In un intervento ospitato su questo sito qualche mese fa (L'Europa e la deriva secessionista della destra, del 09/07/08, prima della grande crisi di autunno) azzardavo qualche previsione sugli effetti che sarebbero potuti derivare dal progressivo ampliarsi della distanza in politica ed in economia tra Italia e Europa con Berlusconi alla guida del paese (e Tremonti alla guida del governo). In definitiva, esprimevo il timore che la campagna anti-europea che in quei mesi si stava orchestrando (non tanto quella sguaiata di parte leghista, quanto quella colta e boriosa di Tremonti e co.) servisse a precostituire gli argomenti e gli alibi, sul piano politico-ideologico, per preparare il terreno alla ben più clamorosa e dirompente rottura con lEuropa che il paese sarebbe stato costretto a gestire sul piano economico, nel giro di un biennio, per la allegra (e dissennata) politica economica che il governo avrebbe portato avanti, in linea con i disastri del quinquennio 2001-2006.
La tempesta finanziaria e la recessione economica hanno mutato non poco il contesto: è cambiato tutto, così nelleconomia come nella politica. In che misura le analisi di metà 2008 restano attuali allinizio del 2009?
Apparentemente anche il quadro nazionale è mutato radicalmente. Nel nuovo clima, va registrato che la polemica di Tremonti contro lEuropa si è andata smorzando e la verve polemica si è indirizzata verso altri bersagli (le grandi istituzioni economico-finanziarie internazionali). Il Pierino cattivo di inizio anno, che proclamava la fine imminente della grandeur europea, infiacchita dal relativismo illuminista (la grande colpa di aver rinnegato le radici cristiane) e destinata a fare la fine del vaso di coccio tra limperialismo muscolare americano e laggressività economica delle potenze asiatiche, ha lasciato il posto a un secchione molto ligio ai dettami europei. Non passa giorno senza che Tremonti non si mostri diligente custode dellortodossia dellasse Bruxelles-Francoforte: "siamo in linea con i parametri", "terremo fede agli impegni presi".
Unimprovvisa euro-conversione sulla via XX settembre? Poco plausibile. Convince di più lidea che un sano "realismo" abbia costretto a prendere atto delle novità USA di autunno, il crollo economico-finanziario (che il ministro si vanta di avere previsto, salvo avere sbagliato totalmente direzione di provenienza e luogo di manifestazione) e lavvento di Obama (con il tonfo di Bush e dei repubblicani, attribuito allestremismo neo-con). E così venuta meno la baldanza di chi vagheggiava lavventura di una manovra di disancoraggio dallEuropa contando su un aggancio agli USA. Viceversa, si va delineando uno scenario in cui sono gli USA stessi a dover recuperare un legame con lEuropa, che Obama mostra di tenere in gran conto. Senza quellaggancio, che doveva ripagare almeno in parte i costi della secessione europea, con in più la prospettiva di una crisi mondiale, è cresciuto a dismisura il costo economico (quindi sociale) del sogno autarchico; un costo che, tradotto in termini elettorali, si prefigura quasi insopportabile. E dunque solo per queste valutazioni, meramente opportunistiche, che il progetto secessionista è stato ridimensionato e le distanze dallEuropa sembrano ridursi.
Riprendendo il ragionamento di qualche mese fa, risultano non solo confermate ma perfino rafforzate le valutazioni che portavano a ritenere assai improbabili rotture significative tra Italia e Europa sul piano politico: il motore continentale è saldamente di centro-destra (Sarkozy-Merkel) e ciò assicura una strenua copertura, fino allindifendibile, alle scelte italiane; il collante europeo resta molto debole e il barometro europeo continua a volgere, sempre più, verso il modello intergovernativo con buona pace delle utopie (à la Spinelli) di ununità politica.
Cè però da registrare una novità rilevante: il mutamento di indirizzo dellEuropa sul piano economico. Allentare i vincoli di bilancio e concedere maggiori spazi di intervento per la finanza pubblica a sostegno delleconomia e dellimpresa privata sono tutte decisioni che sembrano consentire maggiori margini di manovra per le finanze italiane. In più, la recessione generalizzata fa ritrovare il nostro paese in unaffollata compagnia, con Gran Bretagna, Spagna e Francia in maggiori difficoltà, su trend (per il prossimo anno) molto vicini a quelli italiani. Un quadro che rende le prospettive finanziarie di casa nostra meno eccentriche e quindi meno condannabili.
