Manovra, Pil all'1,5% e ritorno

Per capire se la stima sulla crescita sia realistica sono necessarie ulteriori informazioni sui 16 miliardi di minori spese o maggiori entrate necessari per rimanere nel 2,4 di deficit. Ma la stessa nota del governo parla di rischi “esterni” riguardo agli andamenti di cambio, petrolio e commercio internazionale: ognuno potrebbe portarsi via uno 0,2%, e se così avvenisse l’effetto espansivo della manovra sarebbe annullato

Provo a riassumere la Nota di Accompagnamento al DEF, che precede quest’ultimo di pochi giorni. L’andamento del PIL italiano è ben poco brillante: dal terzo trimestre del 2017 sta calando, per cui la previsione del tendenziale per l’anno prossimo è di una risicata crescita di 0,9 (con possibile ulteriore limatura verso il basso). Di conseguenza il deficit (in percentuale del PIL) aumenta rispetto a quello previsto (0,8) collocandosi sull’1,2. Nel tendenziale è previsto un aumento dell’IVA con un gettito di 0,7. Volendo disinnescare questa clausola di salvaguardia (come è sempre stato fatto negli anni scorsi) il deficit arriva a 1,9.

 Nei colloqui con la Commissione Tria aveva recepito l’indicazione che un raddoppio del deficit programmato dal governo Gentiloni (passando quindi da 0,8 a 1,6) avrebbe avuto il via libera. 1,6 non è però sufficiente a disinnescare pienamente l’aumento dell’IVA, ma il ministro probabilmente riteneva che sarebbe stato possibile arrivare ad 1,9 senza suscitare particolari reazioni né della Commissione né da parte dei mercati finanziari. In effetti vi era tra gli operatori un diffuso consenso che se il deficit fosse stato mantenuto entro il 2%, lo spread sarebbe rimasto intorno a 240 punti base.

Ma un deficit di 1,9 avrebbe implicato il fatto che le misure volte ad attuare il contratto di governo dovevano essere ridimensionate e comunque coperte da tagli di spesa o aumenti d’imposta. A questo punto si è accesa la diatriba tra i due leader politici e il ministro dell’Economia. Per Di Maio varare il reddito di cittadinanza, con la cifra promessa (780 euro mensili) era questione di sopravvivenza politica, e Salvini non poteva a sua volta fare sconti sulla revisione della Fornero.

L’insieme delle misure, compreso quella a favore di alcune partite IVA, stimoli agli investimenti più altre spese indifferibili, ammontano a circa 1,2 punti di PIL. A questi va aggiunto uno 0,2 di spese d’investimenti cari a Tria, che dovrebbero arrivare a 0,6 nel 2021. Sommati a 1,9 arriviamo a 3,3 e quindi oltre il mitico tabù del tre per cento. Il consiglio dei ministri si chiude con l’annuncio di un deficit di 2,4 (dapprima costante per i tre anni e poi corretto con un calo di 0,6 nel 2020 e 2021) seguito dalla balconata in stile peronista. E’evidente che per far tornare i conti (la differenza tra 3,3 e 2,4) ci devono essere tagli per circa 16 miliardi.

Gli effetti economici secondo la Nota sono: la crescita del PIL passa nel 2019 da 0,9 a 1,5, il saldo primario diminuisce da 2,4 a 1,3, mentre quello strutturale passa da 0,4 a 1,7 (percentuale questa che rimane costante nei due anni successivi). Malgrado l’aumento del deficit il debito pubblico comunque scende di 0,9 a 130 (meno di quanto sarebbe avvenuto nel tendenziale: 129,2). La nota riconosce che l’obiettivo di pareggio del saldo strutturale del bilancio viene rinviato agli anni successivi ma ritiene che la maggiore crescita del PIL e la diminuzione della disoccupazione (da 10,1 a 9,8 nel 2019 e da 9,5 a 8,6 nel 2021) siano obiettivi che giustificano l’allontanamento dalle regole del fiscal compact.

A questo punto vi sono varie domande che vengono alla mente: la prima è se sia credibile un aumento del PIL a 1,5 (che diviene 1,6 nel 2020 e scende a 1,4 nel 2021), e per rispondere a questa domanda bisognerebbe avere maggiori informazioni sui 16 miliardi di minori spese o maggiori entrate necessari per rimanere nel 2,4 di deficit. Per il momento se ne conosce meno della metà; il reddito di cittadinanza assorbe ovviamente il reddito d’inserimento, ACE e IRI (sgravi fiscali Ires e Irpef per utili reinvestiti) vengono eliminati e aumenta la pressione fiscale sulle banche. Rimane da sapere su quali sgravi d’imposta, trasferimenti e simili il governo intenda agire.

Un altro punto importante è l’andamento dei tassi d’interesse; come previsto lo spread è aumentato di una cinquantina di punti base, la BCE ha dimezzato gli acquisti di titoli che termineranno entro l’anno, ma continuerà (almeno nel 2019, poi si vedrà) a rinnovare i titoli in scadenza. D’altra parte la politica della FED diverrà più restrittiva; come giocheranno questi fattori sulla capacità (e volontà) di credito delle nostre banche è da vedere, ma è chiaro che ci sono rischi. Si può concordare con Bertold Brecht sul fatto che fondare una banca è più grave che rapinarla, ma il fatto è che il finanziamento delle nostre imprese è ancora banco-centrico, più di quanto avvenga in altri paesi europei. 

Nella NADEF a p. 29 vi è un interessante focus su un’analisi di rischio (o di sensitività) sulle variabili esogene. Riporto i possibili effetti sulla crescita del PIL per il 2019: commercio mondiale -0,2; tasso di cambio nominale effettivo -0,2; prezzo del petrolio -0,2; ipotesi migliori condizioni finanziarie +0,2.

Purtroppo l’unico “rischio” positivo è del tutto improbabile che si verifichi; è da sperare che le condizioni finanziarie non peggiorino, anche se non credo che si possa ripetere, almeno nel prossimo futuro, una crisi tipo autunno 2011. Restano i tre rischi negativi, la cui somma farebbe tornare il tasso di crescita a quel 0,9 tendenziale dal quale eravamo partiti. C’è da sperare che non si avverino tutti e tre insieme, ma mettendo insieme i fattori esogeni ed i tagli per circa 10 miliardi ancora da definire mi sento di azzardare la previsione di un tasso di crescita su 1,1-1,2. E la cosa non mi fa emettere suoni gufeschi di giubilo.        

Mercoledì, 10. Ottobre 2018
 

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