Ma il governo non può scegliersi le controparti

Senza bisogno dell'art. 39, esistono già le norme per definire la rappresentatività

Il Patto enfaticamente definito “per l’Italia” è una fiera dei paradossi. Il presidente della Confindustria lo considera un trionfo. Quasi una rivincita su tutti gli imprenditori che si erano mostrati contrari a una guerra di religione basata sull’articolo 18. Ma, in effetti, per come sono andate le cose, la vittoria di D’Amato è, per il mondo delle imprese, almeno su questo punto, del tutto evanescente.
La rivendicazione vera e di rottura era un’altra. Si trattava di cancellare la protezione contro i licenziamenti ingiustificati per tutti i lavoratori che transitavano da un contratto a tempo determinato a uno a tempo indeterminato. Questa doveva essere la vera svolta. La maggior parte delle nuove assunzioni avviene, infatti, attraverso un contratto di apprendistato o di formazione e lavoro o comunque a termine. Su queste basi la riforma avrebbe progressivamente investito il grosso del mercato del lavoro e fatto dell’art.18 un residuo di archeologia del diritto del lavoro. Ma così non è stato, e la semplice sospensione sperimentale dell’articolo 18 per gli assunti oltre i 15 dipendenti per le aziende che si trovano su questa soglia è una vittoria, come si dice, simbolica e al tempo stesso, per la Confindustria, una sconfitta concreta rispetto alla piattaforma di partenza.

Per Cisl e Uil una vittoria,
ma ottenuta grazie alla Cgil

Nel grido di vittoria di D’Amato è il primo paradosso. Il secondo riguarda Cisl e Uil che possono vantare un successo, nell’aver ridotto a una clausola evanescente quello che era stato il maggior punto di attacco di padronato e governo, simbioticamente uniti, allo Statuto dei lavoratori. Ma questo (relativo) successo altro non è se non il figlio della dura e intransigente determinazione della Cgil, della grande manifestazione a Roma e dello sciopero generale unitario, inizialmente proclamato dalla Cgil in dissenso con Cisl e Uil.

Ma qui viene avanti quello che alcuni commentatori (Salvati, Pirani) hanno considerato un altro paradosso, anzi un grave errore. Perché Sergio Cofferati ha rifiutato di sedersi al tavolo del negoziato, dove avrebbe potuto o fare l’accordo, ricostruendo l’unità con i partner, e portando a casa il frutto della mobilitazione di cui era stato il protagonista; o, in alternativa, rompere nel merito degli altri punti del negoziato? Domanda apparentemente ineccepibile, ma astratta.

La Cgil, che aveva fatto dell'articolo 18 una questione di principio, e su questa aveva fatto appello a una grande mobilitazione, avrebbe dovuto convertire la sua posizione, centrandola su un’altra questione come quella degli ammortizzatori sociali. Ma quali sono stati i risultati del negoziato su questo punto? Proprio il negoziato sugli ammortizzatori sociali si è risolto in un accordo che non poteva essere più deludente. Come rileva l’Ocse, una delle caratteristiche perverse della disoccupazione italiana è la prevalenza della disoccupazione di lunga durata, vale a dire superiore a un anno. Ebbene la durata dell’indennità di disoccupazione portata dal Patto a un anno ed elevata al 60 per cento del salario nei primi sei mesi, si riduce al 40 per cento nei tre mesi successivi e al 30 negli ultimi tre. Si formalizza quell’itinerario che accentua il rischio di esclusione e di povertà che fa da corollario alla disoccupazione, quando non è adeguatamente coperta da forme sostitutive del salario. Né potrebbe essere diversamente dal momento che la spesa per la tutela dei disoccupati rimane la più bassa dell’Unione europea.

