Le conseguenze sociali del coronavirus nell'Eurozona

La reazione europea è molto più debole di quelle delle altre grandi aree economiche e non è tempestiva, mentre la pandemia continua a danneggiare gravemente l’economia. In sottofondo continua l’ossessione per il consolidamento dei conti pubblici. E l’Italia, qualunque sia il governo, rimane nella stretta di queste politiche inadeguate

Siamo entrati nel nuovo anno sotto l'attacco della pandemia del coronavirus. Diversi vaccini stati sono stati fortunatamente sviluppati, la scienza ha fatto il suo lavoro. Ora è necessaria un'efficace inoculazione di massa prima che il virus subisca le mutazioni già in atto. Le mutazioni del coronavirus sono, infatti, già presenti, secondo l'OMS, in almeno 25 paesi, come è principalmente il caso della Gran Bretagna, del Sud Africa e del Brasile. In questo contesto i tempi della vaccinazione  diventano fondamentali. Più tempo si impiega, più possibilità ha il virus di moltiplicarsi nelle sue varianti pericolose.

Secondo le previsioni attuali, nella maggior parte dei paesi europei la vaccinazione della popolazione può essere completata entro la fine dell'anno. Non è una prospettiva rassicurante. Il virus ha impiegato molto meno di un anno per diffondersi in diversi paesi e continenti.

E ha già mostrato la sua tendenza a mutare, diventando molto più resistente agli attuali vaccini. I tempi diventano quindi la questione determinante nella lotta per ridurre il suo impatto disastroso dal punto di vista umano prima ancora delle sue profonde conseguenze economiche e sociali. È il caso in particolare dell'Eurozona, la regione più colpita dalla pandemia a livello mondiale, e dove Italia, Spagna, Belgio e Germania sono tra i paesi più colpiti, considerato l'elevato numero di decessi.

Esistono comunque approcci diversi nella reazione alla pandemia. In Gran Bretagna c’è l'impegno a vaccinare 15 milioni di persone entro la fine di febbraio. Un importante traguardo che richiede una  straordinaria mobilitazione di medici e infermieri insieme a una programmazione degli interventi che spesso comprende la notte. Per accelerare la vaccinazione di massa si è deciso di somministrare la prima dose rinviando di tre mesi la seconda. Si stima che in questo modo entro la primavera la maggior parte della popolazione sarà stata protetta. Lo stesso distanziamento fra le due dosi è allo studio in Germania.

In Israele, all'inizio di gennaio, erano già state vaccinate più di un milione di persone e tutta la popolazione sarà vaccinata entro marzo, quando si svolgeranno le elezioni per il rinnovo del Parlamento con Netanyahu convinto di poter tornare alla testa del governo. Tempi molto contenuti. Ma, purtroppo, la vaccinazione riguarda solo i cittadini israeliani, mentre nessuna vaccinazione è in atto per cinque milioni di palestinesi della Cisgiordania e di Gaza (Palestine’s exposed while Israel hails jab drive, Financial Times, 6 gennaio 2020).

Ma non si tratta solo di due paesi. A uno sguardo più generale, il confronto con le misure in corso nell'Unione Europea, sotto l'egida della Commissione, è sconcertante. Alcuni esempi sono significativi. In Cina, il primo paese attaccato dal coronavirus, la pandemia è ora sostanzialmente debellata. Dopo l’iniziale crollo dell’economia  nel primo semestre, l’anno si è chiuso con una crescita  del 2,3 per cento, e nel 2021 la crescita del Pil si attesterà, secondo il Fondo monetario internazionale, intorno all’8 per cento,  la crescita maggiore nel corso degli ultimi anni.

Altri paesi del Nordest asiatico, come la Corea del Sud e il Giappone, sono stati ugualmente attaccati dalla pandemia, ma una pronta reazione ha fortemente limitato le sue conseguenze. La pandemia è sotto controllo anche in Australia, e la Nuova Zelanda è ora completamente libera dalla pandemia dopo una forte reazione del governo sotto la guida del primo ministro Jacinda Ardern.

L'Unione Europea (sulla quale torneremo) è in questo quadro una delle aree più colpite dalla pandemia sia per la sua forte diffusione, sia per le sue conseguenze economiche e sociali.

