L'incerto futuro della costituzione europea

Alla fine, l'Europa si è dotata di un trattato costituzionale. Il varo è passato attraverso l'impervia strada di molteplici compromessi. Spagna e Polonia, che avevano decretato il fallimento la Conferenza intergovernativa sotto la presidenza italiana dell'Unione, hanno ottenuto un sistema di voto che innalza la soglia per l'approvazione delle decisioni nel consiglio dei ministri. E la Gran Bretagna ha fatto valere i suoi veti nei confronti del voto a maggioranza in materia di politica sociale, politica estera e di difesa. Ma anche con questi limiti, non si può negare il passo avanti.
 
L'Unione avrà un presidente del Consiglio che potrà durare in carica fino a cinque anni, con la fine della rotazione semestrale che rischiava di diventare un elemento di folclore più che di governo nell'Europa allargata a 25 (e oltre) stati membri. Se si eleggerà una personalità all'altezza del compito, l'Unione avrà un leader riconoscibile nel resto del mondo e forse in grado di esercitare un ruolo di mediazione e di sintesi all'interno. A questa scelta si affianca quella della nomina di un ministro degli esteri. Al tempo stesso, il Parlamento europeo vede rafforzati i suoi poteri di legislazione e controllo. La Commissione vede confermato il suo ruolo d'iniziativa e la funzione esecutiva. Infine, il trattato fa propria la Carta dei diritti fondamentali.
 
Per i federalisti si tratta di riforme insufficienti, sembrando troppo forte la dimensione intergovernativa, mentre per gli euroscettici, troppo forte rimane il ruolo di Bruxelles. Ma si tratta più di giudizi di scuola che di una valutazione concreta delle mediazioni che, necessariamente, presiedono alla definizione di uno spazio politico unificato, che si accinge a comprendere un intero continente e non ha precedenti nella storia moderna.
Altre dovrebbero essere le preoccupazioni per la situazione di stallo in cui vive l'Unione europea dopo la svolta storica della moneta unica. Il principale difetto non è, nelle carenze istituzionali, ma nel vuoto politico. L'Europa si è divisa drammaticamente di fronte alla guerra in Iraq, non sapendo opporre un'alternativa ragionevole all'arrogante e perdente strategia americana nella lotta al terrorismo e nella stabilizzazione del medio oriente. L'Unione europea è impantanata da tre anni in una situazione di ristagno economico, quando non di aperta recessione. Degli ambiziosi traguardi di Lisbona (innovazione, pieno impiego, coesione sociale) non è rimasta nemmeno l'ombra.
I deludenti risultati delle elezioni europee di giugno avrebbero dovuto indurre a qualche riflessione più di fondo, e far scattare l'allarme sul futuro dell'Unione. Se si escludono pochi paesi, i cittadini europei hanno disertato le urne, e in molti paesi sono stati premiati i partiti euroscettici o apertamente ostili all'Unione. Tra i nuovi dieci paesi entrati il 1° maggio la media di partecipazione al voto è stata del 27 per cento. In Polonia, che da sola conta più della metà della nuova popolazione dell'Unione, l'astensionismo ha raggiunto l'80 per cento degli aventi diritto.
I deludenti risultati delle elezioni sono stati interpretati come una deviazione del voto dal giudizio sull'Unione a quello sui governi nazionali. (Non a caso, quasi tutti i governi europei - non importa se di destra o di sinistra - sono stati sconfessati dagli elettori). Ma la distinzione fra voto per i governi nazionali e voto per l'Europa è per molti versi artificiosa. I governi europei hanno preso tutti l'abitudine di presentare le misure più impopolari come imposte da Bruxelles. Il contenimento della spesa pubblica che si risolve in riduzione della spesa sociale è attribuita alle regole di Maastricht. E così le riforme delle pensioni, le tendenze alla privatizzazione dei servizi pubblici,   l'impossibilità di intervenire nelle crisi delle grandi imprese. Le politiche economicamente e socialmente più indigeste sono addebitate alle inappellabili regole di Bruxelles. Il risultato non può stupire: la rivolta contro i governi in carica coinvolge la sfiducia, quando non un'aperta ostilità, nei confronti dell'Unione europea.
 
Dal suo canto, le istituzioni dell'Unione non fanno nulla per rovesciare questa percezione, né potrebbero riuscirci. La Banca centrale europea, con la sua assoluta indipendenza dai governi, impone una politica di rigore monetario, improntato al più assoluto unilateralismo, preoccupata della lotta all'inflazione, anche quando non c'è, e sovranamente  indifferente ai problemi della crescita economica e ai livelli di disoccupazione. Il Patto di stabilità (e "di crescita", secondo l'ingannevole denominazione ufficiale) è stato applicato dalla Commissione europea in termini così rigidi e contrari a ogni regola di politica macroeconomica in una fase di stagnazione,   da essere definito, in un felice momento di sincerità, "stupido" dal presidente della Commissione, Romano Prodi.
 
I problemi della crescita e dell'occupazione continuano a essere ossessivamente ricondotti alla mancanza di flessibilità del mercato  del lavoro e all'eccesso di tutele dello stato sociale. I governi nazionali sono al tempo stesso responsabili e succubi di queste politiche. Dividere il giudizio negativo degli elettori fra governi nazionali e politiche europee è un esercizio astratto che da una parte pretende l'interessamento dei cittadini alle vicende europee, dall'altra ne respinge la valutazione critica.
Quando in Polonia col 20 per cento di disoccupazione si raccomandano, come elementi centrali della politica europea, la riduzione del disavanzo pubblico col taglio della spesa sociale e una maggiore flessibilità del mercato del lavoro - sempre più privo di regole per effetto della legislazione del lavoro e della debolezza dei sindacati - è difficile stupirsi che voti solo un elettore su cinque, mentre chi vota lo fa contro il governo socialdemocratico che ha portato la Polonia nell'Unione, e a favore di partiti più ostili nei confronti dell'Unione.
 
