Le sfide di Obama

La straordinaria novità di un presidente americano nero contribuisce a cambiare una certa visione del mondo.Ma Obama dovrà affrontare la terribile eredità di Bush: le guerre inutili e sanguinose e la grave crisi della società americana. Sarà un compito arduo che richiederà tutto il suo talento politico.

Tutto il mondo, oltre che la maggioranza degli americani, sperava nella vittoria di Barack Obama, e la speranza si è realizzata. In un’altra fase, l’interesse e la curiosità sarebbero derivate dalla straordinarietà della sfida, com’è l’avvento di un presidente nero alla Casa Bianca. Sarebbe stato questo un motivo sufficiente d’interesse. Ma l’attesa era determinata anche da qualcosa di più profondo, com’è la crisi che attraversa l’America e l’intero pianeta. L’eredità di Bush è terribile. Un mondo di conflitti, guerre inutili e sanguinose, in atto e annunciate. E una crisi finanziaria che scuote oltre agli Stati Uniti il resto del mondo.

 

Pochi altri presidenti americani hanno dovuto affrontare una situazione così disperatamente compromessa. Del programma di Obama conosciamo solo le linee generali, ed è piuttosto  poco. Da questo punto di vista, è necessario fare assegnamento più che sugli accenni programmatici sulla sua biografia di liberal, di progressista, di politico dotato di grande talento, della sua volontà di cambiamento. Conosciamo, certo, i principali obiettivi di politica estera enunciati dal nuovo presidente: uscire dal pantano iracheno e cercare un dialogo possibilmente con l’Iran. Ci vorrà immaginazione e decisione politica. Ma non è chiaro in che senso il neo-presidente possa tentare di rovesciare la rovinosa situazione in Afghanistan, con un accresciuto impegno militare. Nessuna potenza è stata mai in grado di vincere una guerra di conquista in Afghanistan, dagli inglesi ai russi. Obama dovrà cercare altre strade e mediazioni, come aprire il dialogo con i talebani….Operazioni complesse, dopo gli anni dell’irresponsabilità e dell’arroganza del binomio  Bush-Cheney.

 

All’interno, Obama trova una situazione di disastro non solo finanziario ma anche, e forse soprattutto, sociale. Le sorti della crisi finanziaria sono incerte. Ma è certo che l’America – come, purtroppo l’Europa – dovrà fare i conti con la recessione, la disoccupazione in crescita, l’impoverimento delle classi lavoratrici e dei ceti medi. Durante gli anni di Bush la diseguaglianza è diventata il paradigma fondamentale della società americana: la produttività è aumentata del 20 per cento, ma il reddito da lavoro delle famiglie della classe media è diminuito in termini reali del tre per cento. Intanto, in seguito alla crisi dei mutui sub prime milioni di famiglie rischiano di perdere la casa di abitazione. La disoccupazione ha superato il 6 per cento, e se ne prevede la crescita fino all’8 per cento e oltre. All’inizio questo decennio i disoccupati in America erano sei milioni, ora sono nove milioni e mezzo, e altri milioni sono destinati ad aggiungersi. Obama  promette di espandere l’indennità di disoccupazione oltre i sei mesi previsti, ma è una misura che rischia di rivelarsi insufficiente col prolungamento della durata della disoccupazione. La crisi finanziaria s'intreccia con quella sociale. Alla crisi del 2001-2003, le famiglie sono state spinte a porvi un illusorio rimedio indebitandosi con i mutui ipotecari e le carte di credito: oggi non è più possibile. Il crollo della domanda approfondisce la recessione in un circolo vizioso. La riduzione dei tassi d’interesse, ormai negativi considerata l’inflazione, non può dare altro aiuto. C’è bisogno di consistenti investimenti pubblici. Ma Bush ha dissipato l’avanzo di bilancio che aveva ereditato dagli anni Novanta, e il 2008 rischia di chiudersi con un disavanzo di mille miliardi di dollari che si somma al disavanzo commerciale e all’indebitamento delle famiglie.

 

Obama ripristinerà le imposte sui ricchi che Bush aveva incredibilmente abbassato nel 2001 e nel 2003, e ridurrà le imposte sui lavoratori e la middle class. E' un segnale importante di svolta. Ma il rilancio dell'economia sarà possibile solo con un forte intervento pubblico. Il neo-presidente dovrà avere il coraggio di tornare alla politica che negli ultimi trent’anni è stata disprezzata come big government. Il Wall Street Journal ha scritto con orrore che si corre il rischio di “europeizzare” l’America.

 

Obama si è anche impegnato a estendere la tutela sanitaria a una parte dei quasi 50 milioni di cittadini americani che ne sono privi: è una sfida che i Clinton persero nei confronti del complesso medico-assicurativo sostenuto da potentissime lobby e, in modo bypartisan, da una larga parte del Congresso. Dovrà anche cercare di salvaguardare la parte delle pensioni che il 50 per cento dei lavoratori americani affida ai Fondi pensione, e che la crisi dei mercati finanziari sta mettendo in ginocchio. Senza un profondo cambiamento di indirizzi nella politica sociale, senza un rovesciamento dell’ideologia neoliberista che ha governato gli ultimi trenta anni, senza un nuovo New Deal, la crisi è destinata ad aggravarsi in America, e per i suoi inevitabili riflessi, nel resto del mondo.

 

Questa è l’America che trova Obama. Ci vorrà talento, immaginazione, decisione per disincagliarla dalle sabbie mobili di un’ideologia e di una politica il cui esito non poteva essere più fallimentare.

E’ giusto che il mondo si sia occupato con ansia della battaglia elettorale in America e che saluti con entusiasmo la vittoria di Barack Obama. Dovremmo tuttavia cominciare a chiederci che cosa fanno gli altri, che cosa facciamo noi, vogliamo dire che cosa fa l’Europa che, più o meno balbettando, si è così a lungo nascosta nel cono d’ombra della politica americana. Ma questo è un altro discorso sui cui converrà tornare in una prossima occasione.

Mercoledì, 5. Novembre 2008
 

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