Lazio, divisi contro la destra

Gli errori paralleli di Pd e 5S potrebbero portare alla presidenza un esponente dell'estremismo più becero, per di più condannato in passato per spaccio di droga. Ma sarebbe un errore restare a casa. C’è la possibilità del voto disgiunto (votare la lista preferita e il candidato presidente di un’altra lista) che potrebbe generare un risultato a sorpresa

Per le elezioni regionali del prossimo 12 febbraio i giochi sono fatti. Rien ne va plus, la parola spetta ora agli elettori. Nel Lazio, niente “campo largo”: rispetto allo schema delle politiche, si ritrovano abbracciati PD e Azione-IV mentre dal PD si sgancia Sinistra Italiana che va con i Cinquestelle. E sembra inevitabile il bis delle politiche per la coalizione di destra.

Un ultimo appello (“Non lasciamo il Lazio alla destra”), lanciato in extremis da persone di cui ho la massima stima, è caduto nel vuoto. Partendo da un quadro dipinto con cruda nettezza, definivano una “scommessa autolesionista” l’approdo cui si è giunti, insinuando che qualcuno dei protagonisti si prepari perfino a festeggiare la sconfitta avendo scelto di perdere.

In effetti, il PD ha deciso quasi in automatico di tenere il punto sul commissariamento della Regione che governava insieme ai 5stelle. Con quell’atto, adottato a beneficio del sindaco di Roma vittorioso sulla uscente 5stelle, il PD aveva marcato il suo appoggio a Draghi, innescando peraltro la dinamica che avrebbe portato alla sua caduta. Un atto cui era stato dato questo rilievo quando in concreto non si trattava che di una modalità anacronistica e inquinante, destinata oltre tutto, con ogni probabilità, a finire nel nulla, di trattamento dei rifiuti, presentata come intervento strategico per risolvere la questione rifiuti a Roma, dove la raccolta differenziata viene dichiarata (non si capisce perché) impossibile.

Questa decisione, assunta in assenza di una leadership riconosciuta e nel silenzio della struttura regionale, non ha fatto che alimentare la fama di partito sensibile al fascino dei grandi affari, oltre a mostrare il chiaro intento di riallacciare la convergenza al centro, al punto di lasciare che Calenda si attribuisse il ruolo di primo sponsor dell’autocandidato D’Amato. Era dunque il segno di un ritorno alla linea della rottura e della competizione con i Cinquestelle, proseguendo nel movimento pendolare a cui il PD non riesce a porre fine, nell’incapacità di compiere una scelta di campo che non sarà certo il congresso a risolvere.

Dal canto loro i 5stelle, anziché incalzare il PD perché aprisse una qualche interlocuzione, anche solo per metterlo in difficoltà e comunque per indicare con chiarezza quale fosse il loro obiettivo di prospettiva (la ricostituzione di un’alternativa progressista di governo), hanno scelto di attestarsi (in definitiva, arroccarsi) su una posizione di intransigenza. Segnando a loro favore, tuttavia, almeno una mossa innovatrice: la coalizione con una lista chiaramente posizionata a sinistra (Sinistra Italiana, “2050” e “rosso-verdi”), in qualche modo controbilanciando la scelta di alleanza compiuta dal PD.

Due errori che, riprendendo un passo dell’appello, saranno “pagati da cittadini e cittadine del Lazio”. Ora, però, in quale direzione dovrà andare, una volta chiamato alle urne, il popolo di sinistra? Per non restare nel vago, intendo con questo le centinaia di migliaia di persone che sono scese in piazza il 5 novembre contro la guerra e che vedono nella destra neofascista al governo una minaccia per i propri diritti e per i propri interessi. Perché, qui sta il punto, una volta consumato questo misfatto, occorre scongiurare a tutti i costi il rischio che stavolta l’astensionismo non rifletta “solo chi ha perso la speranza ma anche chi la speranza prova a ricostruirla”, per usare le parole di A. Ranieri sul Manifesto. È essenziale non restarsene a casa, facendosi condizionare dal precedente delle politiche. La situazione è diversa e occorre esserne consapevoli senza cedere allo scoramento.

Le differenze sono principalmente tre, tutt’altro che di poco conto. Per cominciare, il candidato della destra non ha neanche un po’ la capacità di attrazione dimostrata dalla Meloni. Non si tratta solo della condanna subita in un lontano passato: che, lungi dall’essere dovuta a una “fragilità” giovanile, riguardava comunque un’attività di spaccio inserita nel quadro di un impegno di prima linea nelle bande del neofascismo eversivo. Pesa piuttosto la collocazione politica attuale, nella peggiore destra (a questo riguardo anche il modo in cui ha dipinto, ora, il suo passato di spacciatore è rivelatore, vedi questa intervista del fratello) insieme al curriculum recente. Nel campo della sanità, e nella stessa CRI, si è fatto conoscere e riconoscere: non a caso, organicamente legato a Storace, della cui gestione, all’origine del commissariamento della sanità, gli elettori del Lazio hanno conosciuto i fasti.