Gli ammortizzatori aiutano
solo chi ha certi requisiti

Ma c’è di più, l’indennità di disoccupazione riguarda solo quella parte di lavoratori che può far valere determinati requisiti contributivi. Ma proprio per questa ragione, quando si parla di ammortizzatori sociali, si intende un sistema che assiste con misure di welfare, di tutela generale, anche chi non ha diritto, o ha esaurito la titolarità, a un’indennità in senso proprio. In quell’Europa, ripetutamente ed enfaticamente richiamata dal Patto, questa tutela è fornita da forme di reddito minimo garantito. E, invece, il Patto per l’Italia cosa fa? Invece di estendere e consolidare il reddito minimo di inserimento, stabilito negli anni scorsi a titolo sperimentale (si veda l'articolo di Chiara Saraceno), lo cancella del tutto dalla politica nazionale, rinviandone l’eventuale applicazione a livello regionale. E ognuno sa che nelle regioni del Mezzogiorno il maggior numero di disoccupati incrocia le minori o inesistenti disponibilità di risorse.

Né questi risultati sono attenuati dalla promessa di riduzione dell’Irpef, dal momento che la riduzione si applica ai redditi guadagnati oltre una soglia minima, mentre è esattamente questa soglia che non raggiungono tutti quelli - giovani, donne, in primo luogo meridionali - che cercano inutilmente lavoro o l’hanno perduto. Dunque, il patto per l’Italia non è solo deludente, ma rischia di proiettare nel futuro gli aspetti più negativi del welfare italiano.

Sarebbe stato comunque più utile che la Cgil partecipasse al tavolo negoziale? Dal punto di vista del metodo, si tratta di una valutazione opinabile. Ma dal punto di vista del merito e dei risultati le cose non sarebbero cambiate.

La minaccia di non trattare con la Cgil
problema decisivo per le relazioni sindacali

Ma tornando ai paradossi di questa vicenda sindacale, il paradosso più stupefacente e insieme emblematico della cultura di governo, è stato la minaccia finale di escludere la Cgil - la Confederazione che è stata al centro della scena sindacale e dalle cui scelte sono derivati gli esiti, comunque giudicati, dei negoziati col governo - dai negoziati futuri in relazione a quello che pomposamente è stato definito il Patto per l'Italia.

Qui si è posta una domanda più generale, decisiva per le relazioni sindacali in un regime democratico: può il governo arbitrariamente decidere con chi trattare e chi no? E’ stato richiamato a questo proposito dalla Cgil l’art. 39 della Costituzione. Ma credo che il richiamo all’art. 39 non debba essere valutato in senso tecnico come strumento di riconoscibilità e legittimazione dell’associazionismo sindacale da parte delle istituzioni. Il problema non è quello del riconoscimento, dopo decenni nei quali il sindacalismo confederale è stato al centro della politica economica e sociale del paese. Sotto quest’aspetto la strumentazione tecnica prevista dall’art.39 è certamente superata. Ma ciò che resta vivo è il principio della rappresentatività, il fatto che gli interlocutori del negoziato e i suoi esiti non possano essere lasciati nella discrezionalità dei governi o delle associazioni padronali, dal momento che quegli esiti acquistano, di fatto, un’efficacia generale.

In tempi di unità sindacale il principio è salvo e saldo, perché unitari sono le piattaforme, la mobilitazione, gli esiti negoziali. Quando il filo unitario si spezza, il problema della rappresentatività si ripropone, con o senza art. 39. Questo è tanto vero che il problema è stato unitariamente riconosciuto da Cgil, Cisl e Uil, sin dalla fine degli anni 80, in sede di accordo intercompartimentale del Pubblico impiego, e la soluzione è stata fatta propria da governo e parlamento.

Esiste già una soluzione
per definire chi è "rappresentativo"

Si tratta di una soluzione lineare e trasparente, basata su principi di assoluta democraticità. La libertà di associazione è garantita senza alcuna limitazione. Ma quando si passa alla fase dei negoziati, ciascun sindacato ha il peso che gli spetta in relazione ad alcuni criteri di base, fra i quali due sono fondamentali: primo, il numero degli iscritti; secondo, i risultati delle elezioni degli organismi di base nei luoghi di lavoro.

L’affermazione di questi criteri elementari garantisce la piena autonomia e indipendenza del sindacato, cancellando velleità e tentazioni di eleggere, secondo le convenienze politiche, sindacati “amici” con i quali trattare e concludere accordi e sindacati da discriminare.

