L'Europa è lontana

I problemi dell'Unione sono del tutto assenti dal dibattito pre-elettorale. Eppure siamo dentro un crisi economica che in America è stata definita la peggiore dopo la Grande Depressione. Là, però, ci si sforza di varare politiche che la affrontino, mentre la tecnocrazia che governa l'Ue è rimasta del tutto immobile. Con l'adozione del Trattato di Lisbona le cose potrebbero cambiare: ma da noi nessuno sembra preoccuparsene

Un dato comune del dibattito politico preelettorale è l’assenza dell’Europa. La cosa è particolarmente sorprendente poiché siamo nel mezzo di quella che negli Stati Uniti viene considerata la crisi finanziaria più grave dopo la Grande Depressione degli anni Trenta. E poiché nell’era della globalizzazione le economie sono intercomunicanti, e nessun paese può considerasi immune dal contagio, il campanello d’allarme è suonato per tutta l’Unione europea, e per l’Italia in modo particolarmente fragoroso. Le previsioni di crescita per l’anno in corso sono state continuamente ridotte per i paesi dell’Unione, e per l’Italia indicano uno sconfortante 0,6 per cento. Ma come se nulla fosse, la campagna elettorale vede i leader dei due principali schieramenti contendersi il primato della caccia al vello d’oro: più crescita e meno tasse per tutti, insieme col riequilibrio del bilancio pubblico e una riduzione accelerata del debito pubblico. Propositi lodevoli, peccato che il percorso rimane sconosciuto.

 

La crisi dei mutui ipotecari in America, che è all’origine di una crisi finanziaria generale, non si è estesa automaticamente all’Europa perché diverse sono le condizioni che regolano la concessione dei mutui immobiliari, e si spera che il sistema bancario europeo possa evitare la deriva americana. Ma alcune banche tedesche hanno pesantemente risentito della crisi, e la Northern Rock inglese ha fatto vedere sugli schermi televisivi di tutto il mondo  le lunghe file di risparmiatori che si precipitavano a ritirare i depositi, terrorizzati da un’imminente minaccia di bancarotta, evitata dal ricorso alla nazionalizzazione – un rimedio estremo assunto a malincuore da Gordon Brown che si è affrettato a promettere che, una volta risanata (con danaro pubblico), la banca sarà restituita al mercato.

 

La crisi americana ha per l’Europa conseguenze più vaste sul piano dell’economia reale: insieme con la contrazione della crescita si riducono consumi e investimenti con inevitabili conseguenze sull’occupazione e i salari, già colpiti dalla ridotta crescita degli anni scorsi.  Ma ciò che stupisce non è questo, quanto il comportamento  delle istituzioni europee. Per un verso, la olimpica inerzia della Banca centrale europea che tiene ostinatamente fermi i tassi di interesse al 4 per cento mentre la Federal Reserve, la banca centrale americana, li ha più che dimezzati. Dall’altro, l’atteggiamento della Commissione europea, e in particolare del commissario agli Affari economici Almunia, la cui unica preoccupazione è stata finora il richiamo al rispetto dei programmi di pareggio del bilancio, come se niente fosse successo - business as usual.

 

Al contrario, le contromisure adottate da Ben Bernanke, il presidente della Fed, succeduto ad Alan Greenspan, sono state radicali e per molti versi eterodosse. In pochi mesi ha ridotto del 60 per cento il  tasso di rifinanziamento portandolo al 2,25 per cento, in pratica un tasso reale ampiamente negativo. Ha offerto liquidità illimitata alle banche e alle istituzioni finanziarie in difficoltà, accettando come garanzia titoli cartolarizzati sui mutui che il mercato respinge. Ha salvato dalla bancarotta la Bear Stearns, una delle grandi banche d’investimento di Wall Street, che aveva visto polverizzate le sue azioni fino a 2 dollari contro il picco di 171 raggiunto all’inizio del 2007 – salvataggio attuato attraverso il suo passaggio alla JPMorgan alla quale la Fed ha fornito una garanzia di 30 miliardi di dollari. Non contento di queste misure di carattere monetario, Bernanke ha proposto e ottenuto da Henry Paulson, il segretario al Tesoro, una rapida  e consistente manovra fiscale di 150 miliardi, pari a oltre l’1 per cento del reddito nazionale americano. 

 

Riuscirà il presidente della Fed ad arrestare la deriva americana e le sue conseguenze sul resto del mondo? Paul Samuelson, il decano degli economisti americani, grande testimone delle crisi del XX secolo, avanza dei dubbi: le manovre monetarie e fiscali  messe in atto non sono, a suo avviso, sufficienti, e l’amministrazione Bush non è in grado di attuare, in termini aggiornati, scelte radicali del tipo attuato nel New Deal, come la Reconstruction Finance Corporation, che oggi dovrebbe essere riformulata in funzione della crisi dei mutui ipotecari. E’ possibile che lo scetticismo di Samuelson si riveli fondato. Ma è fuori discussione che la Fed e, al suo fianco, l’amministrazione americana abbiano finora operato con grande determinazione per arginare le conseguenze della crisi. .

