Le strategie economiche al tempo dei dazi

Il commercia mondiale, sotto i colpi dei dazi di Trump, ha frenato bruscamente, ma la Cina, che ha praticamente azzerato il suo surplus commerciale, punta sulla crescita interna. Non cambia invece la linea della Germania, dove l’export vale la metà del Pil e il surplus della bilancia è al 7%. Una politica seguita anche dall’Italia, il cui surplus sfiora il 3%, che si espone al rischio del protezionismo americano

Le guerre commerciali con Cina ed Europa scatenate da Trump contribuiscono a frenare il commercio mondiale e a ridurre la crescita mondiale, che si sta avvalendo del solo motore della domanda interna. Per quest’anno il Fondo Monetario Internazionale prevede un aumento del commercio mondiale dell’1,1%, contro il 3,6% del 2018, ma, considerate le diminuzioni avvenute negli ultimi tre trimestri, secondo alcuni analisti il consuntivo di fine 2019 sarà negativo. Il Ref ad esempio prevede un calo dello 0,4%. Se le guerre dei dazi si placheranno, le cose potrebbero migliorare nel 2020 - anno di elezioni americane - con una crescita del commercio mondiale stimata dal FMI al 3,2%. Ma anche in questo caso non è da escludere che il Fondo pecchi d’ottimismo.

L’obiettivo di Trump è sia economico - difendere la produzione e l’occupazione americane, limitando le importazioni - sia politico, salvaguardando la leadership USA nelle tecnologie più avanzate dall’attacco cinese. Anche la Cina però si serve da tempo del commercio estero per scopi non solo economici ma anche politici, avendo ben chiari i suoi obiettivi geo-strategici, dei quali fa parte la via della seta.

Una riprova di ciò è il fatto che la Cina ha drasticamente ridotto negli ultimi anni il suo enorme avanzo di parte corrente, aprendo il proprio mercato alle importazioni. E’ questo un aspetto non abbastanza sottolineato dagli analisti. La Cina, che vantava nel 2015 un surplus delle partite correnti di ben 304 miliardi di dollari, pari al 2,7% del Pil, è scesa nel 2018 ad un avanzo di soli 49 miliardi, corrispondenti allo 0,4% del Pil. Per il 2019 l’FMI prevede un aumento a circa 60 miliardi (l’1% del Pil), che però scenderebbero di nuovo a circa 41 miliardi nel 2020 (lo 0,9% del Pil).

Nessun altro grande Paese ha operato un cambio di rotta del genere negli ultimi anni. La Germania fa del surplus di parte corrente - che quest’anno dovrebbe aggirarsi sui 270 miliardi di dollari, pari al 7% del Pil - un must della sua politica. Il Giappone – anch’esso storicamente in avanzo - viaggia attualmente attorno ai 175 miliardi di surplus, corrispondenti al 3,5% del Pil. Persino l’Italia l’anno scorso ha fatto meglio della Cina, con un avanzo di 52 miliardi di dollari, pari al 2,5% del Pil, e quest’anno, secondo l’FMI, dovrebbe aumentare il proprio saldo positivo a 57 miliardi, che rappresentano il 2,9% del Pil. Gli Stati Uniti, come noto, sono sempre in forte deficit: quest’anno il disavanzo delle partite correnti dovrebbe raggiungere i 540 miliardi di dollari, ossia il 2,5% del Pil.

La straordinaria riduzione del surplus cinese di parte corrente è dovuto sia a un notevole ridimensionamento dell’avanzo commerciale sia a un aumento del deficit nei servizi (R. Hamaui, Se arriva l’equilibrio nella bilancia commerciale cinese). Negli ultimi dieci anni l’avanzo commerciale di Pechino si è ridotto nei confronti sia degli Stati Uniti che dell’Europa, mentre le importazioni cinesi superano da tempo le esportazioni nei riguardi di Giappone, Corea, Australia e Brasile. La quota di mercato mondiale dell’export cinese, che era il 4% nel 2001, anno di ingresso della Repubblica popolare nel WTO, si è fermata al 13% raggiunto nel 2015. Per quanto riguarda i servizi, in un decennio la Cina è passata da un attivo di 5 miliardi ad un deficit di quasi 250 miliardi, mentre i turisti cinesi all’estero sono aumentati da 46 a 162 milioni.   

La politica commerciale cinese non obbedisce soltanto a una logica economica – accrescere le importazioni di beni e servizi per sviluppare il mercato interno - ma anche a una logica politica. Storicamente tutte le nazioni leader a livello mondiale - l’Inghilterra nell’800 e gli Stati Uniti nella nostra epoca - hanno sempre avuto una bilancia commerciale strutturalmente in passivo. Si obietterà che questi lussi se li possono permettere i paesi detentori delle monete di riferimento internazionale, quali la sterlina nell’800 e il dollaro oggi. Per questo è difficile pensare che la Cina vada in deficit, è più probabile invece che cerchi di mantenere in equilibrio le proprie partite correnti. (L’FMI prevede un surplus pari allo 0,4% del Pil nel 2024).  

Ma in ogni caso l’avanzo nei conti con l’estero non rappresenta il principale obiettivo di Pechino, che mira a far crescere il mercato interno e a rendersi indipendente dagli Stati Uniti nella produzione delle tecnologie digitali. Certo, come ogni medaglia, anche questa ha il suo rovescio. La scelta della Cina è infatti rischiosa, perché la crescita del mercato interno, la diffusione delle conoscenze e l’aumento del turismo sia in entrata che in uscita hanno inevitabilmente un impatto sociale, che a sua volta può avere conseguenze politiche fino ad arrivare alla formazione dei partiti e alla richiesta di un cambio di regime in senso liberal-democratico. In tal senso quello che sta succedendo a Hong Kong non va sottovalutato. Ma evidentemente è un rischio che la classe politica cinese ha deciso di correre, confidando su un potere consolidato e su una secolare tradizione storica diversa da quella occidentale.

Una politica esattamente contraria è portata avanti dalla Germania, che ha rinunciato a guidare l’Europa e ad essere un leader mondiale ed accumula avanzi record nella bilancia commerciale con una quota di esportazioni che si avvicina alla metà del Pil. Anche adesso che è scoppiata la guerra commerciale fra Stati Uniti e Cina, con entrambi i Paesi che hanno significativamente ridotto le reciproche importazioni, la Germania sta cercando di sfruttare al meglio le nuove opportunità commerciali nei mercati americani e cinesi. Una cosa analoga sta facendo l’Italia, che ha aumentato del 9,3% le proprie esportazioni negli USA nei primi nove mesi del 2019 rispetto allo stesso periodo del 2018 e per questo è molto preoccupata dai dazi che Trump vuole imporre alle importazioni dall’Europa. (La stessa cosa non vale per la Cina, verso la quale il nostro export è diminuito nello stesso periodo del 2,4%). Certo, conquistare fette di mercato all’estero è molto importante anche per la produzione e l’occupazione interne. Ma si tratta di logiche prettamente economico-commerciali: la vera partita politica sullo scacchiere mondiale si gioca nel Pacifico, lontano dal vecchio continente.

Lunedì, 6. Gennaio 2020
 

SOCIAL

 

CONTATTI