha continuato a vivere ed è stato portato avanti. Sia nei confronti dei partiti del centro dell’Ulivo, con la nascita, prima, dell’Asinello ed in seguito della Margherita, sia verso la sinistra con l’invito rivolto da Arturo Parisi ai Democratici di Sinistra a sciogliersi, proprio alla vigilia del loro primo Congresso (Torino, gennaio 2000). E’ essenziale, invece, per la sinistra, cercare di comprendere le ragioni delle difficoltà e delle incertezze dei DS a confrontarsi oggi con questa impostazione, e capire i motivi che hanno indotto importanti dirigenti, ad iniziare dal Presidente del Partito, a cambiare radicalmente opinione. Massimo D’Alema, nel suo ascoltato intervento al Congresso di Torino, aveva in maniera inequivoca collocato e ancorato i DS tra i partiti socialisti: “Noi siamo un partito del socialismo europeo…questo non è un tratto accessorio ma il cuore della nostra identità…Non riesco a concepire la sinistra al di fuori dell’Internazionale Socialista”. Così come netto era stato nel riconoscere chi aveva avuto ragione nel lungo duello tra le idee del socialismo democratico e l’esperienza totalitaria del comunismo: “E’ quella del socialismo democratico la parte che ha avuto ragione”. E, di conseguenza “…avremmo fatto un errore se fossimo usciti dalla esperienza del Partito Comunista Italiano per fondare un nuovo partito senza una precisa identità”. Parole importanti, pronunciate rivestendo anche il ruolo di capo del governo, che avevano il merito di prendere con nettezza le distanze dalle posizioni di coloro che, nel realizzare la svolta che portò alla nascita del PDS, avevano messo sullo stesso piano la crisi e il crollo del comunismo con quella della socialdemocrazia. Affermazioni precise, anche se venute dopo undici anni dalla caduta del muro e senza che le resistenze ad inserire la parola “socialista” nel nome del partito, già presenti alla nascita del PDS, come riferisce Fassino nel suo libro, fossero superate. E nonostante che l’“impaccio” della presenza in Italia di un altro significativo partito socialista, nel frattempo, fosse venuta meno. Quelle resistenze non esprimevano, naturalmente, solo difficoltà di carattere terminologico, ma celavano un dissenso politico e il permanere di ambiguità su una questione fondamentale: l’identità presente e futura del partito dei Democratici di Sinistra. Dissenso mai del tutto superato e che ritroviamo, ad esempio, in recenti scritti di Reichlin (Riformismo e capitalismo globale, 2003) nei quali si continua a legare l’esaurimento del comunismo a quello del socialismo e addirittura si afferma che occorre “prendere atto che la parola stessa ‘socialismo’ non si capisce bene cosa significhi”.

Risulta veramente poco comprensibile come, in una fase nella quale, grazie al protagonismo di grandi soggetti sociali e dei movimenti, e mentre stava emergendo nella coscienza degli elettori del centrosinistra la necessità di tenere insieme profilo programmatico ed azione politica, si proponga, nei fatti, di accantonare il carattere costitutivo l'identità dei DS, senza un minimo di riflessione teorica e, ancor di più, senza una grande ed appassionata discussione di massa che ne faccia comprendere la necessità. Posizioni che rappresentano comunque la spia delle difficoltà e delle incertezze dei DS a confrontarsi con la vera sfida politica riproposta con nettezza da Prodi. Non si comprende cosa spinge oggi il gruppo dirigente del partito a giustificare la nascita di un indistinto “partito riformista europeo” o, per citare le preoccupazioni di un D’Alema insolitamente autocritico (3 ottobre 2001), “…a far sì che si compia l’aspirazione di una parte del centrosinistra – ulivista e centrista – a rendere subalterna la sinistra riformista di radice socialista”. Va anche detto che questa ‘aspirazione’ è stata resa più agevole proprio dalla proposta che, da ultimo e contraddicendo precedenti affermazioni, Giuliano Amato e Massimo D’Alema hanno espresso, con l’intento di superare l’esperienza socialdemocratica e l’Internazionale socialista, per dare vita ad una sorta d’Internazionale democratica. Proposito che, per dirla con Massimo Salvadori: “rappresenta l’ennesima variante della tradizionale velleità della sinistra italiana di mascherare le proprie debolezze”.