 

Nell’Unione europea le cose si pongono in termini rovesciati.  Per Jean-Claude Trichet, presidente delle Banca centrale europea,  il problema non è la minaccia recessiva, ma l’inflazione che col 3,2 per cento in questi primi mesi dell’anno si è allontanata dalla soglia mistica del 2 per cento, che rappresenta il target della Bce. Tutti sanno che la crescita dell’inflazione non deriva da un aumento dei consumi, ma dalla crescita dei prezzi a livello mondiale dei prodotti energetici e alimentari. L’inflazione è peraltro almeno un punto più bassa di quella americana, mentre la Bce stessa ne prevede la riduzione al 2,9 per cento per la fine del 2008 e al 2,1  nel 2009. Dov’è la minaccia? Il problema è che il tasso d’interesse, fermo al 4 per cento da quasi un anno e prossimo al doppio di quello americano, ha esaltato il cambio dell’euro, portandolo fino a quota 1,60 contro il dollaro.

 

Un dislivello così alto e repentino mette in difficoltà le esportazioni e l’industria europea, aggiungendo alla riduzione dei consumi interni la compressione delle esportazioni.  La Germania che ha una specializzazione produttiva fortemente centrata sui beni d’investimento, che godono della forte domanda della Cina e dell’India, è  meno colpita della Francia e dell’Italia, ma grandi imprese come la Siemens, la BMW, la Volkswagen accusano crescenti difficoltà destinate a riverberarsi su occupazione e salari.

 

I commentatori economici difficilmente attaccano i banchieri centrali di Francoforte per i quali vige la regola di una reverente cautela quando se ne commenta la politica. Ma, in questa fase, la musica è cambiata. Da Deaglio sulla “Stampa” a Scalfari su “Repubblica” il comportamento della Bce è stato considerato inspiegabile, quando non apertamente “insensato”.  E, riferendosi a “chi si scandalizza dell’attivismo della Fed” – Fabrizio Galimberti ha scritto su “Il sole 24 ore”: “Il pronto soccorso della Fed fomenta l’azzardo morale? I rimborsi fiscali di Bush scassano il bilancio? Forse: ma almeno l’America non sta alla finestra, prende rischi e mette sul tavolo una politica economica”.

 

Arriviamo così al cuore del problema: il coordinamento della politica economica europea. Perché  questo coordinamento non esiste? La domanda si ripropone da anni con insistenza, ma non trova risposte soddisfacenti. Forse, a questo punto, vale la pena di chiederci se la domanda è posta correttamente. E’ proprio vero che l’Unione europea - e in particolare l’Unione monetaria -  è priva di un coordinamento della politica economica? La risposta è meno certa di quanto convenzionalmente si ritenga.

 

Vediamo perché. La politica monetaria è governata da una Banca centrale che dispone di poteri sopranazionali perfino superiori a quelli normalmente attributi alle banche centrali dei grandi paesi industriali, dalla Banca d’Inghilterra, alla Banca centrale giapponese, alla Federal Reserve americana. Quanto alla politica di bilancio, l’altra gamba del coordinamento della politica economica, è rigorosamente regolata dal Patto di stabilità e crescita. Sulla base del Patto che definisce un quadro di riferimento vincolante delle politiche di bilancio degli stati membri, la Commissione europea dispone di un ampio potere di sorveglianza, sulla cui base propone raccomandazioni e, se del caso, procedure  d’infrazione che, se non rispettate, danno luogo a precise sanzioni. La decisione formale spetta al Consiglio dei ministri finanziari ed economici e al Consiglio europeo, ma salvo rari casi , come quando nel 2003 il meccanismo doveva colpire la Francia o la Germania, le determinazioni della Commissione sono inoppugnabili.

 

Riassumendo, la politica monetaria e quella di bilancio, i due assi della politica macroeconomica,  sono nelle mani di un’autorità statutariamente indipendente com’è la Bce, e di un’altra - la Commissione europea - che esercita il suo potere di controllo e di interdizione sulla base del Patto di stabilità. Non si tratta di un governo economico, se ci riferisce a un’istituzione di governo in senso classico, regolarmente eletto e democraticamente responsabile di fronte al Parlamento e agli elettori. Ma è indubbio che le due autorità – formalmente o sostanzialmente indipendenti – esercitano una funzione di governo sulla politica economica dell’Unione, vincolando gli Stati membri. Se ne deve concludere, contrariamente alla convinzione corrente, che la domanda giusta non riguarda l’esistenza di un “coordinamento delle politiche economiche”, ma il suo indirizzo i suoi contenuti concreti, i suoi fondamenti. Riguarda, in altri termini, le politiche dell’Unione europea.

