Nuovi ammortizzatori, la proposta Cgil

Riduzione degli istituti previsti da 7 a 2 e delle aliquote da 24 a 6, allargamento della platea dei beneficiari. Dalla maggiore organizzazione sindacale italiana un progetto non troppo lontano da quanto si ipotizzava nel “Protocollo Prodi” del 2007.

Anche se, ad ascoltare Sacconi, la più grande organizzazione sindacale italiana parrebbe "isolata" e irrimediabilmente destinata a soccombere, la Cgil continua a dimostrare, a mio avviso, di essere in grado di proporre soluzioni e offrire ipotesi di cambiamento alle degradate condizioni dei lavoratori italiani. Soprattutto in una fase in cui il susseguirsi delle divergenze tra le tre sigle storiche del sindacalismo italiano si somma all’inusuale e pervicace ostracismo governativo. Rientra in questo quadro la recente ipotesi di riforma degli ammortizzatori sociali, che la Cgil offre al dibattito e alla discussione tra le parti.

In estrema sintesi, la proposta Cgil è di una semplicità disarmante. In una situazione in cui la molteplicità degli strumenti di politiche passive del lavoro - appunto, gli "ammortizzatori sociali" - si esplica attraverso profonde differenziazioni di tipo settoriale, di dimensioni aziendali, di entità di contribuzione e di variabilità delle prestazioni, la riforma - a parte il sistema vigente in agricoltura (legge 247/07), che resta immutato - ipotizza due soli strumenti d’intervento: l’indennità di disoccupazione - che unificherebbe in un unico istituto gli attuali trattamenti di mobilità e disoccupazione e la cassa integrazione guadagni. L’una riservata a coloro che dovessero subire la cessazione del rapporto di lavoro, l’altra per fronteggiare le "sospensioni" dallo stesso. Entrambi gli istituti avrebbero un carattere "universale", nel senso di eliminare qualsiasi differenza tra settori di attività, dimensioni aziendali e tipologia di rapporto di lavoro.

Per accedere al trattamento della nuova indennità di disoccupazione, sarebbero sufficienti 78 giornate di contribuzione (pari a quanto oggi richiesto per quella "a requisiti ridotti") e la copertura sarebbe pari all’80 % (effettivo) della retribuzione per il primo anno, al 64 % per il secondo e al 50% per il terzo. La durata massima prevista, sarebbe pari a 24 mesi per chi ha meno di 50 anni e a 30 mesi per gli ultracinquantenni; per i lavoratori residenti nel Mezzogiorno, i limiti massimi sarebbero maggiorati di 6 mesi. Naturalmente, la durata dell’indennità non potrebbe essere superiore all’anzianità maturata in azienda.

Dopo il sesto mese di godimento dell’indennità, il lavoratore avrebbe l’obbligo di accettare offerte di lavoro "congrue" e proposte di formazione. In caso di secondo rifiuto - il che lascia supporre che un primo non avrebbe conseguenze - o insufficiente partecipazione ai corsi di formazione (- 50%), l’indennità subirebbe una decurtazione (non precisata); in caso di terzo rifiuto immotivato il beneficio sarebbe soppresso.

La cassa integrazione guadagni "riformata" prevede un requisito di accesso pari a 90 giorni di contribuzione e un importo corrispondente all’80% della retribuzione, fino a un massimo di 1.800 € netti. La durata massima è prevista in 36 mesi, senza alcuna decurtazione "a scalare". La proposta non esclude il supporto - quindi, la natura integrativa, non sostitutiva - della bilateralità.

Per effetto della riforma proposta dalla Cgil, gli strumenti attualmente vigenti passerebbero da 7 a 2; le aliquote da 24 a 6. Il dato eclatante è, però, rappresentato dal numero di coloro che - oggi esclusi - potrebbero, in futuro, contare su di un ammortizzatore sociale: ben 500 mila lavoratori; il tutto per una spesa complessiva, a regime, pari a 4,2 miliardi di euro .

