Lo slalom tra gli errori della politica industriale

Praticamente assente dall’azione dei governo, anche nei progetti dell’opposizione non manca qualche confusione. Qualche luogo comune da sfatare e alcune direttrici su cui lavorare

Come ricorderanno gli amanti del genere, nei films storici di epoca greco-romana, chiamati in italiano "sandaloni" e in francese "peplum", all'arrivo dell'imperatore di turno squillavano le trombe. Nell'Italia del medioevo prossimo venturo, il ruolo di suonatori di buccine è ricoperto da Bondi, Sacconi e Tremonti, che ad ogni piè sospinto ci raccontano le mirabilia della tenuta dei conti, della solidità dell'economia italiana, del sorgere del sole non più dell'avvenire, ma della ripresa economica.

 

I dati più recenti insinuano più di qualche dubbio. La ripresa economica ha registrato un aumento a gennaio, un piccolo calo a febbraio, una crescita sensibile a marzo: il dato Istat è pari ad un 6,4% destagionalizzato, peraltro inferiore dello 0,1% rispetto a febbraio. Nel primo trimestre il dato complessivo è del 3,1% che, depurato dell'effetto prezzi e cioè dell'1,7%, scende all'1,4%. Probabilmente agisce anche positivamente la svalutazione dell'euro sulle esportazioni. Infine, una leggerissima flessione ad aprile (-0,1%). I pessimisti temono un andamento a v doppio; gli osservatori più obiettivi prevedono una ripresa lenta e faticosa. In effetti, se è vero che la produzione industriale ha recuperato quasi l'8% rispetto ai minimi del 2009, è altrettanto vero che essa è ancora inferiore del 20% rispetto ai massimi toccati all'epoca del governo Prodi. L'Ocse ha rivisto allo 0,8% il tasso di sviluppo per il 2010. Ricordandoci che, siccome la percentuale si applica ad una base di 94 punti (tenendo conto del 6% perduto rispetto al 2008), si ottiene un gracilissimo 0,75%. I dati sull'occupazione continuano ad essere negativi. L'ultimo fornito dall'Istat è dell'8,8% (ma sommandovi i cassintegrati si giunge all'11,2%). La disoccupazione giovanile è al 28% e il tasso di attività al 57%: questi due dati sono fra i più bassi d'Europa. Frattanto i prezzi alla produzione aumentano dell'1,7% e quelli al consumo dell'1,5%. Sembrano sintomi, sia pure soltanto premonitori, dei fenomeni da noi paventati in precedenti articoli: stagflazione e jobless recovery.

 

In questa situazione opposizioni, sindacati e associazioni imprenditoriali sottolineano le carenze, le incertezze, gli equivoci di una politica industriale che, secondo il consolidato costume di un settennale governo "del dire" e non "del fare", appare più dichiarata che realizzata. Nel vuoto di impostazioni organiche abbondano progetti sia delle opposizioni che del governo. Essi hanno elementi comuni, almeno in superficie, e priorità differenti. Ad esempio, tutti invocano provvedimenti a favore dell'innovazione, delle pmi, dell'occupazione, dello sviluppo; sembrano concordare sulla lotta all'evasione e su sgravi fiscali dell'una o dell'altra categoria sociale o produttiva. La scelta dei meccanismi di finanziamento e del tipo di infrastrutture (molte e piccole per l'opposizione, megagalattiche per la maggioranza) non è identica. Anche sulle ipotetiche riforme fiscali le convergenze sono solo apparenti. Il pluriammogliato on. Casini si batte - pour cause - per il quoziente familiare, mentre il governo sembra credere agli effetti salvifici del federalismo fiscale e frattanto si impegna con una mano a favorire, abbattendo paletti normativi, quegli stessi evasori che dice di voler colpire con l'altra. Del pari condivisa sembra la lotta agli sprechi. Ma non è così. Lo spreco rappresenta il più solido legame con le clientele di tutti i partiti, perchè ad ogni spreco corrisponde una platea di beneficiari riconoscenti non necessariamente ricchi.