La seconda differenza è che il PD è dato dai sondaggi in ulteriore crisi di consensi, che le vicende congressuali non fanno che alimentare: è singolare il fatto che, anziché anticipare le primarie così da avere un’occasione di contatto ravvicinato con i potenziali elettori, abbia deciso di prendere tempo sapendo di dover digerire (e far digerire) una sconfitta data per scontata (se non perseguita, come insinuano gli autori dell’appello). Dunque, la carta del voto utile si è resa inutilizzabile per il PD e, quanto al suo candidato, benché nel complesso apprezzato per la gestione della crisi Covid, pesa per lui la collocazione politica dei suoi sponsor principali, PD e Azione-IV: perché la scelta del futuro Presidente della Regione ha una valenza, più che tecnica, tutta politica.

La terza differenza, importante alla luce delle prime due, è che il sistema elettorale regionale prevede la possibilità di differenziare il voto di lista da quello per il/la presidente. Ora che l’appello alle forze politiche è rimasto inascoltato possono essere direttamente elettori ed elettrici a realizzare nell’urna l’unità che nel chiuso delle stanze non si è raggiunta. Ho fatto diretta esperienza di campagne elettorali (fuori dal Lazio) in cui il voto disgiunto ha avuto un peso rilevante, se non determinante. Si può fare: non solo, ma impegnarsi per creare dal basso le condizioni politiche che chi fa questo mestiere non riesce a costruire è un ottimo antidoto contro la sensazione deprimente che si prova nel vedere frustrato ogni tentativo di abbattere le barriere che frammentano il campo della sinistra. E, soprattutto, l’idea di sfruttare questa possibilità può far vincere la tentazione di restare a casa.

Tutto sta a scegliere quale tra le candidature proposte come presidente dà maggiori garanzie di posizionarsi, sulla pace, sull’ambiente e sulla solidarietà, in sintonia con il popolo del 5 novembre. E di farlo indipendentemente dalla coalizione cui è collegata la lista di appartenenza dei candidati o delle candidate a cui si intende dare la preferenza: purché diano il massimo affidamento, in caso di elezione, quanto all’appoggio a una eventuale giunta di sinistra, se riuscisse a vincere; in caso contrario, nella sciagurata ipotesi di un presidente di estrema destra, quanto a far fronte comune all’opposizione ovvero, qualora non riuscisse ad avere l’appoggio della maggioranza dei consiglieri nonostante il premio (caso che si verifica qualora le liste collegate non raggiungano il 39%) quanto ad escludere qualunque compromesso.

Nell’ottica dell’appello da cui sono partito, che ho condiviso, ritengo dunque che la scelta più coerente sia, innanzitutto, quella di escludere l’ipotesi di cedere allo sconforto restando a casa. Dopo di che, di scegliere, tra le liste, candidati/e che esprimano pubblicamente l’impegno di non fornire il minimo appoggio né concedere il minimo spazio di manovra al candidato presidente della destra se dovesse prevalere, in particolare nel caso in cui non disponga di una maggioranza in Consiglio. E di votare, per la presidenza della regione, chi dà più affidamento quanto alla tenuta e alla coerenza rispetto alle scelte di merito e ai valori che hanno animato il popolo del 5 novembre a Roma, indipendentemente dalla scelta compiuta sulla lista.

E se qualche candidato/a formalizzasse un impegno in questa direzione farebbe un gesto da apprezzare ... e da valorizzare.

Per quel che mi riguarda, sto sondando qualche amico/a che, non avendo vincoli di appartenenza partitica e essendo orientato/a a votare candidati/e appartenenti a liste collegate a D’Amato o alla lista di Unione Popolare invitano al voto disgiunto per la Bianchi per dar vita a un gruppo in uno dei canali web che faccia aperta propaganda in questo senso. Anche una risposta a commento di questo post che si dichiari disponibile a questa iniziativa sarà la benvenuta.  

Non è detto che chi è per la pace e per la sostenibilità, ambientale e sociale, insomma, chi è di sinistra, debba necessariamente votare nel Lazio per candidate/i nelle liste collegate a Donatella Bianchi.

Non c’è però altra candidatura al ruolo di presidente che, al tempo stesso, dia garanzia sui contenuti e abbia qualche speranza di vittoria su un candidato come Rocca. Fermo restando che nella scelta di candidate/i di lista si debba avere la certezza che, nel caso di una vittoria di Rocca senza maggioranza nonostante il premio, non si presterebbero a fornire alcun sostegno, né organico né episodico.

Il sistema elettorale prevede il voto disgiunto come ulteriore esercizio di democrazia, in mancanza di un secondo turno di ballottaggio. L’importante è non rassegnarsi e non cedere alla tentazione di restare a casa. Donatella Bianchi può farcela, non rinunciamo a dare il nostro contributo per una vittoria possibile contro l’estrema destra impresentabile.

Martedì, 24. Gennaio 2023
 

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