L'Europa e la deriva secessionista della destra

Non si parla qui delle posizioni sostanzialmente folcloristiche della Lega, ma della politica della coppia Berlusconi-Tremonti. Il cui effetto più probabile sarà, se non una uscita formale dall'euro, una nostra progressiva emarginazione

La prima domanda che ci si deve porre è: riuscirà l’Unione Europea a reggere l’urto, sul piano politico, della deriva secessionista di un paese fondatore come l’Italia?

Non si pensi alla secessione nordista, ma a quella del paese nel suo assieme rispetto all’Unione. Non si tratta di prendere sul serio l’anti-europeismo nell’espressione più sgangherata, in versione leghista. La deriva secessionista che è in atto ha una portata ben più ampia, anche se non viene messa in evidenza come dovrebbe (ma Franco Cordero, la Repubblica, 19/6, arriva a darne per scontato perfino l’esito finale, l’uscita dall’Unione Europea).

 

Lasciando perdere le esternazioni di un Calderoli, possiamo prendere a riferimento le posizioni, che meritano ben altra attenzione, di un vero e proprio superministro come Tremonti. Il proclama (un libello pubblicato subito prima dell’incarico) con cui ha fatto precedere il suo assenso, sofferto, al ritorno a via XX Settembre è stato commentato dai più come una critica, un po’ ambigua e molto populista, contro la globalizzazione e contro il “mercatismo”. In realtà, non è sfuggito ai più attenti come si sia trattato soprattutto di un attacco, “alzo zero”, contro l’Europa, accusata di non sapersi difendere dalla globalizzazione, partendo da posizioni (difesa dello “Stato etico” basato sulle radici cristiane e rivendicazione della giustezza del conflitto di civiltà) molto meno ammiccanti e alquanto più di destra (se oggi non fosse imperante l’eufemismo dovrebbero essere definite di impronta culturale nazi-fascista). Con un’aggiunta non secondaria: che la debolezza dell’Europa fa da freno per i suoi membri più intraprendenti, come l’Italia da lui governata, che potrebbero difendersi in modo adeguato, con molta più decisione.

 

Altri elementi, di peso notevole, non devono essere trascurati. 1) L’offensiva vaticana. Muove contro l’Europa del relativismo - cioè della democrazia laica - e la vuole fondata sulle radici cristiane (come Tremonti, chiede uno stato etico). Il sostrato meno nobile è dato dal rischio concreto di procedura di infrazione sull’esenzione ICI. 2) L’interesse privato del capo carismatico. Contesta le intrusioni europee in materia di libertà di informazione ma tiene d’occhio la procedura di infrazione per Retequattro. 3) La distanza crescente, non solo dall’Unione Europea ma dall’opinione pubblica europea in genere, quanto a sensibilità per le questioni (questioncelle, secondo il comune sentire nel nostro paese) che hanno a che vedere con i tre cardini fondamentali della democrazia moderna: equilibrio di poteri e contropoteri, consenso informato e “rule of law” (in italiano, stato di diritto, ovvero “la legge è uguale per tutti”). 4) Infine, per completare il quadro, qualche dossier di contorno, non del tutto secondario, come quelli sull’Alitalia o sui clandestini (violare le norme anti-concorrenza è quasi altrettanto grave come violare quelle anti-discriminazione, senza le quali scompare lo spazio giuridico comune europeo).

 

La risposta a questa prima domanda può essere però tranquillizzante. Finché si resta sul piano politico, si può contare su un margine di manovra abbastanza elevato, per varie ragioni:

-          perché la maggioranza che attualmente prevale in Europa annovera tra le sue file il principale partito italiano di governo e di maggioranza relativa;

-          perché la deriva antieuropea è già abbastanza massiccia e quella italiana ha anche il pregio di non manifestarsi in modo aperto come nei casi in cui viene registrata da un referendum;

-          perché le critiche motivate e meritate all’Europa fanno già un lungo elenco e quelle italiane possono passare come alcune tra le tante (pur essendo di segno opposto);

-          perché i paesi che hanno deciso di procedere a maggiore velocità e con più compattezza hanno già deciso di poter fare a meno di uno dei soci fondatori: Spagna e Paesi scandinavi aiuteranno a non rimpiangere troppo la defezione italiana, senza contare che tra i nuovi ingressi si stanno profilando partner forti e affidabili per una cooperazione rafforzata e che già nei confronti della Gran Bretagna è stata sperimentata la politica a compasso, dell’unità dossier per dossier senza il vincolo di un disegno comune più ampio.

 

Sul piano politico la corda potrà dunque essere tirata più di quanto si potrebbe oggi immaginare, senza che si arrivi per questo a rotture clamorose. La previsione più pessimistica potrebbe essere quella di una sorta di quarantena per un paese di cui occorre scongiurare sia i rischi di contagio verso altri partner sia quelli di conflitto aperto verso i paesi motore della cooperazione rafforzata.

 

La seconda domanda viene immediatamente appresso e evoca scenari nello stesso tempo molto più disastrosi. Riusciranno i paesi dell’area Euro a reggere l’urto di una politica economica e fiscale priva di qualunque ancoraggio a un vincolo, non diciamo neppure di rientro dal debito, ma almeno di sua stabilizzazione?

