Le tre sinistre nel Pd

Il fatto che il voto delle primarie non abbia confermato il risultato conseguito da Cuperlo tra gli iscritti segna l'epilogo di un logoramento fino alla virtuale scomparsa di ciò che restava del Pci. Ha stravinto un’altra sinistra molto moderata e poco laica, anomala nel panorama mondiale, con un'impronta di cattolicesimo liberale. Ma questo apre lo spazio a terza sinistra finora senza rappresentanza

Col passare del tempo, sulle primarie del Pd si possono leggere analisi che tentano di tracciare un bilancio più compiuto mettendo in evidenza le novità che potranno avere un peso maggiore sull'evoluzione della politica italiana in questa fase travagliata, di profonda crisi.

Un primo dato che è stato messo in rilievo sin dalla convocazione del congresso è che il maggiore partito italiano nei sei anni che lo separano dalla fondazione ha già eletto il suo quinto segretario. Segno evidente di quanto sia faticosa la ricerca di una qualche stabilità. Nonostante questo, non è stato neppure stavolta un fenomeno limitato. Smentendo i timori della vigilia, di chi dava per scontato che avrebbe avuto una portata minore rispetto passato, ha mobilitato quasi tre milioni di elettori. Né si può dire che l'instabilità abbia portato a un esito incerto. Uno solo, Renzi, le ha vinte, incontestabilmente. E chi riteneva che Renzi fosse destinato a vincere le primarie aperte agli elettori senza avere alle spalle la maggioranza degli iscritti è stato smentito. Piuttosto, si è confermata la previsione che il voto degli elettori non avrebbe confermato il risultato conseguito da Cuperlo tra gli iscritti. In tutte le precedenti primarie, viceversa, il voto degli elettori aveva rispecchiato piuttosto fedelmente, per tutti i contendenti, quello degli iscritti.

Quest'ultimo dato, più degli altri, è stato inquadrato in una prospettiva storica. Il mezzo milione di elettori a cui si è ridotto il consenso della mozione Cuperlo è stato letto come l'epilogo di un processo più che ventennale di lento logoramento, sfarinamento, fino alla virtuale scomparsa di ciò che restava del Pci. Se, a partire dalla svolta della Bolognina, era toccato alla parte rimasta fedele a quella storia di subire una progressiva marginalizzazione, nel susseguirsi delle diaspore, fino a  restare fuori dal Parlamento, con le primarie del 2013 anche il nucleo degli eredi che avevano tentato di rompere la continuità, senza abiurare, ha dovuto prendere atto della sconfitta.

Questo gruppo, restato in posizione di supremazia nello schieramento di sinistra, si è ostinato, coraggiosamente, a rivendicare di essere stato comunista, italiano, del Pci. Tuttavia, nel dichiarare di “non esserlo più” non ha trovato il modo di dare conto, come era chiamato a fare, delle ragioni e degli scopi della trasmutazione. Così ora ha dovuto prendere atto di aver imboccato una strada senza uscita. Privo di radici, incapace di fare i conti con il passato, si è ritrovato privo degli strumenti per disegnare un futuro. Ci sarà modo di approfondire le ragioni per cui quel gruppo dirigente abbia fallito in questo compito. Non mancano contributi, anche molto recenti, che possono aiutare a comprendere. Alcuni provengono da protagonisti della storia del Pci e delle sue successive trasformazioni (Occhetto, Macaluso, Tocci), altri da analisti acuti che ne sono stati partecipi più di recente o se ne occupano e ne seguono le dinamiche da vicino (Barca, Damilano per fare i due esempi più noti).

Un fatto è comunque assodato. Con il dar vita al Partito Democratico Walter Veltroni, così come quindici anni prima Achille Occhetto, aveva intuito che fosse necessario uscire da un recinto di contraddizioni e di doppiezze che avevano segnato l'esperienza del Pci, pur con tutti i meriti che andavano riconosciuti a quella storia, centrale per la storia della sinistra italiana nel suo complesso. Ma l'uno e l'altro si erano dovuti arrendere di fronte alla forza di attrazione del valore identitario di quell'ascendenza, che permetteva di conservare una presa su una parte di elettorato sufficiente a impedire la pura e semplice rimozione.

