Occupazione, le menzogne del governo

Manipolando demagogicamente i dati la maggioranza afferma che la situazione è migliorata: si tratta di nient'altro che bugie. Se si esaminano tutti i numeri appare un ben altro quadro:diminuisce il tasso d occupazione, mentre aumenta la precarietà
Secondo la propaganda che sommerge televisioni e una parte di giornali, in Italia grandi miglioramenti si sono verificati, nell’epoca d’oro del governo di centrodestra, nel campo dell’occupazione. Illusionismo, distorsione dei dati e menzogne sono anche in questo campo l’anima della propaganda elettorale. Ed è certo forte la tentazione, in questo come in tanti altri casi, di lasciar correre, e non rispondere. Ma è  una tentazione sbagliata. Si dice che le bugie hanno le gambe corte. Ma questo è vero nel periodo medio-lungo. A breve corrono, si diffondono, confondono. Ricordate George Bush sulle motivazioni della guerra all’Iraq? Il 70 per cento della popolazione americana fu convinta che i terroristi dell’11 settembre erano iracheni, mentre non ce n’era nemmeno uno.
 
La disoccupazione è diminuita, l’occupazione è cresciuta, la precarietà non esiste se non nella misura quasi fisiologica con quale si presenta in tutta l’Europa – suonano i versetti della propaganda berlusconiana. Senonché, tutti i dati del mercato del lavoro: tassi di attività, occupazione, disoccupazione, riduzione della precarietà, raccontano una storia diversa. I miglioramenti realizzati negli anni del centrosinistra sono stati fermati, e la tendenza è stata progressivamente rovesciata negli anni del centrodestra. Procediamo per punti.
 
La disoccupazione. Il centrosinistra aveva trovato fra il 1996 e il  1997 un tasso di disoccupazione tra i più alti dell’Unione europea, intorno all’11.5 per cento. Quando lasciò, la disoccupazione fece registrare, nella media del  2001, un tasso del 9,1 per cento. Berlusconi fece la campagna elettorale, impegnandosi nel “contratto con gli italiani” a dimezzare la disoccupazione: sarebbe scesa, in virtù delle sue magie, al di sotto del 5 per cento. Anche in questo caso, il “contratto” si è rivelato una bufala. Il tasso di disoccupazione si è attestato nella media dei primi tre trimestri del 2005 al 7,5 per cento. Ma nemmeno questo dato, considerato isolatamente, ci dà la misura del fallimento delle promesse berlusconiane.
 
Il tasso di disoccupazione, infatti, è una misura statistica che rileva, secondo i criteri internazionalmente definiti, il dato dei lavoratori che hanno cercato attivamente lavoro nel corso delle quattro settimane che precedono la rilevazione continua sulle forze  di lavoro dell’Istat. Ora, la ricerca attiva di un’occupazione è condizionata non solo dal bisogno di cercare un lavoro, ma anche dalle possibilità concreta di trovarlo. Se ho cercato inutilmente nel corso dell’ultimo anno un’occupazione senza trovarla, posso essere stato indotto a rinunciare alla ricerca nel periodo che precede la rilevazione. Ne segue che, dal punto di vista statistico, non sarò più un disoccupato, ma mi collocherò nel limbo delle non forze di lavoro, secondo la definizione tecnica, “scoraggiate”, o comunque fuori del mercato del lavoro. In sostanza, le informazioni sulla disoccupazione per essere significative debbono essere correlate a quelle sul tasso di occupazione. E’ importante, in altri termini, sapere se e quanto cresce l’occupazione in relazione alla popolazione in età di lavoro.
 
L’occupazione. I dati sull’occupazione ci mostrano, dunque, i seguenti andamenti. Nei cinque anni di governo di centrosinistra (1996-2001) l’occupazione totale italiana aumentò di circa 1.400.000 unità – una crescita media dell’1,2 per cento all’anno, vale a dire tra le più elevate dell’Unione europea. Per un confronto omogeneo con i risultati del governo di centro-destra – considerato che gli ultimi dati utilizzabili sono quelli del terzo trimestre del 2005 - il confronto può essere fatto tra gli ultimi quattro anni del centrosinistra e i primi quattro del centro-destra. In questo caso, l’aumento dell’occupazione è di circa 1.200 mila per il primo e di circa 900.000 per il secondo. Si può osservare che si tratta di una dinamica significativamente rallentata. Ma non è questo il punto. Il dato più importante è il peggioramento del rapporto fra occupati e persone in età di lavoro, vale a dire il tasso di occupazione, che è quello a cui si riferisce l’Unione europea per confrontare i diversi paesi, e valutare il grado di avvicinamento all’obiettivo di Lisbona di un tasso di occupazione media del 70 per cento.
 
