La battaglia congressuale del Pd entra nel vivo e i tre candidati, Pierluigi Bersani, Dario Franceschini e Ignazio Marino, hanno presentato i loro programmi (in coda, i link). Fra le belle frasi, nella maggior parte dei casi del tutto condivisibili in quanto estremamente vaghe, riesce persino non facile cogliere le differenze fra le diverse impostazioni. Aiutano le storie personali, che forniscono una lettura delle affermazioni programmatiche alla luce delle posizioni espresse in passato con maggiore nettezza nei momenti in cui cera da schierarsi per luna o laltra soluzione.
Così, possiamo capire che Bersani, pur definendo il bipolarismo una conquista del nostro sistema politico (da non confondere con il bipartitismo, precisa subito), pensa a ricostruire uno schieramento con gli altri partiti di opposizione e non ritiene che sarebbe meglio se sparissero. Franceschini, su questo punto, ha assai attenuato le posizioni che furono di Veltroni (il bipartitismo, appunto) e parla anche lui di alleanze, ma resta limpressione che queste siano possibili solo con un riconoscimento di una forte egemonia del Pd. Marino, che sui temi più strettamente politici e del lavoro si esprime per la prima volta, mostra di collocarsi in quellarea culturale che potremmo delimitare a sinistra con le posizioni di Michele Salvati e a destra con Pietro Ichino. Insomma, assai simile a Franceschini (e del resto il suo consigliere politico è lo stesso Goffredo Bettini che fu il braccio destro di Veltroni) con un maggiore accento rispetto a questultimo sulla questione della laicità, sulla cui importanza peraltro si esprimono anche gli altri due (in modo più convincente Bersani).
Sia Franceschini che Bersani danno poi un grande rilievo al problema dellidentità, riconoscendo che il Pd ne è ancora del tutto privo. Ma dalle loro dichiarazioni programmatiche non ne esce una granché definita. Forse perché manca una vera e propria analisi della società, che magari non si può pretendere da documenti programmatici che devono rispettare lunghezze che non scoraggino a priori la lettura dei più, ma che bisognerà pure fare, prima o poi (meglio prima possibile): un manifesto del partito che sperabilmente non assomigli neanche da lontano allultimo prodotto sul tema.
Tutti definiscono una ricchezza la pluralità di opinioni dentro il partito. E anche questa una di quelle affermazioni che non si possono contestare, perché giustissima. Ma drammaticamente vaga. La pluralità va benissimo, basta che non diventi indefinitezza, che non faccia del partito un luogo dove convivono visioni non tanto articolate, quanto inconciliabili. Inutile parlare di laicità, per esempio, se non si definisce in che modo possono stare nel partito (e se possono starci) i teo-dem, quelli che quando parlano le gerarchie cattoliche si fanno venire i problemi di coscienza. E posizioni non meno divaricate si sono viste sulle tematiche legate al lavoro.
E ancora presente e tuttaltro che marginale lintenzione di fare un partito americano. Lo dice esplicitamente, per esempio, Michele Emiliano, magistrato, sindaco di Bari rieletto trionfalmente e segretario della Puglia. Che aggiunge: Dobbiamo finalmente avere il coraggio di dire che il Pd è un partito fraternamente anti-comunista (intervista a Lespresso del 23 luglio). Evidentemente Emiliano non si accorge che in questo modo si delinea appunto un partito senza identità. Non perché dovrebbe essere filo-comunista, per carità. Ma perché indica come obiettivo qualcosa che non è un partito, ma al massimo unorganizzazione per eleggere rappresentanti. E perché se per costruire unidentità cè bisogno di dire quello che non si è, significa che non si riesce a spiegare quello che si è.
I programmi dei tre candidati