Lavoro, un decretino che sbaglia strada

Al di là degli annunci trionfalistici servirà a ben poco. Soprattutto, riproduce stancamente uno schema e un modello produttivo (oltre che un modello di sviluppo) che è proprio quello da cui l'Italia deve uscire per tornare a offrire una prospettiva ai suoi giovani

Un decreto che introduce ritocchi qua e là alla riforma Fornero non credo possa alimentare entusiasmi né suscitare grande interesse. Quella riforma è ormai archiviata con un giudizio d'assieme decisamente negativo: procedendo a forza di toppe si finisce per cadere nel proverbiale "tacon peggiore del buso". Né varrebbe la pena di dedicare particolare attenzione a un decreto che, per combattere la disoccupazione giovanile nel solco del programma europeo "Garanzia giovani", si limita a dar vita a una cabina di regia (o struttura di missione). Un lodevole tentativo di mettere ordine. Ma è arduo pensare che basterà a risolvere le sovrapposizioni di competenze e i conflitti potenziali che il nostro ordinamento ci regala quando si tratta di politiche attive del lavoro. Che, non a caso, restano relegate nei cantucci marginali dell'attività delle nostre amministrazioni e delle istituzioni politiche in genere.    

 

Il decreto legge 28 giugno 2013, n. 76 tratta prevalentemente gli argomenti di cui sopra. Non sarebbe giusto tuttavia destinarlo alla disattenzione generale. Promette infatti assai di più, sin dal titolo: "Primi interventi urgenti per la promozione dell'occupazione, in particolare giovanile…". Un titolo accompagnato da annunci trionfalistici al momento della presentazione dei relativi provvedimenti, collocati con grande enfasi in apertura del decreto, all'articolo 1: "Ora le imprese non hanno più alibi per non assumere" (Enrico Letta, a caldo, da Bruxelles), "200mila posti di lavoro creati, di cui 100.000 grazie al solo articolo 1, pari a due punti percentuali in meno di disoccupazione" (il ministro del Lavoro Giovannini, di rincalzo).

 

Parliamo dunque di provvedimenti eccezionali e urgenti, dal presumibile impatto dirompente, per promuovere l'occupazione giovanile. Parliamone seriamente, perché coi giovani non si scherza. Men che meno con quelli senza lavoro. E anche perché quando si parla di Europa occorre essere precisi: demagogia e interessi di bottega hanno fatto già abbastanza danni alla causa europea.

 

Per cominciare, dobbiamo rilevare come i toni usati dal governo abbiano lasciato freddi altri interlocutori, di una qualche importanza. Pur dando una sorta di via libera, si sono lamentati i sindacati ("molte parole e poca concertazione", rimprovera Susanna Camuso). Hanno avuto da ridire i giuslavoristi: l'Agi, Associazione degli avvocati giuslavoristi italiani, ringraziando per essere stata convocata in Senato per un'audizione, esprime un giudizio severo sulla liberalizzazione ulteriore del contratto a tempo determinato, individuato come il punto più critico nel decreto, in quanto "la stratificazione continua di interventi modificativi ha da sempre costituito uno dei poli attrattivi d'elezione del contenzioso lavoristico". Hanno gettato acqua sul fuoco gli esperti addetti ai lavori, che ai numeri annunciati dal ministro hanno contrapposto analisi accurate e argomentate che ridimensionano, non di poco, gli effetti prevedibili. Poco meno di 30mila assunzioni per anno, per lo più già decise dalle imprese in precedenza (Tito Boeri su "Lavoce.info").

 

Proviamo dunque a fare un po' più di chiarezza per non alimentare illusioni e anche per non confondere le idee.