Risolvere il problema della rappresentatività, sulla base di principi elementari e trasparenti, partendo dell’esperienza positivamente sviluppata nel settore pubblico e allargandola al settore privato, rappresenta, probabilmente, oggi un terreno di ricostruzione dell’unità in nome dell’autonomia e della democrazia sindacale. E anche un contributo alla democrazia del paese che, rozzamente, si vorrebbe ridurre a una campagna elettorale e ai suoi risultati ogni cinque anni, instaurando una “dittatura della maggioranza”, che pretende la liquidazione del conflitto sociale e l’estenuazione della dialettica democratica tra una competizione elettorale e l’altra.

La rottura fra le Confederazioni
una perdita secca per i lavoratori

Questa fase della nuova stagione sindacale si salda con una rottura tra le Confederazioni che costituisce insieme una perdita secca per i lavoratori e una vittoria politica per Berlusconi. La ripresa di un discorso vero su una possibile, per quanto difficile, ricomposizione sindacale, - imprescindibile, tra l’altro, per costruire insieme con i lavoratori piattaforme unitarie alle prossime scadenze dei contratti nazionali - può solo ripartire dai problemi che rimangono aperti, al di là dell’enfasi di cui si ammantano le diverse posizioni. Rimangono aperti i temi della contrattazione, dei suoi livelli e del merito. Come rimangono aperti, anzi si aggravano, i problemi dello Stato sociale, come indicano in termini allarmanti le proposte del governo sulla sanità e la minaccia alla riforma del sistema pensionistico.

Democrazia sindacale, modello contrattuale, Stato sociale (e il suo stretto rapporto con la politica fiscale) costituiscono altrettanti temi decisivi per riaprire una riflessione e un dibattito all’interno e intorno al sindacato. Certamente non immune da forti contrapposizioni in questa fase, e tuttavia necessario. Le pagine di questa rivista on line possono essere considerate uno spazio aperto e incondizionato a quanti dentro e fuori del sindacato vogliano contribuire a una riflessione e a un dibattito sul merito delle questioni, teso a frenare la deriva attuale e a ricostruire gli elementi minimi e indispensabili a un discorso unitario.

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Il Patto enfaticamente definito “per l’Italia” è una fiera dei paradossi. Il presidente della Confindustria lo considera un trionfo. Quasi una rivincita su tutti gli imprenditori che si erano mostrati contrari a una guerra di religione basata sull’articolo 18. Ma, in effetti, per come sono andate le cose, la vittoria di D’Amato è, per il mondo delle imprese, almeno su questo punto, del tutto evanescente.
La rivendicazione vera e di rottura era un’altra. Si trattava di cancellare la protezione contro i licenziamenti ingiustificati per tutti i lavoratori che transitavano da un contratto a tempo determinato a uno a tempo indeterminato. Questa doveva essere la vera svolta. La maggior parte delle nuove assunzioni avviene, infatti, attraverso un contratto di apprendistato o di formazione e lavoro o comunque a termine. Su queste basi la riforma avrebbe progressivamente investito il grosso del mercato del lavoro e fatto dell’art.18 un residuo di archeologia del diritto del lavoro. Ma così non è stato, e la semplice sospensione sperimentale dell’articolo 18 per gli assunti oltre i 15 dipendenti per le aziende che si trovano su questa soglia è una vittoria, come si dice, simbolica e al tempo stesso, per la Confindustria, una sconfitta concreta rispetto alla piattaforma di partenza.

Per Cisl e Uil una vittoria,
ma ottenuta grazie alla Cgil
Nel grido di vittoria di D’Amato è il primo paradosso. Il secondo riguarda Cisl e Uil che possono vantare un successo, nell’aver ridotto a una clausola evanescente quello che era stato il maggior punto di attacco di padronato e governo, simbioticamente uniti, allo Statuto dei lavoratori. Ma questo (relativo) successo altro non è se non il figlio della dura e intransigente determinazione della Cgil, della grande manifestazione a Roma e dello sciopero generale unitario, inizialmente proclamato dalla Cgil in dissenso con Cisl e Uil.