Oltre alle conseguenze umane, la pandemia esacerba con la sua durata i costi economici e sociali. Ci sono rimedi che i governi potrebbero mettere in campo? La soluzione finora individuata è l'utilizzo della spesa pubblica in una dimensione prima sconosciuta. Negli Stati Uniti erano già  stati spesi circa tre trilioni di dollari, diretti sostanzialmente in aiuti straordinari alle famiglie, alla fine di luglio 2020 dopo il primo attacco del coronavirus. A dicembre sono stati aggiunti ulteriori 900 miliardi di dollari, raggiungendo così un importo totale di intervento pubblico di circa il 18% del PIL. Ma non basta. Il presidente  Biden ha proposto una spesa aggiuntiva di 1.900 miliardi per l’anno in corso, in larga misura destinata al sostegno delle famiglie, al prolungamento dell’indennità di disoccupazione, alla scuola, e a sostegno dei governi degli Stati e delle comunità locali. Se supererà gli ostacoli che certamente i repubblicani porranno nel passaggio al Congresso, la spesa pubblica complessiva per contrastare le conseguenze economiche e sociali della pandemia ammonterà a oltre il 25 per cento del reddito nazionale.Su queste basi, si stima che nell'anno in corso gli Stati Uniti possano recuperare la quota del reddito nazionale, pari al 3-4 per cento del PIL, perduto durante il primo anno della pandemia.

Se in America l’intervento pubblico non è ancora  completamente definito, In Giappone la spesa pubblica destinata a contrastare le conseguenze economiche del coronavirus è già parte della manovra economica in atto.Il governo di Shinzo Abe aveva pianificato un intervento pubblico per un importo straordinario equivalente a mille miliardi di dollari immediatamente dopo l'inizio della pandemia. Il nuovo governo di Yoshihide Suga ha deciso di aggiungervi l'equivalente di altri 300 miliardi di dollari per una somma totale pari a circa il 25 per cento del reddito nazionale. Per fare un confronto, è come un intervento pubblico in Italia - con una popolazione circa la metà di quella del Giappone - di oltre 400 miliardi di euro.

Il confronto con le scelte fatte nell'Unione Europea è sconcertante. Sotto l’impulso di Angela Merkel, che ha ricoperto la presidenza dell'Ue nella seconda metà dello scorso anno, è stato deciso, come sappiamo, un intervento di 750 miliardi di euro, in parte come prestito e in parte come sovvenzione a favore dei 27 paesi dell’Unione. L'Italia e la Spagna, le più colpite dalla pandemia, ne  saranno i principali beneficiari , con una disponibilità rispettivamente 209 e 140 miliardi di euro.

In effetti, importi significativamente inferiori a quelli dispiegati nelle economie avanzate che abbiamo ricordato. Ma non è questo il punto dirimente. Le risorse previste dall'Unione Europea saranno sostanzialmente  disponibili per spese scaglionate tra il 2022 e il 2027, mentre una spesa nell’ordine di venti miliardi potrebbe essere autorizzata tra l’estate e l’autunno dell’anno in corso, quando la pandemia ha già seminato enormi danni economici e sociali con la chiusura di imprese e la crescita della disoccupazione, una volta finito il blocco dei licenziamenti.

I fondi previsti per gli anni a venire, sottoposti all’autorizzazione  e al controllo della Commissione europea,  dovranno essere fondamentalmente destinati allo sviluppo dellagreen economy e dell'innovazione tecnologica. Chiaramente spese che, in ogni caso, sarebbero state utili nel corso dei prossimi anni, ma che non hanno nulla a che fare con l'attuale collasso verticale dell'economia, una nuova ondata di disoccupazione di massa e l'impoverimento di milioni di famiglie.

La caduta del reddito nazionale dell'Italia, oltre il 10 per cento del PIL, pari a oltre 170 miliardi di euro, non ha precedenti in tempo di pace. Se nell’anno in corso l’economia rimarrà stabile e se  ipotizziamo una crescita del PIL dell'ordine del tre per cento annuo, a partire dal 2022, adottando le previsioni ottimistiche degli organi di governo, dovremo attendere il 2025 per tornare al reddito nazionale anteriore alla crisi del coronavirus. Vale a dire, il reddito nazionale del 2019 che era ancora circa cinque punti inferiore a quello del 2007, l'anno che precedette la Grande Recessione.

Nel contesto della crisi, la spesa pubblica - insieme al debito pubblico - aumenterà ovunque. In Spagna, il debito pubblico, che nel 2008 era il più basso tra i principali paesi della zona euro (circa il 36 per cento), ha già raggiunto nell'ultimo anno il 120 per cento del PIL. La Francia, secondo le previsioni del Fondo monetario, supererà il livello della Spagna. L'Italia, partendo da un importo notevolmente superiore già prima della pandemia, ha raggiunto nel 2020 un debito intorno al 160 per cento del PIL. L'aumento è una conseguenza inevitabile del calo del reddito nazionale. Non a caso, in Giappone, il debito pubblico ha superato l'enorme livello del 260% del reddito nazionale.

