Le falsità nella campagna contro Fazio

Una unanimità inquietante: dai politici ai principali mezzi di comunicazione si è levato un fuoco di fila contro il governatore in cui non si è esitato a far ricorso alla disinformazione, contraddicendo platealmente non solo la scienza economica e i fatti, ma anche il verdetto dei mercati
Il prof. Rey ha autorevolmente rotto, sul tema dell'operato del governatore Fazio, una unanimità di posizioni che cominciava a diventare inquietante (vedi l'articolo). Ha dimostrato che ci sono elementi in virtù dei quali i giudizi non possono essere così univoci e scontati come quelli che hanno trovato ospitalità sui maggiori quotidiani italiani. Ha innescato un processo più dialettico che si sta avviando lentamente, ma che si va consolidando di giorno in giorno. Forse è utile a questo consolidamento aggiungere a quelle del prof. Rey  alcune considerazioni più giornalistiche incentrate più sul metodo col quale questa vera e propria campagna di stampa è stata avviata e condotta,  allo sviluppo della vicenda, alla creazione del clima di contrapposizione, alla assenza di ogni sfumatura critica, alla grossolana esibizione di argomentazioni false perpetrata dai maggiori mezzi di informazione.

Mi limito ad alcune considerazioni che pongo, forse senza il più appropriato ordine logico, come argomento di riflessione e per indurre qualche interrogativo su una vicenda presentata con una consonanza tanto compatta da essere già per questo sospetta.

La richiesta di dimissioni avanzata da quasi tutte le parti politiche, oltre che da quel mondo dell'accademia che ama più l'apparenza mediatica che l'analisi e la ricerca, verte sulla perdita di credibilità della Banca d'Italia dalla quale deriverebbe una perdita di credibilità dell'Italia. Il primo che ha posto questo tema della credibilità è stato il ministro Siniscalco. Ed è cosa quanto meno singolare che sia stato un ministro della Repubblica ad accreditare, e quindi propagandare, una perdita di credibilità del proprio Paese senza una benché minima argomentazione oggettiva che non fossero gli articoli di una stampa inglese (figurarsi!) non nuova ad atteggiamenti ostili, e persino sprezzanti, nei confronti dell'Italia.
 
L'unico dato oggettivo sulla credibilità di un Paese in materia economico-finanziaria è la parte del tasso di interesse sui suoi titoli pubblici che ne valuta l'affidabilità. Questo indicatore non si è mai mosso a significare, oggettivamente, che i mercati non avevano dato alcun peso alle vicende. Se ne accorto, assai tardivamente in verità, il suo successore, il quale a Washington ha affermato che "malgrado Fazio" non si è posto un problema di credibilità dell'Italia perché "gli hanno detto" (finalmente!) che i tassi non si sono mossi. Chissà se qualcuno ha rilevato che con questa affermazione il ministro ha smentito il presidente del Consiglio e quanti altri continuano a chiedere le dimissioni di Fazio - anzi, a "rimettersi alla sua sensibilità" - sostenendo che la sua condotta ha fatto e continua a far perdere credibilità alla Banca d'Italia ed al Paese.

E che dire di un ministro dell'Economia che, dopo essersi inventato una perdita di credibilità, di punto in bianco, alla vigilia dell'assemblea del Fmi e soprattutto a pochi giorni dalla scadenza per la presentazione della legge finanziaria, lascia il campo? Qualcuno ha rilevato che poche ore prima delle dimissioni ancora dichiarava i suoi programmi per l'assemblea del Fmi in calendario nei giorni immediatamente successivi? E che dire del coro di omaggio che, a dispetto di questo inusitato atteggiamento, lo ha salutato solo per meriti di guerra a Fazio? Conta qualcosa che quel "professore", prima da direttore generale del ministero e poi da ministro, ha lasciato un disavanzo sfuggito di mano, un avanzo primario pressoché azzerato, un debito di nuovo in aumento, una economia tanto stagnante da far esultare per lo 0,7% di crescita dell'ultimo trimestre? Evidentemente non conta, perché nessun giornale si è premurato di stilare un bilancio fattuale del suo lavoro al ministero dell'Economia.

E che dire, ancora, del nuovo ministro che sulla scena internazionale del Fondo monetario si abbassa a rifare il verso al governatore per poi consumare la meschina vendetta del ritiro di una delega di routine? Davvero c'è da riflettere su giornali che hanno preferito sguazzare nel gossip piuttosto che stigmatizzare simili comportamenti. Solo uno lo ha fatto, ma indirettamente: non con un articolo o un commento di uno dei suoi tanti pur prolifici editorialisti, ma ospitando una lettera pacata, disperata, struggente, del prof. Grilli sulla gratuità dello spettacolo che, su un proscenio come quello del Fondo monetario a Washington, l'Italia ha saputo dare di sé.