Ma qui viene avanti quello che alcuni commentatori (Salvati, Pirani) hanno considerato un altro paradosso, anzi un grave errore. Perché Sergio Cofferati ha rifiutato di sedersi al tavolo del negoziato, dove avrebbe potuto o fare l’accordo, ricostruendo l’unità con i partner, e portando a casa il frutto della mobilitazione di cui era stato il protagonista; o, in alternativa, rompere nel merito degli altri punti del negoziato? Domanda apparentemente ineccepibile, ma astratta.

La Cgil, che aveva fatto dell'articolo 18 una questione di principio, e su questa aveva fatto appello a una grande mobilitazione, avrebbe dovuto convertire la sua posizione, centrandola su un’altra questione come quella degli ammortizzatori sociali. Ma quali sono stati i risultati del negoziato su questo punto? Proprio il negoziato sugli ammortizzatori sociali si è risolto in un accordo che non poteva essere più deludente. Come rileva l’Ocse, una delle caratteristiche perverse della disoccupazione italiana è la prevalenza della disoccupazione di lunga durata, vale a dire superiore a un anno. Ebbene la durata dell’indennità di disoccupazione portata dal Patto a un anno ed elevata al 60 per cento del salario nei primi sei mesi, si riduce al 40 per cento nei tre mesi successivi e al 30 negli ultimi tre. Si formalizza quell’itinerario che accentua il rischio di esclusione e di povertà che fa da corollario alla disoccupazione, quando non è adeguatamente coperta da forme sostitutive del salario. Né potrebbe essere diversamente dal momento che la spesa per la tutela dei disoccupati rimane la più bassa dell’Unione europea.

Gli ammortizzatori aiutano
solo chi ha certi requisiti
Ma c’è di più, l’indennità di disoccupazione riguarda solo quella parte di lavoratori che può far valere determinati requisiti contributivi. Ma proprio per questa ragione, quando si parla di ammortizzatori sociali, si intende un sistema che assiste con misure di welfare, di tutela generale, anche chi non ha diritto, o ha esaurito la titolarità, a un’indennità in senso proprio. In quell’Europa, ripetutamente ed enfaticamente richiamata dal Patto, questa tutela è fornita da forme di reddito minimo garantito. E, invece, il Patto per l’Italia cosa fa? Invece di estendere e consolidare il reddito minimo di inserimento, stabilito negli anni scorsi a titolo sperimentale (si veda l'articolo di Chiara Saraceno), lo cancella del tutto dalla politica nazionale, rinviandone l’eventuale applicazione a livello regionale. E ognuno sa che nelle regioni del Mezzogiorno il maggior numero di disoccupati incrocia le minori o inesistenti disponibilità di risorse.

Né questi risultati sono attenuati dalla promessa di riduzione dell’Irpef, dal momento che la riduzione si applica ai redditi guadagnati oltre una soglia minima, mentre è esattamente questa soglia che non raggiungono tutti quelli - giovani, donne, in primo luogo meridionali - che cercano inutilmente lavoro o l’hanno perduto. Dunque, il patto per l’Italia non è solo deludente, ma rischia di proiettare nel futuro gli aspetti più negativi del welfare italiano.

Sarebbe stato comunque più utile che la Cgil partecipasse al tavolo negoziale? Dal punto di vista del metodo, si tratta di una valutazione opinabile. Ma dal punto di vista del merito e dei risultati le cose non sarebbero cambiate.

La minaccia di non trattare con la Cgil
problema decisivo per le relazioni sindacali
Ma tornando ai paradossi di questa vicenda sindacale, il paradosso più stupefacente e insieme emblematico della cultura di governo, è stato la minaccia finale di escludere la Cgil - la Confederazione che è stata al centro della scena sindacale e dalle cui scelte sono derivati gli esiti, comunque giudicati, dei negoziati col governo - dai negoziati futuri in relazione a quello che pomposamente è stato definito il Patto per l'Italia.