 

Un riequilibrio della dinamica degli scambi rispetto all'offerta potenziale di un apparato industriale che ha capacità di sviluppo di gran lunga superiori a quelle che immaginano i rapaci da un lato e tremebondi dall'altro governanti attuali è reso possibile solo dal risveglio della domanda interna. Il gap non può essere colmato dai consumi di lusso di poche centinaia di migliaia di cortigiani, profittatori e portaborse, e cioè da quelle incrostazioni parapolitiche che fioriscono sotto i governi "declamatori".

 

D'altro canto le esportazioni, pur egregiamente promosse da audaci esploratori di mercato pilotati da un ottimo sottosegretario come l'on. Urso, favoriscono tendenzialmente proprio la jobless recovery, perché si concentrano nei settori di punta. Si rivelano inoltre una mela avvelenata quando si dirigono verso paesi emergenti. Infatti se gli scambi avvengono fra economie allo stesso livello di industrializzazione, si accentua soltanto la divisione internazionale del lavoro. Ad esempio, noi continueremo a fabbricare scarpe migliori e a costi unitari inferiori e la Germania continuerà a scambiare con noi i propri utensili tecnologicamente perfezionati. Ma quando si esportano prodotti, anche high tech in cambio di materie prime in paesi come Russia, Kazakistan, Azerbaigian, Vietnam, etc, essi, prima o poi, passano dall'importazione dei prodotti a quella di macchinari e know how e  divengono da acquirenti competitori. Pochi sanno che su molte pizze napoletane si spalma una passata di pomodoro che ha percorso la Via della Seta, che i panettoni contengono polvere di uova, sempre cinese, e che il Vietnam si accinge a venderci motociclette.

 

Eludendo il nocciolo vero del problema, i programmi che stanno affiorando, pur diversi per obiettivi, strumenti e blocchi sociali di riferimento, hanno in comune almeno due errori di valutazione. Si insiste sul concetto di piccola e media impresa. La definizione è vaga e poco significativa. Si conoscono in teoria tre dimensioni di impresa, di cui solo quella centrale è stabile: le aziende sottodimensionate (perchè alimentate dal nero o in fase di start-up); quelle a dimensione ottimale; quelle sovradimensionate. Tutte tendono verso una posizione di equilibrio. Il criterio classificatorio, quindi, non può essere dimensionale, ma afferente alla tipologia produttiva e organizzativa: ciò implica una politica industriale strutturale, articolata su un'ampia gamma di interventi, da quelli fiscali ai servizi alle imprese, alle agevolazioni alle fusioni.

 

Il comparto della ricerca, non essendo compiutamente definito, nasconde nelle ipotesi promozionali una non-scelta. Il cammino dell'innovazione abbraccia cinque tappe: la ricerca di base, ove il campo di applicazione sicuro rimane indeterminato; la ricerca finalizzata, dove il pur prevalente aspetto teorico si manifesta all'interno di un grande filone disciplinare (biomedicina, nuovi materiali); la terza si riferisce alla sperimentazione che, se ha successo, sfocia nel prototipo o nella molecola; la quarta comprende l'engineering e la valutazione di economicità; la quinta, infine, consiste nel trasferire l'innovazione in azienda a livello di produzione di massa.

 

Le prime due fasi richiedono prevalente sostegno pubblico, tempi medio-lunghi e formazione di ricercatori con specifiche attitudini teoriche. Le altre tre prevedono un forte impegno del settore privato, con un ruolo pubblico sotto forma di sgravi fiscali, contributi, credito agevolato.

