Poco più di vent’anni fa, il 13 settembre 2000, moriva Giorgio Fuà, uno dei maggiori economisti italiani del secolo scorso. Roberto Giulianelli, docente di storia economica all’Università Politecnica delle Marche, ne ha rievocato la figura in un bel libro del Mulino dal titolo molto significativo: L’economista utile. Utile perché rivolto alla soluzione dei problemi, come il mestiere dell’economista dovrebbe sempre essere.
La vita di Giorgio Fuà si intreccia con le vicende del nostro Paese. Nato nel 1919 ad Ancona da una famiglia ebraica, Fuà conosce la tragedia delle persecuzioni razziali, che gli costa l’allontanamento dal collegio universitario di Pisa, dove studia, e la fuga in Svizzera, a Losanna e Ginevra. In questo periodo molto difficile Fuà conosce personalità di primo piano come Wilhelm Roepke, Luigi Einaudi, Marcello Boldrini, Vittorio Foa, Luciano Foà, Ernesto Rossi, Sergio Steve e soprattutto Adriano Olivetti, “l’utopista pragmatico”, che rimarrà per sempre il suo faro. Già in piena guerra mondiale Fuà inizia a collaborare alla Nei (Nuove Edizioni Ivrea), la casa editrice di Adriano, e a condividerne i disegni politici. Subito dopo la fine del conflitto Fuà lavora all’ufficio studi dell’Olivetti e a “Comunità”, la rivista dell’Ingegnere.
Per Giorgio Fuà è questa una fase formativa molto intensa, fatta di alti e bassi, di esperienze e relazioni che disegnano un percorso complesso, sovente accidentato. Nel primo dopoguerra Fuà, oltre a collaborare con Olivetti, lavora all’Imi, al Fim (Fondo per il finanziamento dell’industria meccanica), all’Arar (l’azienda che deve smaltire i residuati bellici). Nel frattempo mutano anche le sue idee politico-economiche. Fuà abbandona il liberalismo di partenza, scontrandosi con l’ordoliberista Roepke, per approdare al socialismo e finendo con il guardare con interesse alla pianificazione sovietica. E’ in questo periodo che l’economista marchigiano collabora con la Cgil di Di Vittorio al Piano del lavoro, in cui il sindacato avanza proposte di politica economica volte a far crescere il reddito e l’occupazione, andando al di là della contrattazione salariale.
Fuà passa poi all’Onu, in particolare all’Ece (Economic Commission for Europe) che ha sede a Ginevra, sotto la direzione di Gunnar Myrdal, di cui subisce il fascino condividendone molte idee. Ma l’esperienza dell’Ece, al cui tavolo siedono anche i rappresentanti dei governi comunisti, è destinata a durare poco nel clima della guerra fredda. Per Fuà si rivela però un trampolino di lancio, che lo proietta, agli inizi del 1955, all’Eni di Enrico Mattei, marchigiano come lui, il quale ha modo di apprezzare le ricerche dell’economista anconitano sul petrolio e gli affida la direzione dell’ufficio studi. Inizia un periodo molto intenso in cui Fuà supporta Mattei nella sua strategia diretta a ritagliare all’Eni un ruolo autonomo rispetto alle “Sette sorelle” del petrolio. All’Eni finalmente Fuà si può esercitare concretamente in materia di pianificazione, in cui crede fortemente, elaborando il cosiddetto “Pianino”, ossia un piano di sviluppo triennale dell’ente. Ma il “Pianino” viene accolto freddamente da Mattei, che con il passare del tempo chiede all’ufficio studi sempre meno analisi statistico-economiche e sempre più discorsi e attività di relazioni esterne. Si interrompe così il rapporto con l’Eni, che Fuà lascia nel 1960.
Da quel momento l’obiettivo principale dell’economista marchigiano diventa l’Università. Ma non è solo la carriera accademica ad attrarlo, quanto un progetto di ampio respiro da realizzare ad Ancona, dove è tornato, che comprende la costituzione della Facoltà di Economia e commercio, dell’Istituto di studi per lo sviluppo economico delle Marche (Issem) e dell’Istituto di studi economici Adriano Olivetti (Istao). L’Issem ha il compito di indicare le linee di sviluppo di una regione ancora al di sotto dei livelli del Nord, mentre l’Istao è una scuola manageriale, destinata a formare gli economisti che devono guidare concretamente lo sviluppo regionale.
Fuà, oltre a svolgere il mestiere di economista, assume così il ruolo di “imprenditore culturale”, come egli stesso si definisce. Un “imprenditore civilmente e culturalmente impegnato”, sintetizza Pietro Alessandrini nell’Introduzione al volume di Giulianelli. Non è un caso l’intitolazione della scuola manageriale ad Adriano Olivetti, l’imprenditore che non mirava solo al profitto ma anche all’avanzamento socio-culturale dei dipendenti e della comunità che si raccoglie attorno all’impresa. Come recita il programma del corso di formazione 1996-97, scopo dell’Istao è “formare operatori che abbiano capacità e visione imprenditoriale, intesa in senso lato, cioè come quella combinazione di impegno morale e di capacità operative che occorre per assumere iniziative e responsabilità nell’organizzazione del lavoro proprio ed altrui”.