Si impongono pertanto una serie di domande alle quali occorre rispondere, prima di procedere oltre. Un tale disegno non è forse in contraddizione con le indicazioni e le sollecitazioni venute in questi mesi dalla parte più attiva della società civile e del mondo del lavoro che certo non hanno richiesto all’opposizione e, in particolare, alla sinistra uno spostamento del proprio agire in senso più moderato o centrista? E ancora, non rappresenta, forse, una precipitosa e poco motivata fuga in avanti del ceto politico dalle vere priorità sulle quali tutto il centrosinistra dovrebbe essere impegnato: in primo luogo la definizione del programma per le prossime elezioni e la costruzione, attorno a questo, di una coalizione più ampia dell’attuale Ulivo, comprensiva di Associazioni, Movimenti e con un’intesa politica di legislatura con il partito di Bertinotti? Quale cambiamento si è prodotto, in questo breve tempo, nella società e nella politica italiana tale da determinare un mutamento così radicale nelle prospettive dei DS e da giustificare la rinuncia ad un’autonoma istanza della sinistra?. E’ proprio così difficile per i DS sostenere con il massimo di lealtà un’alleanza tra il riformismo socialista e gli altri riformismi, e non essere invece così disponibili all’assimilazione del primo ai secondi come, inevitabilmente, capiterebbe con la costituzione di un’indistinta formazione democratica? Come si pensa di rappresentare la sinistra senza un soggetto, una politica, una costruzione intellettuale, o questo è l’approdo cui si mirava già da tempo? Una sinistra che perde la sua ispirazione socialista, venendo meno alle sue idealità, ai suoi valori e ai suoi fini, non cessa anche di essere di sinistra, creando sconcerto, disagio e divisione in una parte significativa dei militanti e del proprio elettorato? Su questo punto appare senza dubbio condivisibile la tesi sostenuta da Salvadori: “Il riformismo della sinistra, che continuo a vedere legato primariamente al socialismo, deve avere una sua autonomia, i suoi referenti sociali privilegiati, e ha bisogno di uno specifico soggetto che se ne faccia rappresentante…”.

Va per altro ricordato che, in quest’ultimo anno e mezzo, quanti si sono mossi e hanno manifestato, non l’hanno fatto solo per difendere la democrazia e la Costituzione dagli assalti del governo, o richiedere all’opposizione maggiore unità, ma anche per affermare il valore di una ‘democrazia partecipata’ che non intende più delegare senza riscontri e, nello stesso tempo, per segnalare i difetti di crescente autoreferenzialità e chiusura al rinnovamento di una parte non piccola della classe politica del centrosinistra. Sottovalutare nelle future decisioni e comportamenti questo comune sentire di tante persone, rischia di essere pagato in minore entusiasmo e ridotta partecipazione nei futuri decisivi appuntamenti elettorali. Rischi e difficoltà che il gruppo dirigente dei DS sembrava aver capito, specie dopo aver prodotto, con la regia di Bruno Trentin, e approvato in occasione della Convenzione per il programma di Milano (aprile 2003), un impegnativo aggiornamento dei contenuti e della propria strategia. Ed allora perché non si è riflettuto sulle ragioni di fondo per le quali i risultati elettorali hanno premiato, non chi, come Rifondazione, tendeva a farsi rappresentante esclusivo della protesta sociale, ma un progetto che si veniva delineando da una esigenza di trasformazione (socialista) necessariamente gradualista (riformista), un progetto che conteneva in sé la rappresentanza di valori e di esigenze poco avvertite nella pratica politica degli ultimi anni? In questo contesto è stato comunque importante che il Segretario abbia evitato, nelle fasi più complicate della polemica interna, di seguire chi gli indicava la strada sbrigativa del procedere solo con “chi ci stava”, e operato per tenere aperto il dialogo e il confronto, sia all’interno del partito che nei confronti degli interlocutori esterni. Dialogo, confronto, pratica democratica e rispetto delle diverse posizioni che adesso, per la portata delle opzioni poste e le decisioni da assumere, risultano indispensabili ed è anzi necessario chiedere e fare molto di più.

Associazione LABOUR “Riccardo Lombardi”

Lunedì, 20. Ottobre 2003
 

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