L'8 dicembre 2013 ha vinto, anzi stravinto sugli eredi del Pci, un'altra sinistra. Quella a cui si erano appoggiati nel tentativo di rimanere in piedi. Una sinistra molto moderata e poco laica, anomala nel panorama mondiale, con un'impronta di cattolicesimo liberale innervato dalla dottrina sociale della Chiesa. Che, nel dilagare dell'egemonia della destra, del pensiero unico iperliberista, era collocabile nel campo della sinistra. L'anomalia stava nel fatto che nel resto del mondo quel filone rappresentava un complemento, significativo ma minoritario, della sinistra di impronta socialdemocratica, o democratica tout court. E che il cristianesimo liberale (o popolare) era, per lo più, il fulcro dello schieramento di destra moderata. In Italia invece guadagnava terreno nella sinistra per effetto della peculiarità (e della debolezza) della componente postcomunista.

E' giusto che nella sinistra democratica, socialista, laica, si pianga per questo esito? Penso di no, perché non credo potesse esserci spazio per una sinistra “normale” fintanto che dominava la sinistra di chi, provenendo da una storia che risaliva alla Terza Internazionale, non avendo fatto i conti con nettezza con quelle radici scendeva a compromessi con il moderatismo liberista. Ora quello spazio c'è. Per la prima volta una terza sinistra può affacciarsi in modo chiaro, visibile e non marginale all'interno del Pd.

Non c'è osservatore che non abbia colto come un mondo di delusi e arrabbiati nel campo della sinistra, reduci dall'astensione o dal voto di protesta ai 5 stelle “per dare un segnale”, fosse tentato dalla partecipazione alle primarie ed abbia solo in parte scelto di farlo, votando Civati ovvero contribuendo alla vittoria di Renzi perché “è di destra ma è l'unico che può spazzare via la sinistra delle sconfitte e delle poltrone”. Non si tratta, come è sempre stato in passato, di un'area marginale. Basti pensare che il popolo del referendum sui beni comuni è più numeroso della somma dei tre partiti-poli (PD + PDL + M5S) e che vi è confluito quello delle primavere arancioni, il popolo viola, le donne del “se non ora quando”: segmenti spesso sovrapponibili gli uni con gli altri, che hanno trovato molteplici occasioni per convergere ma attendono ancora una risposta dalla politica che faccia sintesi e si candidi a governare.

E c'è di più: le grandi associazioni di rappresentanza, non solo i sindacati dei lavoratori ma le associazioni dei “piccoli” (artigiani, imprenditori, autonomi) stanno vivendo un inaridimento complessivo della loro capacità di rappresentanza. La loro azione è inefficace in una crisi che morde fin nel ceto medio, mentre i garantiti vanno perdendo tutele e perfino diritti; non è intaccato ancora il reticolato visibile, l'impalcatura delle strutture un tempo grandi ma i gusci, sempre più vuoti, rischiano di implodere. Non potranno certamente tardare a manifestarsi fenomeni di rinnovamento radicale, a cui il sommovimento avvenuto nel Pd può fare da innesco.

Che ne sarà di questo amalgama, di questa composita realtà sociale soggetta ad impoverimento e emarginazione, nessuno sa dirlo. Che a questo amalgama si debba rivolgere, innanzi tutto e senza indugio, prima che sia troppo tardi, la sinistra in gestazione è però fuori di dubbio. Perché, con la destra, sia sconfitta anche la crisi che ha prodotto e di cui si nutre.

E' un compito tutt'altro che facile. Per tante ragioni, che è perfino superfluo elencare, è un compito che Renzi non può assolvere, se non sciogliendo le ambiguità che ha coltivato e le contraddizioni in cui è avvolto con una chiara scelta di campo a sinistra. Il primo banco di prova, già incombente, è la legge elettorale ma la cartina di tornasole sarà il lavoro. Non dipende solo da lui, sta alla sinistra accettare la sfida senza rifiutare di misurarsi sull'obiettivo che Renzi propone. Quello di vincere una partita di portata storica.

Giovedì, 2. Gennaio 2014
 

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