È possibile far fronte all'aumento del debito? L'inevitabile aumento del rapporto debito/PIL causato dalla crisi potrà essere governato solo puntando su un consistente incremento del prodotto interno lordo nei prossimi anni, una volta debellata la pandemia e le sue rovinose conseguenze. E, nell'attuale scenario di calo dei consumi e degli investimenti privati, il PIL può crescere solo con un aumento straordinario della spesa pubblica.

Nell'area dell'euro, oltre ai limitati aiuti della Bce con finalità specifiche, i paesi che non possono ricorrere all’autonomo finanziamento della propria banca centrale devono ricorrere all'emissione di debito pubblico, attingendo al risparmio privato concentrato in gran parte nei depositi bancari. L'Italia e la Spagna hanno i maggiori risparmi privati ​​a livello nazionale nella zona euro - risparmi che superano i 1.700 miliardi in Italia, cioè una cifra paragonabile al reddito nazionale del 2020.

Quali possibilità si aprono? A gennaio è stata annunciata in Italia l'emissione di titoli di Stato della durata di 15 anni con rendimenti inferiori all'1 per cento: la domanda dei risparmiatori si è aggirata intorno ai 100 miliardi, superando di gran lunga l'offerta di circa 10 miliardi di euro (Domanda boom per i BTP a 15 anni. ”La Stampa”, 6 gennaio2021).

Considerando il basso tasso di interesse offerto dai governi, non potrebbero esserci circostanze più favorevoli per attingere a queste risorse e utilizzarle per investimenti pubblici coerenti con un ampio piano di ripresa economica. Il debito pubblico cresce inevitabilmente in tempi di crisi sia per la riduzione delle entrate che per l'aumento della spesa pubblica, come è il caso dei sussidi di disoccupazione e del sostegno ai settori più colpiti dalla crisi come il commercio al dettaglio, il turismo e il tempo libero.

In ogni caso, gli investimenti pubblici in settori appropriati e mirati ripristineranno la crescita e aumenteranno l'occupazione, come è accaduto classicamente negli anni '30 sotto la guida diFranklin D. Roosevelt negli Stati Uniti al tempo della Grande Depressione. Il debito pubblico aumenterà inevitabilmente come è sempre accaduto durante le crisi. Ma l'onere della spesa pubblica tenderà a diminuire negli anni con la ripresa della crescita e l'aumento del reddito nazionale in misura maggiore rispetto al pagamento degli interessi maturati  sul debito passato.

Come abbiamo visto, questa è la soluzione adottata dai governi di molti paesi colpiti dalla crisi pandemica indipendentemente dal loro colore politico. Al contrario, la politica dell'Unione Europea resta legata all'obiettivo di  azzerare il  deficit e ridurre il debito pubblico a prescindere dall'andamento reale dell'economia nazionale. In altre parole, non evita una rovinosa politica deflazionistica.

Le condizioni poste dall'Unione Europea che rinvia a un futuro più o meno lontano possibili investimenti, lasciando Intanto che la crisi faccia il suo lavoro distruttivo dell'economia e delle condizioni sociali, sono inaccettabili. Le aziende più grandi si arricchiranno e beneficeranno nel prossimo decennio dei fondi forniti da Bruxelles per specifici settori di produzione, come gli investimenti nei settori del cambiamento climatico e dell'informatica. Gran parte della popolazione subirà le conseguenze della crisi in termini di aumento della disoccupazione e di emarginazione delle regioni più svantaggiate.

Quale sarà la politica del nuovo governo? Purtroppo è molto probabile che la politica nazionale in ogni caso non si discosti dalle condizioni imposte dalla Commissione Europea. Una politica che, come abbiamo visto, non affronta la crisi che ha messo in ginocchio gran parte della popolazione.

Altre strade potrebbero essere seguite, come mostrano gli esempi a cui abbiamo fatto riferimento. Le crisi economiche non sono una condanna divina, ma processi che i governi possono affrontare evitando che producano i loro effetti disastrosi. L'Eurozona è attualmente l'area più colpita dalla pandemia di coronavirus a livello mondiale. Ma, sfortunatamente, la sua politica finora non è stata volta ad evitare le sue conseguenze economiche, sociali e umane. Per molti versi è destinata ad aggravarle.

Giovedì, 28. Gennaio 2021
 

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