 

Di questo si parla ancora poco. Non solo per la cosiddetta luna di miele dell’informazione con il nuovo governo (sarebbe più appropriato parlare di uno jus primae noctis a tempo indeterminato a beneficio del capo carismatico), ma anche perché la materia è da iniziati; non da ultimo, perché non è ancora giunto il momento. Si è avuto solo un primo piccolo segnale con l’andamento delle entrate del primo mese del nuovo governo (nessuno si è domandato se ciò potesse per caso significare che già dal mese stesso della vittoria elettorale i commercialisti abbiano adottato un diverso indirizzo con i loro clienti) ma il trend consolidato si potrà vedere solo dal consuntivo del secondo trimestre. Le analisi degli uffici bilancio del Parlamento sulla copertura del decreto ICI sono anche quelle un po’ troppo sofisticate per fare presa sul grande pubblico, ma dopo l’ICI seguirà una lunga lista della spesa: ponte di Messina, ritorno al nucleare, contratti pubblici - appena finito lo spettacolo pirotecnico appaltato a Brunetta - e, last but not least, mangime per gli appetiti di un sottobosco in crisi di astinenza da circa tre anni.

 

Il governo Berlusconi delle annate 2001-2006 ha impiegato quasi tre anni a imboccare la via del deficit crescente e dello sfondamento di tutti i vincoli di bilancio. Ci sono buoni motivi per ritenere che il Berlusconi quater abbia un po’ di mestiere in più e possa quindi procedere più spedito. Il documento di programmazione finanziaria triennale appena varato ne è già una solida dimostrazione. Un documento col trucco e con gli effetti speciali (entrate previste sui trend di Visco e Padoa-Schioppa, e spese tagliate scaricando su altri - Regioni e Comuni, in vista dell federalismo fiscale - oppure affidati al metodo del 2% di Gordon Brown, già rivelatosi fallimentare). La finanza creativa ha messo il turbo.

 

Possiamo dunque fissare al 2010 l’appuntamento con gli esami più importanti cui l’euro verrà sottoposto dai mercati finanziari quanto alle conseguenze dell’allegra finanza italiana. Su quel che potrà succedere allora possiamo fare grossolanamente due ipotesi. La prima è che ci si trovi ancora in un regime di euro forte. In quel caso la resistenza dell’euro sarebbe solida e la questione economica potrebbe essere riportata senza grossi traumi a quella politica. Sarebbe un dossier in più, di un certo peso, su cui si adotterebbero le misure di contenimento/isolamento di cui sopra. La seconda ipotesi è che ci si trovi invece nel bel mezzo di un processo, che molti degli analisti finanziari preconizzano possa cominciare dalla seconda metà di questo anno, di inversione di tendenza nel rapporto dollaro-euro. In questo secondo caso la tensione innescata dall’indebitamento italiano agirebbe come volano amplificatore. A quel punto, sarebbero ancora sufficienti gli strumenti del mercato, come i differenziali in termini di costo del denaro, per salvaguardare il resto dell’area euro e sterilizzare così gli effetti indesiderati del deficit italiano per gli altri partner?

 

Si faccia avanti chi ha la risposta. E’ però possibile e perfino probabile che nel caso in cui quegli strumenti si rivelassero, nei fatti, insufficienti, anche la sanzione politica e la procedura di infrazione sarebbero inefficaci. Quale diversa procedura potrebbe essere adottata? E’ ipotizzabile una separazione tra un “Euro/Italia” e l’Euro/Euro?

Se non si trattasse di pura fantascienza (ma a Francoforte potrebbero averla già studiata, per ogni evenienza, nuovi ingressi non sempre affidabili, o magari con qualche socio fondatore un po’ uscito dai binari…) non ci vorrebbe molto per immaginare entro quanti anni l’Euro/Italia (o Eurolira, per i nostalgici) scenderebbe dall’iniziale rapporto 1/1 con l’Euro a un rapporto – diciamo – 2/1 (0,5 euro per 1 eurolira). Vi ricorda qualcosa un changeover con queste caratteristiche? E avete un’idea di chi ci guadagnerebbe e chi ci perderebbe? Di quale sarebbe l’immagine sociale di un’Italia così (per non ripetere di quella politica)?

 

Ovviamente, si dirà, speculazioni su un futuro così lontano (il 2010!, il 2011!) sono pure e semplici provocazioni. Si trattasse di un Ponte a campata unica su un braccio di mare di qualche chilometro, o di una decina di centrali nucleari, ci si potrebbe spingere anche più in là nel tempo. Ma la finanza pubblica, è impossibile prevederla a tre mesi, figuriamoci a tre anni, a meno che non si tratti di ingannare i gonzi con una finanziaria triennale. Avanti tutta dunque, tra economia virtuale e finanza creativa col turbo, verso il disancoraggio dell’Euro coniato in Italia.

 

Conclusioni poco realistiche e poco obiettive, si potrebbe obiettare. A patto che questa obiezione venga mossa da chi può vantare di aver previsto a metà ’98, Prodi regnante dopo l’aggancio all’Euro, in quale stato ci saremmo trovati dieci anni dopo.

Mercoledì, 9. Luglio 2008
 

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