'NO' a questa devolution, ma una riforma serve

E' necessario bocciare le modifiche sottoposte a referendum, ma nello stesso tempo prepararsi ad un percorso che, in modo condiviso, arrivi a stabilire una serie di cambiamenti costituzionali che restano necessari
Mercoledì 24 ho presentato, insieme ad altri, un documento per il No nel referendum del 25 e 26 giugno, sottoscritto da esponenti politici dell'uno e dell'altro schieramento, da vari studiosi ed esponenti dell'associazionismo cattolico e laico (leggilo qui). Ci sentiamo impegnati per il No e nel contempo riteniamo doveroso precisare i tratti di una riforma migliore. Lo spirito di fondo è quello che il presidente Napolitano, allora semplice senatore, espose nel convegno di Orvieto di Libertà Eguale del 2004. Senza volerlo annettere a fini di parte, è però importante richiamare alcuni pilastri del suo ragionamento di uomo delle istituzioni, alieno da semplificazioni.

Diceva il presidente: "Il progetto della maggioranza… presenta delle mostruosità e suscita degli allarmi fondati. Ma per quali aspetti e in che senso? Io non credo che le forze della nascente Federazione dell'Ulivo possano opporvi la difesa in blocco della Costituzione del '48 o, tutt'al più, l'idea di un suo modesto aggiornamento. Vedo che sta prendendo piede questa espressione, 'un modesto aggiornamento', dopo aver ipotizzato da vent'anni a questa parte una sostanziale riforma almeno della sua II parte. Io temo che la Federazione che sta per nascere possa ripiegare su un approccio conservatore sui temi istituzionali".

Non si può credibilmente affrontare la prova elettorale riducendo lo schieramento del No alle minoranze intense ma ristrette che auspicano modesti aggiornamenti. Il No può vincere solo se evoca la prospettiva praticabile di un'altra riforma condivisa, se incrocia quella domanda maggioritaria di rinnovamento che lo stesso centrosinistra ha più volte fatto crescere sin dal primo referendum elettorale, quello del 1991. Su quello può incontrare anche tanti elettori che hanno scelto il centrodestra, ma che nell'occasione specifica del referendum dissentono dal metodo e dal merito, rifiutandosi anch'essi di ragionare in termini di voto sul governo in carica o di slogan commerciali, sostituendo stavolta l'eliminazione dell'Ici con la riduzione del numero dei parlamentari.

Non è un referendum sul governo anche perché senza riforme il governo potrà solo limitatamente applicare il proprio programma. Lo stesso Napolitano a Orvieto, l'anno successivo, nel 2005, chiudeva il suo intervento ricordando: "Non dimentichiamo l'errore fatto dal PCI a cavallo tra gli anni '70 e '80, quando in sostanza si intese che ogni problema, anche istituzionale, potesse essere risolto dal cambiamento di direzione politica (dall'avvento del PCI al governo del paese) e, quindi, non si definì una strategia di riforme istituzionali."

Chiarito il senso complessivo, affrontiamo rapidamente due aspetti di merito e uno di metodo su cui insiste il documento. Sul completamento del Titolo V, che non può essere lasciato così com'è, il doppio nodo è quello di creare un Senato realmente federale, assicurando così che il Parlamento sia sede di cooperazione, e nel contempo di rendere flessibili le competenze legislative reciproche dello Stato e delle Regioni. Due riforme che si tengono e che rappresentano le principali lezioni degli altri federalismi cooperativi. Gli interventi presenti nel testo del centro-destra, anche qualche ritocco ragionevole e condivisibile degli elenchi di materie, non risolvono questi nodi. Non sono quindi una riforma forte, ma solo un intervento in larga parte elusivo.

Anche il rapporto tra istituzioni di governo e contrappesi è stato affrontato così. Si promette più governabilità togliendo, com'è giusto, al Senato il potere di fiducia, ma poi lo si riafferma surrettiziamente con un abnorme potere di veto sul procedimento legislativo, con un articolo che nessuno studioso si è sentito sino ad a oggi di difendere per i blocchi che verrebbe a creare. Ad essi peraltro si aggiungerebbero i veti delle minoranze interne allo schieramento uscito vincitore dalle urne, che oggi possono far cadere il governo, ma che domani potrebbero direttamente far cadere la legislatura. Un insieme di veti aggirabili solo col probabile incremento del debito pubblico a favore dei detentori dei poteri di veto.

Nel contempo la maggioranza parlamentare in carica resta del tutto sovrana nel decidere la regolarità delle elezioni, senza potersi appellare alla Corte costituzionale, come accade altrove. Di modo che, anche quando le decisioni sono e saranno prese in modo corretto, dimostrando ad esempio in questa legislatura l'infondatezza delle accuse di Berlusconi sulla vittoria dell'Unione alla Camera e la ragionevolezza delle decisioni dei magistrati rispetto alle critiche poco fondate della Rosa nel Pugno al Senato, vi è sempre il dubbio di un giudizio politico.

E' chiaro che se mancano questa ed altre garanzie a presidio dell'opposizione e dei singoli cittadini, anche il necessario e incisivo rafforzamento dell'esecutivo, che stabilisca come criterio ineludibile che solo i cittadini elettori decidono sui governi per la legislatura, finisce con l'apparire squilibrante, non perché lo sia in sé, ma per il contesto in cui cade.

Infine il metodo per "scrivere insieme" le riforme. Andrea Manzella nei giorni scorsi ha rilanciato l'ipotesi di partire dall'articolo 138 per creare - come avvenuto "con il metodo Convenzione" per la Costituzione europea - un percorso straordinario costituente, un organo composto da un numero ristretto di membri, coinvolgendo parlamentari in maniera paritaria tra i due schieramenti, rappresentanze regionali, locali ed europee, esponenti del mondo universitario e delle realtà sociali ed economiche. Giungendo così a scrivere un progetto che per l'autorevolezza dei suoi membri, e per la loro rappresentatività, sia in grado di essere approvato rapidamente dal Parlamento (eventualmente adottando procedure di tipo redigente) e ratificato da un referendum.

Viste le difficoltà di collaborazione nelle attuali Camere, che già dovranno occuparsi di aggiornare la legislazione ordinaria con conflitti inevitabili, e vista l'esigenza di riscrivere insieme parti importanti della Costituzione non solo tra i due poli, ma con espressioni diverse del pluralismo di un paese ricco di diversità non solo politiche, questa ci sembra la strada migliore. Altrimenti l'esigenza di riforme condivise, rispetto alla conflittualità odierna di un dibattito limitato ai soli schieramenti alternativi, rischia di sfociare solo in un dannoso status quo che non ci possiamo permettere perché farebbe incancrenire i problemi. Proporre credibilmente il No alla riforma che sia un sì a un percorso costituente significa oggi anche e soprattutto disponibilità a innovare sul metodo.
 
Penso che coloro che vengono dalle realtà del pluralismo sindacale e sociale e che hanno sempre rivendicato in modo meditato l'autonomia di questi spazi rispetto alle divisioni sul piano politico-parlamentare potrebbero e dovrebbero essere tra i primi ad apprezzare che il percorso costituente riparta su queste nuove basi.
Martedì, 30. Maggio 2006
 

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