 

In primo luogo, aver dato l'annuncio del decreto a margine dell'incontro di Bruxelles può prestarsi ad un equivoco. L'Europa non c'entra. L'Europa chiede agli Stati membri di adoperarsi per ridurre drasticamente la quota di giovani tra i 15 e i 24 anni che non sono occupati e non frequentano né corsi di studio né programmi di formazione (l'ormai tristemente famoso acronimo Neet) e indica una serie di misure da adottare, destinando a questo scopo i fondi di cui si è parlato a margine della riunione di Bruxelles (il famoso miliardo e mezzo di euro vantato da Letta in quella occasione).  Con quei fondi e con quel programma (detto "Garanzia per i Giovani") questo decreto non c'entra per nulla, se non per un articolo (il n. 5) che, come accennato all'inizio, prevede l'istituzione di una (ennesima) cabina di regia presso il ministero del Lavoro. E' pur vero che l'incentivo alle assunzioni previsto all'art. 1 è finanziato (per la parte riguardante il Mezzogiorno, che è la parte principale) dal Fondo Sociale Europeo, ma si tratta delle risorse residue di un programma che è in via di esaurimento (termina alla fine dell'anno in corso) e la cui pianificazione risale a sette anni fa.

Dato all'Europa quel che le spetta, il decreto si rivolge ad altri giovani. Una fascia più larga di quella "europea" (si arriva ai 29 anni) ma non tutta quella su cui pesa la crisi (che si estende quanto meno fino ai 35 anni). Favorisce il Mezzogiorno, giustamente: il tasso di Neet nelle regioni del Mezzogiorno rispetto al resto del Paese è, ahinoi, imparagonabile. Dopo di che, di quali soggetti incentiva l'assunzione?

 

Qui il provvedimento merita un esame un po' più attento. Perché sembra quasi voler dissimulare la sua matrice e le sue finalità. Molti ricorderanno probabilmente la reazione piccata di Letta ai commenti negativi sul decreto che hanno invaso la rete nei giorni successivi al suo annuncio (in buona parte su input del blog di Beppe Grillo). Il decreto prevede tre condizioni per accedere all'incentivo: disoccupati da 6 mesi, con licenzia media, single o con persone a carico. Se fosse necessario rispettarle tutte e tre (questa la sostanza delle critiche) resterebbe probabilmente lettera morta. Quanti sono quelli che, disoccupati da almeno sei mesi, hanno solo la licenza media e vivono soli o con persone a carico (sia pure nel Mezzogiorno)? Sbagliavano i critici, ha spiegato il premier. Non occorre soddisfare le tre condizioni, ne basta una sola.

 

Ma che cosa significa questa precisazione? Che l'incentivo è rivolto anche a NON disoccupati: riguarda cioè anche personale che ha già un posto di lavoro. Anche a tempo indeterminato, se proviene da un'altra azienda. Con una forma diversa di contratto (a tempo determinato o atipico) se già in servizio nella stessa azienda (in questo caso il posto a tempo o con atipico andrà rimpiazzato), purché siano a bassa scolarità ovvero single o con persone a carico. Dunque l'incentivo andrà ai datori di lavoro che assumeranno o stabilizzeranno lavoratori impegnati in mansioni esecutive e/o ripetitive, presumibilmente maschi, single o con moglie disoccupata. Per le femmine, difficile che si vada oltre una quota (minoritaria) di single. Come giudicare?

 

Si potrebbe dire che è comunque un modo per abbassare il costo del lavoro (per i datori di lavoro, però). Una destinazione che può risultare più digeribile rispetto all'esenzione Imu per le rendite catastali più elevate. Ma è difficile ipotizzare che possa dare un impulso serio all'occupazione ed essere accolta con entusiasmo dai giovani disoccupati.

 

Al di là di tutto questo, riproduce stancamente uno schema e un modello produttivo (oltre che un modello di sviluppo) che è proprio quello da cui l'Italia deve uscire per tornare a offrire una prospettiva ai suoi giovani (e ai suoi cittadini in genere). La cosiddetta "via bassa", quella senza innovazione, senza contenuto conoscitivo elevato. Competitività ricercata comprimendo i salari di una forza lavoro dequalificata. Una produzione poco competitiva sui mercati del mondo e poco appetibile: come processi, per chi ci lavora; come beni e servizi prodotti, per quelli a cui sono destinati.

 

Un governo "di servizio", per l'emergenza, dovrebbe proporsi di introdurre qualche novità - pazienza se poche e circoscritte - in controtendenza rispetto alla deriva della crisi. Se il cacciavite viene usato nel solito vecchio modo, senza lo straccio di un'idea nella testa, si tira a campare. Mentre nel Paese sempre più gente tira le cuoia.

Lunedì, 15. Luglio 2013
 

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