Vediamo cos’è successo. Negli ultimi quattro anni del centrosinistra (1998-2001), il tasso di occupazione  passa dal 52,3 al 55,9 con un aumento di 3,6 punti. Nei quattro anni successivi (2002-2005) la crescita è dell’1,2, un terzo rispetto al periodo precedente. Ma c’è di più. la crescita si concentra nei primi due anni. Vale a dire, quando con la “sanatoria” sono regolarizzati circa 700.000 immigrati, persone che già lavoravano, sia pure in condizioni di clandestinità. Nei due anni successivi, il tasso di occupazione non solo cessa di aumentare ma, per la prima volta nell’ultimo decennio, comincia a diminuire, passando dal 57,9 del terzo trimestre 2003 al 57,4 del terzo trimestre 2005 (ultimo dato disponibile).
 
Insieme col tasso di occupazione prima ristagna poi comincia a diminuire il tasso di attività. Nell'ultimo quadriennio del centrosinistra il tasso di attività (occupati più disoccupati) passa dal 59 al 61,6 per cento. Nei primi due anni del governo di centro- destra sale fino a 62,9 - effetto dell'aumento di occupazione nella massima parte dovuto alla "sanatoria" - mentre nei due anni successi, per la prima volta nell'ultimo decennio, fa registrare una netta inversione di tendenza, calando dal 62,9 al 61,8 fra il terzo trimestre 2003 e il terzo trimestre 2005. In altri termini, il tasso di attività è tornato sostanzialmente al dato del 2001, mentre la popolazione in età di lavoro è aumentata dell’1,2% nell’ultimo quadriennio (in quello precedente la stessa era diminuita dell’1,2%).
 
A questo punto possiamo trarre una prima conclusione: il governo di centro-destra, manipolando i dati e negando la realtà, inganna gli elettori su un punto, come il destino dell’occupazione, che è centrale nelle preoccupazioni dei giovani e delle famiglie. Ma al di là degli aspetti quantitativi, non è meno importante il deterioramento della qualità dell’occupazione. Precarietà che, secondo il governo, non esiste, o quasi, dal momento che  l’88 per cento degli occupati ha un contratto a tempo indeterminato. La norma sarebbe dunque la stabilità.
 
La precarietà. Negli ultimi anni il lavoro “atipico”, discontinuo, a termine e a part time, è più o meno collocato intorno al 25 per cento degli occupati. In termini quantitativi, significa che circa un milione e 800 mila lavoratori dipendenti (il 12 per cento) ha un contratto a termine. Circa 2.500.000 lavoratori lavorano a tempo parziale, in maggioranza donne, come nel resto d’Europa. Fra questi un circa il 40 per cento  (un milione) dichiara di trovarsi in questa forma di lavoro “involontariamente”. (In effetti, anche la volontarietà dell’altro 60 per cento rappresenta in molti casi l’accettazione “volontaria” dell’unica possibilità di lavoro disponibile, in assenza di un lavoro a tempo pieno. E per le donne è una volontarietà molto spesso condizionata dalla difficoltà di un lavoro standard compatibile con la cura dei figli, o dalla carenza di servizi pubblici, come le scuole materne e gli asili).
 
In larga misura questi lavori classicamente definiti “atipici”, a termine e a part time, implicano una precarietà più o meno accentuata in relazione alla continuità del lavoro e del salario, e all’esiguità della retribuzione. Ma la precarietà non investe solo queste forme “atipiche” di lavoro, tra le quali il lavoro interinale, raddoppiato nel corso degli ultimi quattro anni. A queste tipologie della precarietà bisogna aggiungere una categoria di lavoratori che fa dell’Italia un caso unico nel panorama dell’Unione europea. Vale a dire, il lavoro parasubordinato, in altri termini pseudo-indipendente, categoria che ambiguamente presenta la forma dell’autonomia e la sostanza della dipendenza. Ma, al tempo stesso, categoria sommamente precaria, sotto tutti i profili, della continuità del lavoro, della esiguità della retribuzione, dell’assenza di tutele fondamentali.
 
Ora, è  proprio questa categoria ad aver fatto registrare un balzo in avanti di oltre un milione di nuovi iscritti nei relativi elenchi dell’INPS, fra il 2001 e il 2005. Sappiamo che non tutti gli iscritti praticano un effettivo lavoro coordinato e continuativo (co.co.co). Ma sappiamo anche che, fino a quando l’INPS ha dato informazioni sull’effettivo numero dei contribuenti, questi corrispondevano a circa la metà degli iscritti. Considerato che negli ultimi quattro anni il numero degli iscritti è passato da poco più di 2 milioni a quasi 3.400.000, sembra evidente che questa forma di lavoro è stata quella a più alto grado di espansione, vale a dire la forma più precaria fra tutte, nella quale è imbrigliata almeno il 7-8 per cento della popolazione occupata.
 
Attraverso quest’astuzia che consiste nel considerare autonomo un lavoro che per il 90 per cento è subordinato, le imprese possono perfino “snobbare”, per un quota significativa, i contratti temporanei e a part time, risparmiando sulla contribuzione previdenziale e sottraendosi alle normative dei contratti collettivi.
 