Del resto, sono gli stessi giornali che hanno fatto e continuano a fare disinformazione sui compiti della Banca d'Italia e sul ruolo del governatore. Il maggiore giornale economico e finanziario italiano è arrivato a pubblicare un editoriale a firma congiunta di tre accademici nel quale si affermava, tra l'altro, che il governatore è nominato dalle banche detentrici delle quote del capitale della Banca d'Italia per argomentare sulla assurdità di un controllore presentato come ostaggio dei controllandi. Nessun filtro del giornale ha evitato la pubblicazione di questa (e di altre) bestialità; nessun altro giornale ha ribattuto alcunché; nessuna voce si è levata per difendere la realtà delle cose.
 
Neppure quando due di quei tre accademici, sempre sul maggiore quotidiano economico-finanziario, si sono prodotti in una arrampicata sugli specchi nel tentativo di trovare una spiegazione che conciliasse la presunta perdita di credibilità che l'Italia starebbe subendo per colpa di Fazio con il fatto che i tassi sui titoli della Repubblica non si erano mossi. Impresa ardua per dei liberisti per i quali lo scrutinio del mercato è bibbia. La spiegazione, accolta dal giornale in un editoriale di prima pagina e dunque fatta propria, l'hanno trovata facendo torto alla loro scienza economica. Ed infatti è stata che l'euro ha costituito l'àncora che ha trattenuto, almeno nell'immediato, i tassi dal crescere, come se la quotazione di ogni titolo obbligazionario, e dunque anche i suoi tassi di rendimento, non fosse determinata da un rischio valuta, che l'euro certamente ha fortemente ridotto, e da un rischio di solvibilità dell'emittente, che è quello la cui stazionarietà ha dimostrato, appunto, la indifferenza dei mercati per l'intera vicenda. Finchè si tratta di professori che, essendo stati quasi sempre all'estero, dell'Italia e delle cose italiane sanno poco si potrebbe anche capire, ma che dimostrino di non sapere come si forma la quotazione di un titolo obbligazionario è cosa più difficile da capire e da comprendere sul piano della buona fede. Si può solo presumere che il ricorso a simili palesi contraffazioni della realtà sia indotto dalla scarsità di argomentazioni più fondate ed oggettive.

A far cadere il castello delle critiche al governatore, oltre a Tremonti che ha riconosciuto che un problema di credibilità non c'è, è alla fine intervenuto Groenik, il capo-azienda della ABN-Amro. Con riferimento alla vicenda che lo ha visto protagonista della conquista del controllo della Banca Antonveneta, l'olandese ha parlato - si è letto sullo stesso giornale economico-finanziario che con tanta insistenza ha sostenuto e continua a sostenere il contrario -  di "un malaugurato legame tra una piccola banca e i suoi alleati e l'autorità di controllo", ma aggiungendo: "Devo dire, però, che nel complesso in Italia le regole sono state rispettate".

Il rispetto delle regole, per altro, era stato riconosciuto anche dal governo per bocca dell'allora ministro Siniscalco dopo la relazione del governatore al Cicr. E allora: le regole sono state rispettate, tutto si è svolto nella legalità; problemi di credibilità non se ne sono posti come dimostra il mercato dei titoli pubblici italiani e come, da ultimo, il neo (neo?) ministro dell'Economia ha esplicitamente dichiarato. Cosa rimane? Rimane che nella contesa per l'Antonveneta il governatore non è stato "arbitro", ma ha giocato la sua partita.

Che il governatore, nei casi di contesa della proprietà delle banche, debba essere un arbitro non è scritto da nessuna parte. Sostenere dunque che debba esserlo per poi accusarlo di non esserlo stato è un artificio dialettico plateale, anche se i più l'hanno acriticamente fatto proprio fino a convincersene. Nell'ordinamento italiano la Banca d'Italia assolve al duplice compito di vigilanza sulla stabilità patrimoniale delle imprese bancarie e di tutela della concorrenza tra le stesse aziende bancarie sul territorio nazionale. Il suo ruolo nell'autorizzare mutamenti del controllo sulle imprese bancarie discende da questi compiti, il cui insieme definisce un compito di ordine superiore, quello di assicurare al Paese un sistema bancario che assicuri l'espletamento dei servizi di pagamento, renda disponibile il credito necessario alla crescita delle attività produttive, tuteli i depositi delle famiglie e delle imprese, realizzi gli investimenti più o meni rischiosi delle attività finanziarie di famiglie ed imprese.
 
