Le contraddizioni di due supertecnici

Draghi ha ignorato l'opposizione della Bundesbank, ma solo perché ha le spalle coperte dalla Merkel, della quale ha sposato la linea, dimostrando che l'indipendenza della Bce è più proclamata che praticata. Monti rischia di dover ricorrere al commissariamento come un politico qualsiasi, nonostante la sua adesione alle ricette rigoriste

Dopo la più discussa riunione del Consiglio direttivo della Bce degli ultimi tempi vale la pena di provare a fare il punto. Nelle prima battute abbiamo assistito alla grande delusione dei mercati; poi l’euforia. E successivamente il ritorno alla situazione precedente con gli spread intorno a 450 punti. Insomma, l’attesa di qualcosa di nuovo che ponga rimedio alla crisi continua. Intanto il dibattito ha investito l’improvvida affermazione di Monti nell’intervista allo Spiegel sull’irrilevanza dei Parlamenti o, per meglio dire, sulla necessità di considerarne irrilevante il ruolo, quando si tratta di attuare le politiche europee. Ma su questo torneremo.

Più importante è chiederci quali siano state le effettive novità della posizione di Mario Draghi, poiché da esse dipenderà in buona misura ciò che succederà dell’euro alla ripresa d’autunno.

Innanzitutto, Draghi ha solennemente ripetuto che l’euro è “irreversibile”, che la BCE lo difenderà, e che gli speculatori che scommettono sulla sua disintegrazione hanno sbagliato i conti. Un’affermazione importante, ma non stupefacente. Paradossale sarebbe stata una dichiarazione costellata di dubbi e incertezza per un presidente che è nel primo anno del suo esercizio, su otto, e che fallirebbe miseramente la sua missione se l’euro si dissolvesse, mettiamo, nei primi due anni della sua presidenza. Ma la cosa più rilevante è stata un’altra. Draghi non si è lasciato incantare dalle sirene fondamentaliste della potente Bundesbank e, in violazione del tradizionale galateo diplomatico di Francoforte, ha messo in piazza la solitaria e sterile opposizione di Jens Weidmann che ne è il nuovo presidente.

Ha ritenuto di poterlo fare tranquillamente senza pesanti ripercussioni dal lato della Germania? La risposta è sì, perché Draghi sa di essere coperto da Angela Merkel, che non può consentirsi di arrivare alle elezioni dell’autunno del 2013 avendo fatto a pezzi la creatura del suo grande sponsor e predecessore, Helmut Kohl. Draghi sa che può chiamare il bluff dei falchi della Bundesbank, schierandosi per una linea di difesa flessibile dell’euro, con la garanzia della cancelliera.

Ma questo è solo un lato della medaglia. Angela Merkel può sostenere la sua linea di difesa dell’euro, e perciò di assistenza ai paesi in difficoltà, a una condizione precisa. La condizione è che i paesi posti sotto assedio dalla speculazione, in sostanza Spagna e Italia (la Grecia è, senza molte lacrime, considerata perduta), siano sottoposti alle condizioni e al rigido controllo della Commissione europea e della Banca centrale (con o senza il Fondo monetario che sembra ritrarsi), così come è già stato per Irlanda, Grecia e Portogallo.

Ed è esattamente quello che Draghi ha messo in campo. I governi di Spagna e Italia possono essere assistiti di fronte all’attacco della speculazione, ma devono prima chiedere esplicitamente soccorso ai Fondi di salvataggio europei. L’Europa stabilirà le condizioni per concedere l’aiuto e gli strumenti per controllarne l’attuazione. In sostanza, il commissariamento di due dei quattro maggiori paesi fondatori dell’euro.