Qui si è posta una domanda più generale, decisiva per le relazioni sindacali in un regime democratico: può il governo arbitrariamente decidere con chi trattare e chi no? E’ stato richiamato a questo proposito dalla Cgil l’art. 39 della Costituzione. Ma credo che il richiamo all’art. 39 non debba essere valutato in senso tecnico come strumento di riconoscibilità e legittimazione dell’associazionismo sindacale da parte delle istituzioni. Il problema non è quello del riconoscimento, dopo decenni nei quali il sindacalismo confederale è stato al centro della politica economica e sociale del paese. Sotto quest’aspetto la strumentazione tecnica prevista dall’art.39 è certamente superata. Ma ciò che resta vivo è il principio della rappresentatività, il fatto che gli interlocutori del negoziato e i suoi esiti non possano essere lasciati nella discrezionalità dei governi o delle associazioni padronali, dal momento che quegli esiti acquistano, di fatto, un’efficacia generale.

In tempi di unità sindacale il principio è salvo e saldo, perché unitari sono le piattaforme, la mobilitazione, gli esiti negoziali. Quando il filo unitario si spezza, il problema della rappresentatività si ripropone, con o senza art. 39. Questo è tanto vero che il problema è stato unitariamente riconosciuto da Cgil, Cisl e Uil, sin dalla fine degli anni 80, in sede di accordo intercompartimentale del Pubblico impiego, e la soluzione è stata fatta propria da governo e parlamento.

Esiste già una soluzione
per definire chi è "rappresentativo"
Si tratta di una soluzione lineare e trasparente, basata su principi di assoluta democraticità. La libertà di associazione è garantita senza alcuna limitazione. Ma quando si passa alla fase dei negoziati, ciascun sindacato ha il peso che gli spetta in relazione ad alcuni criteri di base, fra i quali due sono fondamentali: primo, il numero degli iscritti; secondo, i risultati delle elezioni degli organismi di base nei luoghi di lavoro.

L’affermazione di questi criteri elementari garantisce la piena autonomia e indipendenza del sindacato, cancellando velleità e tentazioni di eleggere, secondo le convenienze politiche, sindacati “amici” con i quali trattare e concludere accordi e sindacati da discriminare.

Risolvere il problema della rappresentatività, sulla base di principi elementari e trasparenti, partendo dell’esperienza positivamente sviluppata nel settore pubblico e allargandola al settore privato, rappresenta, probabilmente, oggi un terreno di ricostruzione dell’unità in nome dell’autonomia e della democrazia sindacale. E anche un contributo alla democrazia del paese che, rozzamente, si vorrebbe ridurre a una campagna elettorale e ai suoi risultati ogni cinque anni, instaurando una “dittatura della maggioranza”, che pretende la liquidazione del conflitto sociale e l’estenuazione della dialettica democratica tra una competizione elettorale e l’altra.

La rottura fra le Confederazioni
una perdita secca per i lavoratori
Questa fase della nuova stagione sindacale si salda con una rottura tra le Confederazioni che costituisce insieme una perdita secca per i lavoratori e una vittoria politica per Berlusconi. La ripresa di un discorso vero su una possibile, per quanto difficile, ricomposizione sindacale, - imprescindibile, tra l’altro, per costruire insieme con i lavoratori piattaforme unitarie alle prossime scadenze dei contratti nazionali - può solo ripartire dai problemi che rimangono aperti, al di là dell’enfasi di cui si ammantano le diverse posizioni. Rimangono aperti i temi della contrattazione, dei suoi livelli e del merito. Come rimangono aperti, anzi si aggravano, i problemi dello Stato sociale, come indicano in termini allarmanti le proposte del governo sulla sanità e la minaccia alla riforma del sistema pensionistico.

Democrazia sindacale, modello contrattuale, Stato sociale (e il suo stretto rapporto con la politica fiscale) costituiscono altrettanti temi decisivi per riaprire una riflessione e un dibattito all’interno e intorno al sindacato. Certamente non immune da forti contrapposizioni in questa fase, e tuttavia necessario. Le pagine di questa rivista on line possono essere considerate uno spazio aperto e incondizionato a quanti dentro e fuori del sindacato vogliano contribuire a una riflessione e a un dibattito sul merito delle questioni, teso a frenare la deriva attuale e a ricostruire gli elementi minimi e indispensabili a un discorso unitario.

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Giovedì, 21. Febbraio 2002
 

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