 

Le alternative di una politica per l'innovazione sono dunque due sotto il profilo temporale e altrettante sotto quello della prevalenza del pubblico o del privato. La scelta a favore della ricerca applicata è di breve periodo; è mirata al mondo delle imprese; richiede una limitata spesa pubblica. Ha come costo il pagamento di brevetti e la dipendenza da una filiera di ricerca di base di provenienza straniera. Porre l'accento sulla ricerca teorica implica un maggiore onere pubblico, esiti più incerti, un orizzonte temporale lungo. Presenta il vantaggio di garantire potenzialmente posizioni di capofila nelle innovazioni strategiche, ed è tipica dei grandi paesi con una classe dirigente illuminata. Affermare che si può camminare su due gambe è una sciocchezza quando le risorse sono limitate.

 

Ma l'errore fondamentale consiste nel considerare la politica industriale avulsa dalla politica fiscale e da quella sociale, soprattutto in un paese nel quale il 50% del Pil passa attraverso la mano pubblica. Alcuni grandi economisti internazionali e pochi italiani non "allineati" hanno non da oggi indicato nella divaricazione fra redditi alti o altissimi e quelli medio-bassi il motivo-chiave dello squilibrio strutturale mondiale. In Italia la concentrazione dei redditi ha continuato ad accentuarsi da un ventennio, mentre l'ascensore sociale è bloccato. La redistribuzione dei redditi difficilmente può essere realizzata con una politica salariale; essa richiede una formidabile manovra fiscale. Da un'analisi dei dati della Banca d'Italia sulla concentrazione dei redditi per scaglioni, si può dedurre un ordine di grandezza fra i 300 e i 400 miliardi di euro dell'intervento riequilibratore. Esso non potrebbe che essere graduale, anche se sistematico, per evitare effetti di shock.

 

Non ci sono attualmente le condizioni politiche per una manovra di questo tipo, che sarebbe avversata dagli strati superiori del blocco sociale che appoggia il governo. Sono tuttavia realizzabili nel breve periodo linee di azione ben note e già ricordate su questa rivista, per fronteggiare bisogni collettivi insoddisfatti, atti a rivitalizzare la domanda globale. In primo luogo la manutenzione di abitazioni e infrastrutture primarie, con una miriade di piccole opere. Basti pensare alla molteplicità delle buche nelle strade delle grandi città. In secondo luogo una ricostruzione dell'assetto idrogeologico del paese, che si autofinanzierebbe in larga misura con la riduzione delle spese per emergenze e relative ruberie, in quanto la manutenzione programmata è quasi sempre più economica di quella a guasto. In terzo luogo la green economy e l'ampio settore dei servizi alle persone, dai bambini ai diversamente abili, agli anziani.

 

Come coprirne i costi? Innanzi tutto ponendo uno stop alle grandi opere di incerto futuro, come rilevato da Rosita Donnini in un recente articolo. Eliminando gli sperperi della P.A., spesso coperti da vincoli di segretezza. Le indicazioni recenti della Corte dei Conti sembrerebbero largamente sufficienti ad individuare le linee di intervento. Si potrebbe inoltre rinverdire, con le cautele imposte da precedenti non sempre favorevoli esperienze, il meccanismo dei lavori socialmente utili, reimpiegando i cassintegrati con un aggravio "addizionale" di gran lunga inferiore alla loro produttività. Su queste scelte di fondo è possibile aprire un dibattito senza apparenti valenze ideologiche. Le storture e carenze metodologiche qui rilevate sono per lo più legate a quella filosofia dell'apparire e della banalizzazione concettuale tipica della fase culturale da alcuni definita "berlusconismo", nella quale il personaggio che le dà il nome può essere sia causa che effetto del fenomeno.

 

Vorremmo concludere con una constatazione storicamente motivata: le grandi manovre redistributive - indispensabili nel medio periodo - vanno sorrette da grandi speranze di palingenesi sociale. Sarebbe ben strano se - come suggerisce nel suo ultimo libro (Maoeconomics) Loretta Napoleoni - la via dello sviluppo equilibrato ci fosse indicata da Hu Jintao, anzichè dai nostri Maestri del pensiero socialista e cattolico di un recente passato.

Domenica, 16. Maggio 2010
 

SOCIAL

 

CONTATTI