L'Fmi e le ricette 'estero-vestite'

Il Fondo continua a dispensare suluzioni smentite dai fatti. E forse suggerite da qualcuno Italia

E’ stupefacente come il Fondo monetario internazionale (FMI) torni a prescrivere sempre la stessa ricetta, senza essere minimamente scosso dai suoi fallimenti e dalle critiche di cui è fatto oggetto in tutto il mondo. A parte la solita richiesta di riforma delle pensioni (dimenticando che l’Italia ha operato una riforma radicale, a differenza della maggior parte dei paesi europei, nel passato decennio), il Fondo con ostinata perseveranza è tornato a raccomandare le “gabbie salariali” per il Mezzogiorno.
C’è disoccupazione in Italia? La diagnosi è preconfezionata: la disoccupazione dipende dalla rigidità del mercato del lavoro. Ma, come direbbe Romano Prodi, è una diagnosi ”stupida”, dal momento che, con le stesse regole del mercato del lavoro, con gli stessi livelli di flessibilità, i due terzi del paese fanno registrare una disoccupazione al di sotto della media europea e, in molte regioni, il problema non è più la disoccupazione ma, al contrario, la mancanza di persone in cerca di lavoro. Fino al punto che, se si bloccassero i flussi migratori, molte fabbriche dovrebbero chiudere o trasferirsi all’estero.

Ma oltre alla pretesa rigidità delle regole del mercato del lavoro, il Fondo monetario rilancia il tema dei salari nel Mezzogiorno. Al Sud – è l’argomento – i salari sono troppo alti, e lo sono perché sono stabiliti dai contratti collettivi nazionali. Qui conviene sgombrare il terreno da un equivoco ricorrente. I salari del settore privato sono già differenziati. Una piccola o media azienda del Mezzogiorno non paga lo stesso salario di fatto di un’azienda omologa del Nord-est. I contratti nazionali di categoria si limitano, infatti, a fissare i minimi salariali, mentre spetta alla contrattazione di secondo livello integrarli sulla base di diversi fattori.

La questione è perciò un’altra: è giusto o sbagliato che in un paese vi sia un salario minimo, in grado di tutelare i lavoratori delle qualifiche più basse, dovunque essi operino? La risposta è che nella maggior parte dei paesi industriali avanzati esiste un salario minimo, al di sotto del quale non si può scendere nemmeno con la contrattazione. La differenza è che in paesi come la Francia o l’Inghilterra il salario minimo è fissato per legge, mentre in Italia i minimi sono fissati dai contratti di categoria, e sono considerati inderogabili dalla giurisprudenza in base ai principi fissati dall’art.36 della Costituzione.

La razionalità del modello contrattuale e salariale italiano sta nel fatto che i contratti nazionali stabiliscono i minimi, mentre la contrattazione aziendale o territoriale differenzia i salari sulla base di molti altri fattori, come i diversi livelli di produttività, di tecnologie, di organizzazione del lavoro. Dunque, la contrattazione coniuga un modello di solidarietà con uno di differenziazione.

Vale la pena di notare che i minimi contrattuali italiani per i lavoratori delle fasce più deboli della scala professionale sono significativamente più bassi dei minimi fissati per legge in un paese concorrente come la Francia. Qui il salario minimo mensile (Smic) si attesta al di sopra di 1100 euro, in Italia il salario minimo contrattuale oscilla intorno a 1000 euro mensili nei due principali contratti nazionali relativi ai metalmeccanici e al terziario. Al netto di imposte e contributi, siamo intorno a 1.500.000 vecchie lire. E questo salario riguarda un lavoratore adulto a tempo pieno. Per un giovane che entra con la qualifica di apprendista, la somma si riduce del 30 per cento. Poi sappiamo che la nuova occupazione, soprattutto quella femminile, è in larga misura part time, con un salario corrispondentemente ridotto a 700-800 mila lire mensili. Con i minimi salariali reali fermi in tutto il passato decennio (la contrattazione nazionale recupera, nel migliore dei casi, il tasso d’inflazione) si sta creando in Italia una nuova categoria sociale di persone che, pur lavorando, rimangono al di sotto della soglia della povertà (i working poor, ampiamente conosciuti in America). Cosa dobbiamo concluderne? Che la posizione del Fondo monetario è puramente e semplicemente priva di fondamenta? Il suo è un fondamento ideologico. Secondo le teorie monetariste, rinverdite da Milton Friedman e dalla scuola di Chicago, la disoccupazione (involontaria) non può esistere. Se si manifesta è perché l’offerta di lavoro non è sufficientemente flessibile da adeguarsi alle condizioni della domanda. Insomma, quando compare la disoccupazione, la causa deve essere individuata negli ostacoli frapposti dalla legislazione del lavoro, dai sindacati, dalla contrattazione collettiva che, nel loro intrecciarsi, irrigidiscono le condizioni dell’offerta di lavoro.

Coerentemente con quest’impostazione, il Fondo, non potendo proporre l’eliminazione dei sindacati, propone più modestamente la fine della contrattazione collettiva nazionale. Il risultato, in questo caso, è la frantumazione della contrattazione e della solidarietà con l’affidamento delle condizioni di lavoro ai rapporti di forza. Il sindacato si aziendalizza, secondo il modello giapponese e americano. E, in prospettiva, riduce progressivamente la sfera dei lavoratori tutelati, com’è il caso degli Stati Uniti, dove i lavoratori del settore privato sindacalizzati sono ridotti al nove per cento.

Sappiamo che il Fondo monetario col suo fondamentalismo ideologico ha portato al disastro interi paesi, dalla Thailandia all’Argentina. Conosciamo le critiche cui è sottoposto non solo dal movimento di Seattle e di Porto Alegre, ma dalla stessa compagine accademica, com’è testimoniato dagli scritti di Joseph Stiglitz, Nobel per l’economia del 2001 ed ex vice presidente della Banca Mondiale (vedi articolo e recensione).

Rimane da chiedersi come sia possibile che le solite e infondate raccomandazioni non siano rinviate al mittente. E la spiegazione sta nel fatto che almeno una parte di queste raccomandazioni all’Italia proviene esattamente da alcune istituzioni italiane, che cercano sostegno e credibilità facendo metter sulle loro tesi (rottura dei contratti collettivi nazionali, attacco alla riforma delle pensioni), il timbro di Washington, dove siede la tecnocrazia del Fondo monetario internazionale.

Venerdì, 25. Ottobre 2002
 

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