I progetti anconetani terranno impegnato Fuà per tutta la seconda parte della sua vita. Non di meno, nel 1962, quando si apre la stagione del centro-sinistra, Fuà è chiamato a far parte della Commissione nazionale della programmazione nazionale, presieduta da Ugo La Malfa, ministro del Bilancio, e di fatto diretta dal suo vice Pasquale Saraceno. Nell’ambito della Commissione avviene ben presto una spaccatura tra Saraceno, da una parte, e Fuà e Paolo Sylos Labini, dall’altra, che spingono per un’impronta più riformista. Spaccatura che riflette lo scontro sui piani quinquennali tra democristiani, a loro volta divisi in varie correnti, e socialisti, e che impedirà alla programmazione di decollare. Successivamente Fuà verrà chiamato a far parte di altri organismi tecnici promossi a supporto dei piani quinquennali, come il Comitato consultivo scientifico della programmazione economica, nei confronti del quale egli avrà un atteggiamento piuttosto critico e dal quale si dimetterà nel 1974, dopo l’abbandono di Sylos Labini in seguito alla nomina del plurindagato Salvo Lima a sottosegretario al Bilancio, il cui ministro è Giulio Andreotti.
Dopo questa esperienza Fuà torna ad occuparsi a tempo pieno delle “sue” istituzioni marchigiane. Elabora un modello previsivo dell’economia italiana, da lui chiamato ironicamente il “Modellaccio”, e segue da vicino l’implementazione dell’Issem e dell’Istao. Ma nel frattempo anche l’economia delle Marche muta. La regione tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80 compie quel salto che la porta ad avvicinarsi alle aree di maggior crescita del Paese. Non è solo merito di alcune grandi imprese, come Merloni, Tod’s, Guzzini, ma soprattutto delle tante piccole e medie aziende, che crescono ed esportano, dando luogo a distretti industriali specializzati nella produzione di beni per la persona e per la casa. Fuà coglie l’aria del cambiamento e nel 1983 pubblica, insieme a Carlo Zacchia, Industrializzazione senza fratture, un volume collettaneo sullo sviluppo economico e sociale che nasce dal basso e che vede come protagonista il cosiddetto Nec (Nord-Est e Centro Italia). Dopo aver speso tanti anni della sua vita a cimentarsi con la programmazione, senza però che questa l’abbia mai “ripagato” dell’impegno da lui profuso, Fuà iscrive così il suo nome nell’ambito della letteratura dei distretti industriali, accanto a Cesare Becattini, Sebastiano Brusco, Arnaldo Bagnasco. Tutti economisti italiani di grande levatura, che hanno dato spessore scientifico alla via italiana alla crescita, fondata sullo sviluppo locale trainato dalle piccole e medie imprese.
Questa idea di sviluppo senza fratture, diffusa sul territorio, meriterebbe oggi di essere ripresa e valorizzata. Perché rappresenta una qualificazione indispensabile al concetto di sviluppo sostenibile. Per essere sostenibile dal punto di vista sociale e ambientale, lo sviluppo non può infatti non essere distribuito il più armonicamente possibile sul territorio. Senza lasciare intere aree abbandonate a loro stesse, come avviene in molte zone dell’Appennino, e senza concentrare troppo le attività in città intasate che si allargano verso periferie degradate e vittime della criminalità.
Quello che sta avvenendo in questo momento storico, contraddistinto da un lato dal nefasto impatto della pandemia ma dall’altro dalle opportunità offerte dalla digitalizzazione e dalle risorse europee del Recovery Fund, spinge a riconsiderare in maniera intelligente le possibilità che si aprono per i variegati territori italiani. In tale ottica il lascito morale e intellettuale di Giorgio Fuà appare quanto mai fecondo. Due appaiono infatti gli strumenti in grado di guidare questa fase di cambiamento. Da un lato, una programmazione intelligente, ossia mirata a fornire a tutti i territori la dotazione infrastrutturale di base (reti digitali, energetiche, di trasporto) e a investire contro il dissesto idrogeologico. Dall’altro, il rilancio dello sviluppo proveniente dal basso, stimolando lo spirito imprenditoriale, che un tempo era un punto di forza del nostro Paese e che negli ultimi anni si è affievolito. L’abilità del policy maker dovrebbe essere quella di far incontrare i due aspetti, combinando l’investimento pubblico con quello privato e valorizzando la peculiarità di ciascun territorio in un’ottica di sviluppo diffuso e sostenibile. Su entrambi questi versanti Giorgio Fuà è stato un maestro e il suo messaggio rimane attuale ancora oggi.