Mariano Rajoy, dopo una disperata resistenza, ha in pratica aperto la Spagna a questa soluzione. Ma molto più titubante è Mario Monti. Ed è del tutto comprensibile. Si può sottoporre un leader politico, un rappresentante di partito, un normale capo di governo al controllo di una commissione di tecnici più o meno oscuri, ma sottoporvi il governo presieduto per l’appunto da un tecnico universalmente apprezzato che ha dato prova, nel suo ruolo politico, di essere il più “europeista” dei capi di governo in circolazione e di aver imposto al paese, come egli orgogliosamente ripete, misure che in condizioni normali qualsiasi Parlamento respingerebbe, sarebbe il segno del suo fallimento, molto di più di quanto non lo sia per un Rajoy.

Ma non è l’unico risultato indigesto del discorso di Draghi. Nella sua posizione vi è un’evidente contraddizione. Se la Bce ritiene di esercitare pienamente la sua autonomia nel decidere come misura di politica monetaria (che è appunto di sua stretta competenza) l’acquisto di titoli di Stato a breve termine, come intervento necessario al funzionamento dei mercati finanziari, non si vede perché l’intervento debba essere sottoposto al preventivo accordo dei governi. Se, al contrario, l’intervento della Banca centrale a salvaguardia del funzionamento del mercato finanziario è subordinato alla decisone dei governi e, in ultima analisi, della Germania, da cui dipende il raggiungimento della maggioranza richiesta per l’operatività dei Fondi di stabilizzazione, allora non si vede dove stia l’indipendenza della Bce, insistentemente reclamata come dogma inviolabile.

Ma su queste contraddizioni si può sofisticare all’infinito. La realtà è nella mancanza di senso delle politiche europee. Come scrive un autorevole commentatore, Sebastian Mallaby, sul Financial Times (8 agosto), non si capisce perché la Bce abbia messo a disposizione delle banche private, praticamente gratis e senza condizioni, oltre un trilione di euro, in parte servito per acquistare titoli sovrani, imponendo un differenziale (una tangente) e rifiutando di acquistarli direttamente; scelta che avrebbe tarpato le ali alla speculazione.

La spiegazione sta nella convinzione totalmente ideologica, e disastrosa per i singoli paesi e in definitiva per il destino dell’euro, che la crisi del debito degli Stati sia un’occasione da non perdere per imporre il regime di “austerità e riforme strutturali” che sta intensificando la crisi stessa, creando recessione e disoccupazione in un micidiale circolo vizioso, che gli storici non potranno non considerare un esempio di schizofrenia autolesionista.

E’ in questo scenario che bisogna leggere l'intervista di Monti allo Spiegel. Se la politica europea è quella dell’asse Berlino-Francoforte-Bruxelles - ed è quella che egli ha strenuamente condiviso e applicato), non potete pretendere di sottoporla al giudizio dei Parlamenti, ai loro dibattiti e alle loro pretese di modifiche. Non a caso, i governi che non hanno saputo imporre alle maggioranza parlamentari le politiche decise dalle tecnocrazie europee sono stati costretti a gettare la spugna. Pensate al triste destino di governi democraticamente eletti, ma deboli nell’imporre le linee decise a Bruxelles, come quelli di Papandreu, Socrates, Zapatero.

L’errore di Monti o, se si vuole, la mancanza di tatto politico che non è una caratteristica peculiare dei tecnici, è stato quello di rivelare la verità circa la vocazione antidemocratica, che vanifica il ruolo dei Paramenti, della politica europea in un paese dove questa verità è contraddetta dal sacro rispetto dei tedeschi per la democrazia parlamentare. Una devozione radicata nella tragica esperienza politica della prima metà del secolo scorso. I tedeschi possono operare in modo da liquidare i governi in difficoltà e ridurre a una condizione semi-coloniale le democrazie rappresentative dei paesi “periferici”, ma non possono accettare che si metta in dubbio la sovranità del Parlamento tedesco e della stessa Corte Costituzionale, severa custode delle regole che limitano la sfera delle decisioni del governo. L’errore di Mario Monti è stato questa volta l’aver affermato con arroganza nel luogo sbagliato (non trattandosi della City e nemmeno di Wall Street) quello che veramente pensa circa la gestione della crisi e del funzionamento dei regimi democratici.

Giovedì, 9. Agosto 2012
 

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