Si tratterebbe di una novità confortante, se non fosse accompagnata da una parallela novità di non poco rilievo: il progressivo affiorare di motivi di preoccupazione per il futuro delle casse dello Stato italiano. Timori come quelli appena adombrati (per non esagerare in pessimismo) nellintervento di qualche mese fa non sono più voci isolate di irriducibili Cassandre ma fanno capolino perfino nella compagine governativa, con buona pace della consegna rigida dellottimismo a tutti i costi. Un ministro non di secondo piano e non di primo pelo (che qualcuno potrebbe perfino dipingere come un pasdaran della prima ora) come il ministro del Lavoro e della Salute si è lasciato scappare un rischio di default modello Argentina. Solo un eccesso di zelo per spaventare i piloti e gli steward Alitalia? Il ministro dellEconomia ha risposto da par suo, mostrando saldezza e determinazione. Saremo più virtuosi degli altri, ridurremo progressivamente il deficit. Usciremo meglio degli altri dalla crisi perché il risparmio privato degli italiani compenserà il deficit delle finanze pubbliche e perché le nostre banche non hanno mai prestato soldi alla leggera. Purché non venga meno la fiducia dei consumatori, il futuro non deve preoccupare. Cè da crederci? Unanalisi lucida ci consegna un verdetto impietoso.
I dati di fine 2008 sul fabbisogno, doppio rispetto al 2007, quasi 20% in più rispetto alle previsioni su cui appena qualche mese prima era stata costruita la manovra finanziaria, hanno sollevato il coperchio, che maldestramente il ministero dellEconomia ha tentato di richiudere con un delirante comunicato: "i dati possono essere motivo di orgoglio per il governo e di fiducia per i cittadini" (testuale). Da allora la parola tabù, il rischio default, è diventata invece di uso corrente. Da più parti si sono disegnati scenari sul futuro che ci aspetterebbe se davvero il 2009 facesse segnare la recessione che si prevede e il deficit ballasse attorno al 5% del PIL. Vengono avanzate ipotesi che presentano una grande varietà di sviluppi alternativi, ma conducono tuttavia inevitabilmente ad un bivio secco: dichiarare linsolvenza (il default, per lappunto) o stampare moneta: dunque, fuoriuscire dalleuro. Che non è più delirio impronunciabile ma futuro possibile.
Al di là della propaganda e dei messaggi rassicuranti, in barba al rischio di seminare il panico, si dovrebbe dunque parlare apertamente di una situazione drammatica. Che non lo faccia limmane stuolo di orchestrali della filarmonica berlusconiana si può capire. Che il Presidente della Repubblica debba esortare a mettercela tutta per uscire dalla crisi "più forti che pria" ci può stare. Ma lopposizione, che mostra grande lucidità nel mettere a fuoco la dissennatezza che ha caratterizzato le mosse del ministro delleconomia in questi mesi, stenta ad affondare il colpo. Sembra che in quel campo domini una grande incertezza, alimentata da un grossolano equivoco. La finanza allegra tremontiana, diretta a soddisfare appetiti egoistici e a ripagare un elettorato il cui consenso è stato catturato con la promessa dellirresponsabilità (e di qualche mancia compassionevole), viene scambiata per quel deficit spending in funzione anti-recessiva che veniva propugnato dopo il 29 da Keynes.
Dovrebbe essere lampante che restituire lICI ai più abbienti, consentire levasione fiscale agli autonomi (si potrebbero scrivere libri su ciò che significherà l"IVA per cassa", su cui il plauso sembra invece unanime), impedire la libera concorrenza nei settori che presentano enormi barriere allaccesso, dunque i pezzi forti del programma su cui Berlusconi ha vinto le elezioni, non sono provvedimenti che rilanceranno la domanda. Deprimeranno invece la competitività del sistema, innalzeranno i costi dei prodotti e dei servizi, taglieggeranno ulteriormente i redditi dei lavoratori e i profitti delle imprese (quelle che non godono della protezione imperiale ma si misurano sul libero mercato).
Invece in unopposizione ancora vittima dellincantesimo serpeggia una qualche ammirazione per il nuovo look anti-mercatista del superministro. "Doveva venircelo ad insegnare lui, il keynesismo!" si sente perfino sussurrare. Mentre economisti di belle speranze, molto ascoltati dagli alfieri della modernità, che vorrebbero finalmente un cambio di generazione, si spingono ad osare linimmaginabile: perché no, un bel default e magari un nuovo change-over allincontrario, dalleuro allitaleuro (o euro-lira, modello AM-lire di fine guerra). Pensate che bello, si deprezzano finalmente le pensioni con una corposa svalutazione (pazienza per le conseguenze sui redditi da lavoro), si dichiarano carta-straccia i risparmi di una vita e si punisce così una volta per tutte la generazione delle conquiste sociali e salariali che si ostina a non lasciare spazio ai giovani meritevoli.
Surreale? Leggere per credere ("Facciamo un bel default", L. Zingales, LEspresso, 8/1/09) Ma qui si dovrebbe aprire un capitolo nuovo, sui giovani (per lEuropa, quelli under 25: lOnda, ad esempio) e il merito, che non consiste nel bersi tutte le favole che racconta lestablishment conservatore. A pensarci bene, più che di un capitolo, si tratterebbe forse di una lunga storia.