Le ingannevoli elezioni irachene

L'esclusione dei sunniti, vecchia élite dirigente del paese, dall'Assemblea costituente pone le basi di una guerra civile permanente. Gli americani hanno reso impossibile una mediazione

 I risultati delle elezioni irachene, letti senza l'artificio retorico del miracoloso avvento della democrazia, confermano da un lato un risultato ampiamente previsto e, dall'altro, la frattura etnica e religiosa del paese. Hanno votato in massa i curdi per confermare la loro autonomia regionale. (In un referendum informale che accompagnava le elezioni del 30 gennaio il 90 per cento dei votanti si è espressa a favore dell'indipendenza).

 Hanno votato gli sciiti per l'Alleanza irachena unita, patrocinata dal Grande Ayatollah al-Sistani, che aveva dichiarato il voto un obbligo religioso. Ma hanno anche votato, superando le differenze interne, gli sciiti seguaci di al-Sadr con la convinzione, chiaramente espressa, che il voto era lo strumento principale per accelerare la fine dell'occupazione. Mentre è interessante notare che Allawi, capo del governo provvisorio, sciita di tendenza secolare e fortemente sostenuto dagli americani, si è fermato a un deludente 14 per cento dei voti a conferma della volontà  di utilizzare il voto contro le forze di occupazione e il governo che li rappresenta. 

Abbiamo detto un risultato prevedibile, non ostante l'insicurezza, il clima di violenza e le minacce terroristiche. L'Economist, il settimanale inglese privo di remore nei confronti della guerra, alla vigilia delle elezioni prevedeva una partecipazione al voto dei due terzi degli elettori, considerando appunto l'affluenza in massa dei curdi e un'ampia partecipazione degli sciiti delle zone del sudest, dove si sono infatti registrati livelli di partecipazione vicini all'80 per cento. Sotto quest'aspetto la partecipazione effettiva del 58 per cento degli elettori (presunti) è stata perfino inferiore alle aspettative.

Ma il vero problema non sta in questi numeri, ma nella non partecipazione al voto degli arabi sunniti. Nella provincia sunnita di Anbar, che comprende Falluja e Ramadi, la partecipazione al voto è stata del due per cento, e la lista presentata da Ghazi Yawer, sunnita e attuale presidente iracheno, ha ottenuto 150.000 voti, pari a meno del 2 per cento del voto totale. In sostanza, gli arabi sunniti, l'elite dirigente sin dal tempo dell'impero britannico e poi della relativa laicizzazione del paese, prima ancora dell'avvento della dittatura di Saddam Hussein, non saranno rappresentati nell'Assemblea nazionale che dovrà eleggere le nuove cariche istituzionali e di governo ed elaborare la costituzione.

Si conferma così quella rottura interna al paese che è all'origine dell'attuale stato di caos e di violenza. Una rottura che non segue le linee ordinarie dello scontro politico, ma rispecchia una divisione etnica (arabi e curdi in città chiave come Mosul e Kirkuk) e religiose (sunniti e sciiti nelle regioni centrali dell'Iraq e a Bagdad). Le elezioni promosse al di fuori di una mediazione non indicano, purtroppo, l'alba della democrazia ma la tragica minaccia di una guerra civile endemica. Il tipo di guerra che abbiamo visto dilagare negli ultimi decenni in tutto il mondo dall'Asia, all'Africa, all'ex Jugoslavia, per l'appunto basato su rotture etniche e religiose. Che questo dovesse essere il destino dell'Iraq non era scritto da nessuna parte.

Un giornalista americano del New Yorker racconta un episodio emblematico.  L'8 gennaio scorso fu invitato dal capo del governo provvisorio Iyad Allawi a partecipare a una riunione con un folto gruppo di sceicchi sunniti. Allawi, sciita, ma militante del Baath di cui è stato in gioventù autorevole esponente, stava tentando di coinvolgere una rappresentanza significativa di capi sunniti nel processo elettorale.

Gli sceicchi furono presentati anche al potente ambasciatore John Negroponte e a un gruppo di senatori americani in visita a Bagdad. Si trattava certamente di un incontro importante. I capi sunniti - racconta Jon Lee Anderson, unico giornalista testimone dell'incontro - insistettero su tre punti. Innanzitutto, doveva essere chiara la differenza fra la moquawama, la legittima resistenza armata, e le azioni di quelli che loro definirono semplici gruppi criminali. (Un'affermazione, questa, che ha riscontri nell'analisi della CIA, secondo la quale i gruppi della resistenza sono diverse decine, operano in autonomia e non possono essere ricondotti ad al-Zarquawi). In secondo luogo, sarebbe stato impossibile tenere le elezioni il 30 gennaio, in un clima dominato dalla devastazione di interi territori del triangolo sunnita e sull'onda della distruzione di Falluja. Infine, il governo provvisorio avrebbe dovuto indicare i tempi di un graduale ritiro delle truppe di occupazione.

Allawi non fu in grado di dare alcuna garanzia. In realtà sarebbe stato d'accordo a rinviare di qualche tempo le elezioni, anche per rafforzare la propria posizione rispetto all'Alleanza irachena sponsorizzata dagli ayatollah, ma gli americani si erano opposti a questa eventualità. E meno che mai avrebbe potuto intervenire sul ritiro delle truppe d'occupazione.

Allawi, in sostanza, pur interessato a creare le condizioni di uno schieramento elettorale interconfessionale e interetnico per garantirsi una permanenza alla guida del paese, in alternativa a una probabile vittoria all'Alleanza sciita d'impronta religiosa, non era messo in grado dagli americani di proporre una linea di mediazione ai rappresentati della minoranza sunnita. A questo punto l'esito elettorale era scontato. Gli americani perseveravano nell'errore di aver emarginato la classe dirigente sunnita che era l'asse portante delle forze armate e dell'amministrazione, non ostante essa avesse sostanzialmente rinunciato a difendere il regime, come era stato evidente all'indomani dell'invasione. Di avere, in altri termini, confuso la "de-saddamizzazione" con una generale emarginazione delle élite sunnite, creando le premesse della disintegrazione del potere statale e del conflitto intestino fra gli "amici" delle forze d'occupazione e quanti, appartenenti al Baath o al vecchio esercito, venivano messi al bando e a migliaia incarcerati.

Kofi Annan sostiene che la mediazione istituzionale e politica per arrivare a una costituzione, che potrà essere ratificata solo se vi sarà il consenso delle province sunnite (oltre evidentemente a quelle curde), può essere l'occasione per un rientro nella scena dell'ONU e della comunità internazionale con una funzione di mediazione e riconciliazione. Una mediazione tra i gruppi dirigenti iracheni che gli americani non solo non hanno promosso, ma hanno costantemente ostacolato.

Compiacersi del risultato elettorale nelle attuali condizioni di latente guerra civile non ha alcun senso. Avviare un programma di ritiro dall'Iraq delle forze d'occupazione, favorendo una mediazione politica interna, è l'unica cosa sensata, L'Europa potrebbe provare a essere utile in questa direzione, rafforzando la posizione delle Nazioni unite e promuovendo un contesto di sostegno da parte dei paesi arabi, sul modello sperimentato per la ripresa del dialogo israelo-palestinese. Prodi sembra muoversi in questa direzione. Ma è paradossale che i partiti del centro-sinistra si dividano sull'ingannevole prospettiva di una democrazia che rimane ancora lontana, e che minaccia di diventare l'ennesimo alibi per una guerra ingiustificata, e per un'occupazione a tempo indeterminato dell'Iraq.

Venerdì, 18. Febbraio 2005
 

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