Ed ecco il bilancio rovinoso di questo governo in tema di occupazione: da un lato, un blocco dei tassi di attività e di occupazione – entrambi consistentemente cresciuti con i governi di centrosinistra; dall’altro, un netto peggioramento della qualità dell’occupazione che, nella scarsa misura aggiuntiva, ha seguito i sentieri della precarietà più marcata: quella che colpisce in particolare le nuove generazioni.
 
I giovani. Si può, certo, rilevare che il problema della disoccupazione giovanile non è nuovo. Rimane il fatto non secondario che  negli anni del governo di centrosinistra,  il tasso di occupazione dei giovani (15-24 anni) era cresciuto fino al 30 per cento, mentre lo ritroviamo intorno al 25 per cento nel 2005, il tasso più basso registrato sin dagli anni 90. La diminuzione del tasso di occupazione potrebbe non essere di per sé un dato negativo, se associato alla crescita della scolarizzazione che investe questa classe di età. Ma non si tratta solo di questo, dal momento che il tasso di disoccupazione giovanile diminuito dal 30 al 24 per cento negli anni del centrosinistra, non si è più ridotto negli anni successivi, mentre aumentava il tasso di precarizzazione.
 
Il Mezzogiorno. Se poi spostiamo lo sguardo sul punto centrale della crisi che investe le nuove generazioni nel Mezzogiorno, il quadro che si presenta può essere così riassunto. Un(a) giovane appartenente alle classi di età comprese fra 15 e 34 anni, vale a dire fino a un’età tipicamente adulta, ha un  20 per cento di possibilità di trovare una collocazione nell’occupazione indipendente (che, in larga misura, maschera un lavoro dipendente a basso salario e senza tutele), e un 25 per cento di avere un contratto di lavoro dipendente (spesso a termine o a part-time). Le probabilità di trovare un’occupazione, come che sia, si fermano qui: al 45 per cento. Per un altro 30 per cento la prospettiva prevalente è la disoccupazione per l’impossibilità di trovare un lavoro, pur cercandolo “attivamente” o avendovi  rinunciato per la constatata impossibilità di trovarlo.
 
Questo non significa che tutti i disoccupati e tutti quelli ufficialmente fuori del mercato del lavoro siano pigramente rassegnati a non far nulla: una parte importante (che nel Mezzogiorno può toccare il 30 per cento) è attratto nell’ambito del lavoro informale, con retribuzioni da cento euro la settimana, senza nessuna tutela e col rischio di un lavoro in nero che, disgraziatamente e non raramente, sconfina nella penombra della piccola e grande criminalità.
 
Disoccupazione, precarietà, lavoro nero sono le condizioni prevalenti all’origine del malessere individuale e del disagio collettivo delle nuove generazioni del Mezzogiorno, vale a dire di più di un terzo del paese che, secondo Berlusconi vive in uno stato di benessere, e non lo sa, per colpa della propaganda disfattista della sinistra e di quella stampa che nega i successi del suo governo.
 
Diversivi. L’analisi e il confronto fra gli andamenti dell’occupazione e della sua qualità negli anni del centro-destra ci confermano, senza più ombra di dubbio, che il dibattito sulle flessibilità e la cosiddetta “legge Biagi” sono stati, per un verso, un diversivo rispetto ai problemi reali del paese che si annidano innanzitutto nel blocco dello sviluppo; e, per l’altro, un’occasione per peggiorare la condizione e la qualità del lavoro e della vita , aggiungendo incertezza individuale e privazione di tutele collettive in una situazione il cui bisogno primario è la restituzione di un decente livello di stabilità e di fiducia nel futuro.
 
Ma una volta fatta giustizia della demagogia, in questo caso particolarmente abietta, che tenta di oscurare un quadro di profondo disagio sociale e di sconforto individuale (quale futuro, come metter su famiglia, come pensare a generare figli?), deve essere anche detto che non ci sono soluzioni miracolose. Sulle questioni della disoccupazione, della precarietà e della qualità del lavoro, dei salari e delle mancate tutele sociali essenziali, il centrosinistra ha il dovere di raccontare la verità e denunciare il peggioramento della situazione dell’era di Berlusconi. E poiché non basta la denuncia, il centrosinistra deve con forza rimettere al centro del dibattito politico la questione dell’occupazione e della qualità del lavoro, insistendo su un insieme di proposte significative, graduali quanto è inevitabile, ma chiare e credibili.
 
In un recente articolo Le Monde rilevava che Gran Bretagna e Italia hanno ormai i mercati del lavoro più flessibili dell’Unione europea e, commentando il programma dell’Unione su questo punto  (“la forma normale dell’impiego è, secondo noi, il lavoro a tempo indeterminato”),  scriveva che si tratta di “una spettacolare inversione di tendenza”. Mi sembra che l’Unione debba insistere con forza su questo punto. Non si promettono miracoli, ma certamente una netta ed evidente inversione di tendenza.
 
Giovedì, 23. Febbraio 2006
 

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