L'Onu e la trappola irachena

Il disastro annunciato è sotto gli occhi di tutti, Bush è in difficoltà e sta cercando di ottenere una nuova risoluzione. Ma le Nazioni Unite possono svolgere un ruolo solo a determinate condizioni
A un anno di distanza, nella piazza di Bagdad che aveva visto l’abbattimento della statua di Saddam Hussein alla presenza di una piccola folla che salutava con entusiasmo l’evento, non c’era nessuno. Anzi, racconta l’inviato del New York Times, qualcuno c’era.
Ma, si trattava dei militari americani che dai carri blindati avvertivano in arabo attraverso i megafoni che si sarebbe sparato a vista su chiunque avesse tentato di avvicinarsi a quello che era stato il monumento del dittatore deposto e imprigionato. Non ci potrebbe essere una metafora più tragica degli esiti di questa guerra apparentemente promossa, secondo la testimonianza di Colin Powell, per un errore dell’intelligence.
Ma a questo punto appare evidente che, al di là di una guerra senza giustificazioni, siamo di fronte al modo assurdo col quale le forze di occupazione hanno amministrato il dopo-guerra. L’entrata, quasi senza colpo ferire, degli americani a Bagdad sorprese il mondo. L’esercito di Saddam si era dileguato. Rumsfeld si congratulò con se stesso per aver avuto ragione contro i generali americani che avevano chiesto una mobilitazione di truppe almeno doppia. Era stata sufficiente una forza militare relativamente piccola per aver ragione di un regime che era stato descritto dall’amministrazione e dai suoi lacchè come un pericolo imminente per il mondo intero.
In effetti, la battaglia di Bagdad non c’era stata perché i capi dell’esercito di Saddam avevano rinunciato a combatterla, probabilmente sulla base di un calcolo realistico delle forze in campo, ma anche della convinzione che il regime fosse ormai finito, e non valesse la pena di difenderlo. Era stato il 25 aprile di Saddam, decretato non in una seduta di gabinetto, ma dalla decisione di abbandonarlo da parte dei gruppi dirigenti dell’esercito e del partito Baath, che del regime erano stati i pilastri.
Gli americani, invece di aprire la strada alla mediazione interna in un paese segnato da profonde divisioni etniche, religiose tribali, hanno aperto una caccia indiscriminata, e fatto sparire nei campi di prigionia migliaia di quelli che potremmo definire i quadri intermedi dell’esercito, del partito, dell’amministrazione. Avrebbero potuto costituire un autentico governo provvisorio aperto alle diverse articolazioni etnico-confessionali dell’intero popolo iracheno. Fecero il contrario, nominando un governo provvisorio nel quale brillavano iracheni esuli da decenni, intimi con la Cia, ma sconosciuti o squalificati agli occhi della popolazione. Fu allora che si sentì per la prima volta la voce di Moqtada Al-Sadr, oggi alla testa dell’insurrezione shiita, farsi beffe del governo fantoccio. Ma nessuno volle farci caso.
Così, in attesa di costruire un fulgido esempio di Stato democratico, gli americani aprivano le porte all’anarchia e al risentimento incrociato della parte sunnita - minoritaria ma componente essenziale della classe dirigente del paese sin da prima dell’avvento di Saddam - e della parte radicale degli shiiti. Dopo un anno di illusorio trionfalismo e di calendari che continuano a supporre la presenza dell’esercito di occupazione quanto meno fino alla fine del 2005, quando è prevista l’elezione di un governo iracheno, il disastro politico e umanitario è dinanzi agli occhi del mondo.
Bush è tra l’incudine e il martello. Non può ritirare l’esercito (semmai, si discute al Pentagono sulla necessità di accrescere le forze di occupazione), e non può lasciare le cose come sono, mentre si svolge una campagna elettorale che lo vede in difficoltà crescenti. La “coalizione dei volenterosi” rischia di sfasciarsi. Non si tratta solo della Spagna di Zapatero orientata al ritiro delle truppe. Il presidente polacco Kwasniewski ha detto che la Polonia è stata ingannata a proposito delle inesistenti armi di distruzioni di massa, e il primo ministro Miller ha annunciato le dimissioni per il 2 maggio. Il ministro degli esteri britannico, Jack Strow, ha ammesso che si è creata una situazione nuova e “inimmaginabile”. Al seguito di Bush rimane Berlusconi, ricco di barzellette e pacche sulle spalle, ma privo di consistenza nello scenario europeo.
A questo punto una nuova risoluzione dell’Onu è diventata indispensabile anche per Bush per contrastare l’accusa dei democratici di insipiente e avventuristico isolamento internazionale. Una nuova risoluzione, alla quale lavora Colin Powell, è difficile ma non impossibile. La questione non è la risoluzione ma il suo contenuto. L’ONU può svolgere un ruolo credibile, solo se ha un mandato politico esplicito: trattare, sotto l’egida di Kofi Annan, assistito possibilmente dalla mediazione di leader arabi, la costituzione di un autentico e riconosciuto governo provvisorio iracheno con la partecipazione delle diverse fazioni rappresentate dai loro capi effettivi, e non quelli scelti dagli americani; impegnarsi al ritiro delle truppe di occupazione; sostenere il nuovo governo nell’opera di ricostruzione.
L’Unione europea dovrebbe assumere in questo mutamento radicale dello scenario un ruolo essenziale. Molto potrebbe dipendere ancora una volta da Blair che incontrerà nei prossimi giorni Bush nel suo ranch texano, se decidesse di rovesciare il ruolo di vicerè dell’amministrazione americana, giocato nella fase di decisione della guerra. Se, in altri termini, decidesse di rappresentare nel rapporto con l’amministrazione americana, l’Europa nel suo insieme, comprensiva di Francia, Germania e Spagna, al posto dell’asse, ormai sconfitto o screditato, un anno fa formato con Aznar, Berlusconi e alcuni governi della “nuova Europa” sempre più in difficoltà all’interno dei rispettivi paesi. Una nuova risoluzione delle Nazioni Unite non è un obiettivo autosufficiente, ma lo strumento per una svolta strategica. Senza la capacità di realizzare un mutamento radicale dello scenario, si risolverebbe in un nuovo e tragico inganno. Anzi un auto-inganno, utile solo a Bush nel tentativo, probabilmente vano, di riconquistare la Casa bianca, ma non al popolo iracheno e all’Europa.
Martedì, 27. Aprile 2004
 

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