Arbitro o notaio può essere una autority di semplice regolazione del mercato, ma in nessun caso può esserlo una autority - se così vogliamo chiamare anche la Banca d'Italia per le funzioni delle quali stiamo parlando - alla quale è demandata la supervisione di imprese il cui passivo patrimoniale è costituito da moneta, più precisamente dai depositi di imprese a famiglie (ciò che dovrebbe essere ricordato a chi sostiene che le guarentigie di autonomia ed indipendenza hanno perso ragione di essere con la nascita dell'euro ed il conseguente passaggio della definizione e della realizzazione della politica monetaria al Sistema delle banche centrali europee).

A questo ordinamento Fazio si è attenuto ritenendo non positivo per i generali interessi del Paese (un Paese che, a motivo della sua storia recente, a fronte di un indebitamento pubblico inusitato ha un volume di attività finanziarie possedute dalle famiglie proporzionalmente patologico) che banche italiane, specie se di qualche rilievo, cadessero sotto il controllo di banche straniere. Posizione, questa, che può essere certamente criticata sia nel suo assunto, sia soprattutto per la partecipazione attiva che ne è nata in relazione al tentativo di contrastare l'iniziativa olandese attuato da discussi personaggi con operazioni che sono oggetto di esame da parte della magistratura. Ma non si può far carico al governatore di aver assunto questa posizione dal momento che, ciò nondimeno, egli si è attenuto rigorosamente alle leggi ed alle norme in vigore (come risulta da una sentenza del Tar emessa contro un ricorso della ABN, da una valutazione della Commissione europea, dalle dichiarazioni di Groenik, dalle risoluzioni adottate dal Consiglio superiore della Banca d'Italia malgrado le pressioni di stampa alle quali si era trovato sottoposto).

Questi sono i fatti salienti molto sinteticamente richiamati. Tra questi non sono comprese le intercettazioni per il semplice motivo che, sebbene pubblicate con finalità strumentali, non hanno fatto emergere alcun elemento di rilevanza giuridica. In uno Stato di diritto contano i fatti accertati ed il rispetto degli ordinamenti. Sarebbe inquietante se valutazioni soggettive, impressioni, mere considerazioni morali, per non dire della disinformazione e delle molte strumentali falsità, ancorché diffuse e propagandate con bulgara unanimità dai principali mezzi di informazione, il vertice di una istituzione fosse indotto alle dimissioni. Non sarebbe segno di civiltà, e neppure di democrazia, che il potere della piazza mediatica giungesse a tanto. È facile immaginare che sia questo il primario motivo che induce Fazio a resistere alle pressioni delle quali è oggetto.

Molto più difficile è ipotizzare quale sia il fine di una campagna mediatica la cui strumentalità è comunque dimostrata dalle falsità e dalle forzature alle quali, in mancanza di più valide argomentazioni, è stata costretta a far ricorso. L'origine e l'epicentro di questa campagna è certamente Milano - i giornali, l'accademia, la procura - e questo potrebbe essere un punto di partenza sul quale lavorare.

Rimane aperto un problema istituzionale che mina, questo sì, la credibilità e la reputazione del Paese. Ma anche su questo opera una evidente mistificazione: le dimissioni di Fazio lo risolverebbero, certo, ma al costo di un vulnus ai principi dello Stato di diritto che deriverebbe dalla prevaricazione della pressione mediatica sugli ordinamenti e sui dispositivi che questi prevedono per poter essere adeguati ai tempi quando necessario. Assai più proprio sarebbe, in uno Stato di diritto, che la soluzione venisse trovata da chi ha avviato ed alimentato questa insensata campagna senza avere alcun piano di come condurla e di come poterla concludere senza lacerazioni istituzionali, senza mistificazioni, senza la volgarità di buffonesche imitazioni, senza la miseria di vendette consumate mentre si rivestono funzioni di rappresentanza del proprio Paese nelle sedi internazionali. 
 
Si cambino le leggi, se c'è una proposta di modifica che possa ottenere una maggioranza di consensi in Parlamento. Ma se una simile proposta non c'è, è difficile che possano esserci scorciatoie che aggirino il problema. Dovrebbe essere scontato, ma evidentemente non lo è.
Lunedì, 10. Ottobre 2005
 

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