Personalmente - così come monsignor Fisichella ritiene che le bestemmie di Berlusconi vadano "contestualizzate" - penso che la proposta di riforma della Cgil non possa evitare di tenere conto della realtà nella quale si cala. Essa è rappresentata, in effetti, da una serie di posizioni già da tempo ampiamente note. In questo senso, la primogenitura non può - ancora una volta - non essere riconosciuta al controverso "Libro bianco".

Nel lontano 2001, Sacconi e Biagi ritenevano fosse necessario:

  1. Ampliare, attraverso il riconoscimento di tutele minime, il numero dei beneficiari degli ammortizzatori sociali;
  2. una prestazione pubblica "ragionevole" e "contenuta";
  3. limiti temporali di accesso al beneficio, allo scopo di non disincentivare la ricerca di una nuova occupazione.

Si trattava, evidentemente, di dichiarazioni di principio che, oltre che essere discutibili, si scontravano con una posizione che - allora come oggi - sosteneva la riduzione generalizzata del carico fiscale; in particolare, per le imprese. Un obiettivo oggettivamente in contrasto con una concreta ed efficace opera di ampliamento della platea dei beneficiari. Lo stesso "Libro bianco" di Sacconi (del maggio 2009), interveniva, in tema di ammortizzatori sociali, sostenendo l’esigenza di prevedere due specifiche caratteristiche:

  1. Congrui periodi lavorativi pregressi per l’accesso alle prestazioni;
  2. cessazione immediata del sostegno in caso di rifiuto di un’offerta di lavoro "congrua".

Inoltre, il nuovo sistema avrebbe avuto due "pilastri":

  1. Un contributo pubblico - decrescente nel tempo - per tutti i lavoratori dipendenti e un sussidio "una tantum" a favore dei lavoratori parasubordinati in regime di "mono - committenza";
  2. Un contributo privato, gestito dagli Enti bilaterali.

Rispetto a questa impostazione, vale la pena di osservare che, oltre a differenziarsi dalla proposta della Cgil in relazione ai periodi validi per l’accesso ai benefici, prevedeva un aspetto - la "congruità" di un’eventuale offerta lavorativa - assolutamente discrezionale e altrettanto opinabile. Anche il "Piano triennale per il lavoro", presentato da Sacconi nel luglio 2010, affrontava il tema degli ammortizzatori e prevedeva:

  1. Un’unica indennità nel caso di cessazione del rapporto di lavoro,
  2. una forma di sostegno al reddito nei casi di sospensione del rapporto, con diversificazioni rispetto ai settori produttivi e alle dimensioni aziendali.

In questo quadro, è arduo ipotizzare la sorte che attende la proposta Cgil. Se non avessimo alle spalle una stagione di aspra contrapposizione tra le confederazioni, potremmo contare sul fatto che l’idea di riforma degli ammortizzatori sociali è, in sostanza, in linea con quanto previsto dal "Protocollo Prodi" - protocollo che la Cgil firmò "con riserva", solo perché contraria a quanto previsto, senza il suo consenso, rispetto ai contratti a tempo determinato.

All’epoca, Cgil, Cisl e Uil, condivisero la posizione "programmatica" espressa dall’esecutivo in carica. In pratica, il governo Prodi dichiarava la volontà di intervenire al fine di:

  1. Uniformare le causali per la concessione della Cig ordinaria o e della Cig straordinaria; una durata massima di 36 mesi e un trattamento pari all’80% della retribuzione;
  2. unificare i trattamenti relativi alla disoccupazione e alla mobilità;
  3. studiare uno strumento nuovo per tutelare (in forma stabile) anche i collaboratori a progetto.

Purtroppo, come ha dimostrato l’esperienza vissuta all’atto della firma separata sulla contrattazione di secondo livello - successiva a un accordo unitario già sottoscritto da Cgil, Cisl e Uil – rimane incombente il rischio che alle correnti divisioni sia sacrificata anche l’unità d’intenti del lontano 2007.

Lunedì, 8. Novembre 2010
 

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