L'inutile e dannosa Costituzione irachena

Ovvero, come si squalifica il metodo democratico. Il referendum ha esaltato le divisioni etniche, confessionali e regionali facendo nascere di fatto tre mini-Stati che faranno crescere pericolosamente l'instabilità in tutta l'area
E’ un peccato vedere le regole della democrazia utilizzate come strumento di divisione e prevaricazione. I paesi si danno una Costituzione per rafforzare la coesione nazionale e fissare un quadro di regole condivise. Il progetto costituzionale sottoposto a referendum in Iraq non faceva nulla di tutto questo. Peggio, come ha dimostrato l’esito del referendum, ha esaltato le divisioni etniche, confessionali e regionali.
 
Gli sciiti che rappresentano il 60 per cento della popolazione erano favorevoli, come lo erano i curdi che ne rappresentano il 20 per cento. Il risultato non poteva essere che quello scontato in anticipo: il 79 per cento dei votanti si sono espressi a favore e il restantte 21 per cento, corrispondente alla quota di popolazione arabo-sunnita, contro. Il sì ha sfiorato il 100 per cento nelle province sciite e curde. Il contrario è successo nelle due regioni – Anbar e Salaheddin – dove i sunniti sono dominanti.
 
Se in una terza regione il no avesse raggiunto i due terzi dei votanti, il progetto costituzionale sarebbe decaduto. Ma nella provincia demograficamente mista di Ninive, divisa fra arabi sunniti e curdi, il no ha vinto, ma non ha raggiunto i due terzi dei votanti. Per fare i conteggi a Mosul, capitale di questa provincia, ci sono voluti dieci giorni, e i sunniti hanno denunciato brogli, ma alla fine il risultato voluto dal governo iracheno e dagli americani è stato raggiunto, e la Costituzione è stata dichiarata approvata.
 
 Il New York Times ha scritto in un editoriale che la “Costituzione è un documento che conferma le divisioni senza offrire il terreno per l’unità nazionale”. In altri termini, non frena ma, al contrario, rischia di esaltare la guerriglia. Ma Bush, manifestando scarso apprezzamento per l’intelligenza dei suoi concittadini, spiega trionfante che valeva la pena d’invadere l’Iraq e di perdere 2000 soldati americani (i morti iracheni non si contano: c’è chi dice 25.000, ma alcuni istituti indipendenti li valutano in più di centomila) per portare la democrazia in Medio Oriente. In realtà, il lato più ambiguo e squalificante del metodo democratico. Quello che consente a una maggioranza precostituita di sopraffare una minoranza dissenziente. 
 
Il referendum non poteva avere altra sorte per una ragione molto semplice. Il problema iracheno non sta nei curdi per i quali la Costituzione rafforza la loro sostanziale indipendenza dal governo centrale, garantendogli il diritto di avere un proprio esercito, di sfruttare le ricche riserve del petrolio delle province del nord, con la prospettiva di costituire prima o dopo il loro mini-Stato, il Kurdistan, punto di riferimento dei curdi sparsi in Siria e soprattutto Turchia, accendendo nuovi focolai di inevitabili conflitti.
 
Gli sciiti, a loro volta, possono, come hanno voluto scrivere nella Costituzione, unificare le loro province in una o più macroregioni, organizzare il proprio esercito, in realtà una somma di milizie legate alle diverse fazioni di partito e tribali, darsi le proprie regole coraniche, costruire un mini-Stato teocratico, ricco della maggior parte delle riserve petrolifere del paese. In definitiva, costituire uno Stato arabo di confessione sciita, da affiancare all’Iran, grande paese sciita ma non arabo.
 
A gennaio, i sunniti avevano deciso di boicottare le elezioni per il Parlamento. Ora la parola d’ordine era stata rovesciata: partecipare al referendum e votare no, per riaprire un negoziato che li aveva esclusi. Un no che era anche il segno della volontà politica di sostituire alla dialettica brutale e tragica dello scontro armato la via del negoziato. Ma il tentativo è fallito. La speranza di sostituire la politica delle armi con l’arma della politica è stata ancora una volta delusa dall’incapacità della Casa bianca di trovare una via d’uscita politica. Bush dice: staremo in Iraq il tempo necessario e non un minuto più. Quanto durerà il tempo necessario?
 
L’Istituto internazionale di studi strategici di Londra prevede che l’esercito iracheno non sarà in grado di assumere il controllo del territorio prima di almeno cinque anni. E il portavoce del comandante in capo dell’esercito americano in Iraq ha dichiarato che, in presenza di una situazione endemica di guerriglia, il ritiro americano potrebbe richiedere otto o nove anni.
 
Se si volevano mostrare i vantaggi del metodo democratico, non si poteva fare di peggio. Oltre alla frantumazione di quello che era uno Stato nazionale, vi è il rischio di aprire in un’area già esplosiva il vaso di Pandora di nuovi squilibri e conflitti geopolitici. L’Iran guadagna un’oggettiva egemonia sul nuovo mini-Stato iracheno-sciita. La Siria, in contrasto col regine di Saddam, ma storicamente legata all’Iraq dalla comunanza araba e sunnita (oltre che dall’originaria fondazione del Baath) presenta interessi opposti. L’Arabia Saudita, già fragile al suo interno, si vedrà ulteriormente minacciata dall’ascesa dell’egemonia sciita e iraniana.
 
Due anni dopo l’inizio di questa guerra inventata a Washington per ragioni interne, è chiaro come la luce del sole che avevano ragione i francesi e i tedeschi, e poi la Spagna di Zapatero, a condannare l’avventura americana. La Gran Bretagna di Blair non sa come continuare a difendere la sua scelta filo-americana e, soprattutto, non sa come uscirne. Berlusconi è un cane senza collare che tiene inutilmente e pericolosamente il contingente italiano a Nassirya, scodinzolando la coda di fronte al padrone che si manifesta sempre meno interessato a una presenza di facciata, diplomaticamente utile di fronte alla frantumazione della coalizione, ma priva di significato, in uno scenario tragicamente fuori controllo.
 
Venerdì, 28. Ottobre 2005
 

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