 

Nella costruzione dell’euro e delle scelte istituzionali che ne furono assunte come premesse, l’opinione dominante era che bisognava bandire la politica dal funzionamento economico dell’Unione. L’interferenza dei governi era considerata dannosa. Il potere dei governi nazionali doveva essere devoluto a “Autorità indipendenti” o comunque vincolato a un apparato di regole predeterminato e sottratto alla discrezionalità politica. Alla logica delle istituzioni politiche che praticano il confronto delle idee e la mediazione degli interessi politici si sostituì il potere delle tecnocrazie orgogliosamente autoreferenziali.

 

In questo quadro, il problema non è, come spesso si  ripete, l’indipendenza, criticata o esaltata, della Bce, ma la mancanza di una controparte politica. Nel quadro dell’euro poteva esserlo l’Eurogruppo composto dai ministri dell’economia e delle finanze dei paesi all’euro, ma non lo è stato. Jean-Claude Junker, primo ministro del Lussemburgo, presidente dell’Eurogruppo, non è mai riuscito a interloquire col presidente della Bce, essendone semmai il portavoce nei confronti dei governi.

Molte volte è stato suggerito un cambiamento dello statuto della Bce: obiettivo difficilmente realizzabile. Jacques Delors disse una volta: “Non tutti i tedeschi credono in Dio, ma tutti credono nella Bundesbank”. E la Bce è stata concepita a sua immagine, anzi con tratti ancora più marcati, e la Germania non ammetterà mai che sia modificata.

 

Il problema è quello di una controparte politica come succede in tutto il mondo democratico. Il progetto costituzionale, sia pure con intenti confusi, provava a dare all’Unione europea una dimensione politica. Ma è stato bocciato, e nessuno intende rimettere mano a complesse riforme istituzionali, capaci solo di paralizzare l’Unione. Ma il trattato di Lisbona, in corso di ratifica tra i 27 paesi dell’Unione, raccogliendone alcuni punti importanti può offrire una via d’uscita. Mi riferisco all’istituzione di un presidente a tempo pieno del Consiglio europeo, nominato dai capi di Stato e di governo, con un mandato di due anni e mezzo prolungabile a cinque. E’ un cambiamento il cui significato rimane tutto da definire, ma potenzialmente dirompente. Si può intendere un presidente come figura decorativa, che convoca le riunioni del Consiglio, e si limita a amministrare l’ordine del giorno, generalmente preconfezionato dalla tecnocrazia di Bruxelles. In questo caso, potrebbe trattarsi di una figura incolore e di scarso peso, e tutto rimarrebbe come prima.

 

Ma può verificarsi il contrario. In questi mesi è stata fatta l’ipotesi di chiamare a questo incarico Tony Blair. Qualsiasi cosa se ne pensi, l’ex premier britannico gode di un vasto prestigio internazionale: può parlare autorevolmente, a nome dell’Unione europea, col prossimo presidente (si spera democratico) degli Stati Uniti, come con Wen Jiabao o Dmitry Medvedev. Naturalmente non mancano le obiezioni. Blair ha diviso l’Unione sull’Iraq e ha una concezione dell’Europa sociale piuttosto anglosassone, per non citare che due aspetti.

 

Altri hanno messo in campo la candidatura di Angela Merkel che associa a un’innegabile personale prestigio la tradizione europeista di un paese fondatore della Comunità. Ma può darsi che si tratti di una candidatura indisponibile, essendo il 2009 l’anno delle elezioni tedesche e la cancelliera potrebbe ambire a essere rieletta. Ma, quali che siano le soluzioni – queste o altre egualmente significative - il fatto che si discuta di una leadership europea riconosciuta, politicamente rappresentativa degli Stati che compongono l’Unione, è di per sé una grande novità. Se la scelta che sarà compiuta entro la fine dell’anno andrà in questa direzione, associandosi a quella dell’Alto rappresentante per la politica estera, l’Unione europea potrà acquisire un nuovo volto nello scenario internazionale. La stessa cosa potrebbe verificarsi all’interno dell’Unione. Il coordinamento delle politiche economiche cesserebbe di essere il riflesso meccanico di norme affidate a una burocrazia irresponsabile e autoreferenziale, per collocarsi all’interno di un processo di confronto delle idee e di mediazione politica in grado di dare trasparenza  e forza alle scelte dell’Unione europea. Ci avvicineremmo al modello di federazione di Stati nazionali auspicato da Delors, stabilendo un nuovo equilibrio trasparente e più efficiente fra le istituzioni europee e gli Stati che compongono l’Unione.

 

Altri cambiamenti, per molti versi, sono già in atto, anche se in modo latente. Francia, Germania e Gran Bretagna – tre paesi che da soli rappresentano il 40 per cento dei cittadini dell’Unione - si pongono già come un club elitario, se non proprio un direttorio, in grado di indirizzare le scelte dell’Unione. Dove si possa collocare l’Italia rimane per ora una domanda senza risposta. Discuterne sarebbe quanto meno utile, e forse obbligato.

Giovedì, 27. Marzo 2008
 

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