Trovato il compromesso sulla costituzione, l'Unione deve decidere che cosa vuole diventare da grande. Finora abbiamo assistito a un paradosso. Gli elementi di sovranità politica trasferiti dalle istituzioni nazionali a quelle europee sono stati piegati o alla discrezionalità assoluta di autorità indipendenti come la Banca centrale europea o sottomesse alle regole che presidiano la libertà dei mercati nel quadro di una progressiva e inesorabile riduzione delle funzioni statali. Quando su "La Repubblica" Ulrich Beck ironizza sui suoi concittadino tedeschi che s'illudono di poter esercitare una sovranità che ormai appartiene alle istituzioni europee, trascura l'ipotesi che i tedeschi ne siano ben consapevoli e manifestino il loro dissenso votando contro il governo Shroeder e insieme contro la politica dell'Unione (senza per questo necessariamente rinnegare i principi che stanno alla base della costruzione europea, di cui la Germania è stata e rimane un artefice decisivo).
Perché non dire che la riduzione di sovranità politica a livello nazionale si è convertita in aumento del potere unilaterale delle tecnocrazie, democraticamente irresponsabili a livello sopranazionale? E perché non ammettere che si confrontano almeno due modelli di Europa? Il modello britannico corrisponde più che a una dimensione comunitaria a una grande area di libero scambio di dimensione continentale oggi e, potenzialmente, allargata, domani, a un'area atlantica che comprende il Nafta (Stati Uniti, Canada e Messico). I rapporti privilegiati di Blair con gli Stati Uniti non sono da questo punto di vista un incidente di percorso sulla strada dell'unità europea. Come non lo è l'indifferenza con la quale Blair stringeva ieri buoni rapporti con i governi italiani di centro-sinistra e poi con Berlusconi.
Mettere la testa sotto la sabbia non serve. I nodi dell'Unione verranno al pettine più presto del previsto. Quando, entro uno o due anni, si dovrà approvare il progetto di costituzione varato a Bruxelles (e almeno in una decina di paesi lo faranno via referendum popolari) la costruzione faticosamente messa a punto potrebbe esplodere. Il primo problema si porrà in Gran Bretagna, dove Blair ha annunciato con mossa a sorpresa, anche per sfuggire all'attacco dei conservatori, un referendum di ratifica del nuovo trattato. Ma problemi potrebbero sorgere ancora prima in paesi come l'Irlanda, la Danimarca, la Svezia, mentre assolutamente imprevedibile si presenta la situazione all'est nei nuovi aderenti, a cominciare dalla Polonia. Il trattato costituzionale non può entrare in vigore senza la ratifica di tutti gli Stati membri. E, paradossalmente, per un'eventualità di questo tipo non è stata ancora approntata nessuna rete di protezione.
 
Il rischio è alto, ma è anche probabilmente l'indispensabile prova d'iniziazione che l'Unione dovrà affrontare per diventare adulta. Il dibattito sul futuro dell'Europa dovrà uscire dalla nebbia della retorica europeista, per diventare apertamente politico. Più l'Unione si dilata geograficamente (l'ammissione della Turchia, peraltro importante, sotto un profilo geopolitico globale), più è indispensabile definirne l'identità politica, il modello sociale, i rapporti col resto del mondo.
 
Comunque si definisca, nucleo duro o avanguardia, accordo fra stati pionieri o espressione delle "cooperazioni rafforzate", l'Unione europea avrà bisogno di un motore potente che ne impedisca la paralisi. Nei primi cinquanta anni questo motore è stato fornito dal binomio franco-tedesco. Oggi l'asse Berlino Parigi rimane centrale, ma non sufficiente in una dimensione ormai continentale. Tra le incognite rimane l'Italia, che è stata, fra i grandi paesi, un supporto essenziale della costruzione europea, fino all'avvento del governo Berlusconi, che ha recato all'Europa danni non inferiori a quelli inferti all'Italia. La collocazione dell'Italia nei confronti della politica europea rimane un interrogativo essenziale non solo per il paese, ma per il destino dell'Unione europea.
 
La costituzione è un passo avanti, se non per altro, per una maggiore distinzione fra le responsabilità del livello intergovernativo e di quello comunitario. Questo consentirà di riportare la politica in primo piano. Ma il futuro dell'Unione rimane incerto, e reclama  un dibattito aperto, fuori dalle nebbie della retorica europeista. Chiudere gli occhi sulle ambiguità e sugli errori politici dell'Unione è sembrato troppo a lungo, particolarmente a sinistra, una regola di galateo europeista. Oggi non è più "politicamente corretto", ma semplicemente controproducente. Criticare  e chiedere un radicale cambiamento della politica dell'Unione non significa essere contro l'Europa. Al contrario, è l'unico modo per testimoniarne l'importanza storica e strategica nell'era della globalizzazione, recuperando e rilanciando la sua specifica identità politica, evitando che si smarrisca in una indefinita dilatazione dei confini geografici.
 
Domenica, 18. Luglio 2004
 

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