Landini tra politica e sindacato

E’ meritorio il tentativo del segretario della Fiom di ridefinire il rapporto tra organizzazioni di massa e politica, ma è opportuno un chiarimento definitivo sull’identità della coalizione sociale e sui suoi obiettivi futuri

Lo sforzo che sta facendo Landini, con la Fiom, per ridefinire il rapporto tra organizzazioni di massa e politica merita di essere seguito con particolare interesse. E' un tema cruciale che stenta a trovare una soluzione, anche perché assume accezioni diverse e si presta a interpretazioni non sempre obiettive. Una difficoltà che incontra anche Landini nel tentativo, non sempre facile, di aggiustare il tiro della sua iniziativa.

 

Qualche settimana fa l'ho ascoltato in occasione della presentazione di un recente libro di Sandro Antoniazzi, dirigente storico della sinistra Cisl milanese, la cui tesi centrale, quasi un bilancio di una vita di militanza, era che il sindacato dovesse recuperare una capacità progettuale che col tempo aveva smarrito. Che dovesse cioè tornare a inquadrare la sua azione per la tutela delle condizioni di vita e del ruolo sociale dei lavoratori in una prospettiva più ampia: un orizzonte temporale meno angusto e un intreccio più stretto con interessi, aspirazioni e bisogni che emergono da altri settori della società, ma anche dagli stessi lavoratori in altri ambiti vitali, per loro importanti non meno del lavoro. Intervenendo, Landini mi sembra accettasse quel terreno di riflessione e quella sfida ma ammonisse anche a mantenersi rigorosamente aderenti al “qui e ora” della materia del contendere, ossia dei temi di volta in volta all'ordine del giorno nell'attività propriamente sindacale. E alle regole (di democrazia) con cui arrivare alla formazione delle decisioni in quella sede.

 

Era chiara l'intenzione di reagire alle letture che in quei giorni venivano date (da Renzi) delle sue mosse in chiave tutta politica: “L'azione Fiom sia giudicata sul  terreno esclusivamente sindacale”, rivendicava. Ma intendeva anche segnare una linea di demarcazione rispetto alla politica dello “stato di necessità”, che chiude la porta a ogni possibile alternativa e fa così venir meno la ragion d'essere della democrazia stessa.

L'iniziativa che ha assunto ora, per la costruzione di una “coalizione sociale”, segna un'evoluzione rilevante di quella posizione. Il tema dell'ancoraggio allo “specifico” sindacale si collega strettamente a quello del rapporto con la politica. La linea di demarcazione si fa ancora più netta, lo “stato di necessità” non è più solo lo strumento per neutralizzare ogni possibile alternativa ma la cornice in cui si svolge la dialettica politica in tutte le sue espressioni.

 

Non è un passaggio da poco. Se il confronto non è più tra una politica “buona” e una “cattiva” ma tra la politica e la società, è inevitabile che i suoi interlocutori potenziali collocati nel campo della politica si pongano la domanda se consideri questa condizione come uno stato contingente o “di lungo periodo”. Perché nel travaglio attuale della sinistra (in particolare di quella italiana), sono in molti a pensare, come lui, che la strada verso la ricostruzione di una sinistra politica passi attraverso la ricostruzione di un tessuto sociale oggi lacerato. L'esperienza di Syriza in Grecia del resto sembra fornire argomenti in questa direzione (magari a prezzo di trascurare qualche elemento distintivo di quella storia). Ma se il giudizio sui “lavori in corso” attorno a questo tema è quello implicito nell'affermazione che nessuna politica può dirsi buona e che la sinistra, più che avere perso, si è proprio estinta, la via intrapresa da Landini sembra non voler incrociare mai quel lavorìo. Diverso è invece se quel giudizio va riferito a questo preciso frangente storico da cui in tanti cercano una via di uscita e se quindi la coalizione sociale a cui lavora è un contributo alla ricostruzione di una soggettività politica che ha perso, con l'identità, la ragion d'essere. Proponendosi pertanto come motore di una formazione politica in embrione.

 

Se fin qui un chiarimento netto su questo punto non è arrivato (“Partito? Non capisco questa parola”), la ragione appare più che altro il non voler vedere catalogata la sua iniziativa come l'ennesimo tentativo, l'ennesima formazione in embrione, l'ennesimo “motore” che si mette in moto. Nel quadro poco incoraggiante dei processi che si propongono in questa fase di ricostruire un'offerta politica a sinistra, non riuscire a distinguersi potrebbe essere un problema. Ma un problema di questa portata non si risolve negandolo ma facendoci i conti fino in fondo, con coraggio.

 

Perché l'aspirazione all'unità è forte e diffusa, ma è condizionata da una altrettanto diffusa incapacità di mettersi al servizio di una causa di cui non si abbia il copyright. Affermarlo sarebbe già un passo avanti, ma richiede, oltre che umiltà e generosità, anche il coraggio di andare contro un modello di leadership che è stato esaltato, da vent'anni a questa parte, come l'unico vincente (ma il solo leader che abbia portato la sinistra a vincere, nelle urne, nel nostro paese in questi vent'anni rispondeva al profilo esattamente opposto). Non gioverebbe insomma, né a lui né alla sua iniziativa, fare di ogni erba un fascio e avallare l'immagine di una notte in cui tutti i gatti sono bigi.

 

Questa ambiguità va dunque risolta. Anche per un secondo, importante motivo. Perché altrimenti si può insinuare una diversa interpretazione della sua iniziativa. A cui ha prestato il fianco in particolare quando (a Raitre) ha riesumato una definizione, più volte ricorrente nella storia della categoria sindacale di cui è alla testa (non a caso quella che ha sempre espresso la più chiara radicalità sociale): il sindacato come “soggetto politico”, una definizione che poggia sull'idea di un conflitto tra politica (fattasi dominio) e società.

 

Niente di cui scandalizzarsi: nella sua storia, il movimento operaio è sempre stato attraversato da una dialettica con queste idee e queste pulsioni. E i passi avanti sono stati spesso il frutto proprio di questa dialettica, che ha esercitato una spinta vitale.

Così torniamo però al tema iniziale, quello posto dal libro di Antoniazzi. Un conto è affermare che il sindacato debba tornare a misurarsi con la politica restando fedele alla sua natura, alla sua costituzione, di organizzazione di interessi, parziale benché spesso, fortunatamente, grande (e sempre oggetto di un'offensiva rivolta a ridimensionarlo da parte dell'interesse avverso). Solo un malinteso senso di autonomia (principio sacrosanto da difendere con le unghie e con i denti) può portare il sindacato a definirsi “neutrale”. E magari, in nome di questa, a scegliere, non chi persegue una strategia e obiettivi che meglio rispondono agli interessi che deve tutelare (in senso generale, quindi, e non particolaristico o corporativo), ma chi “offre di più”. Quando lo ha fatto, ha scritto le pagine peggiori della sua storia (un caso per tutti, Alitalia messa da Berlusconi nelle mani dei “capitani coraggiosi” a spese dei contribuenti, lavoratori dipendenti e pensionati). Tutt'altra cosa è fare della propria parzialità (per quanto centrale, e radicale) una ragione sufficiente per elevarsi (o abbassarsi, secondo un umore assai diffuso) al rango di soggetto politico. Non soggetto che fa politica (come fa, necessariamente, ogni associazione di interessi o corpo intermedio) ma soggetto politico in quanto tale.

 

Se il tema di oggi è l’altro, quello di una sinistra che non appare in grado di rispondere con una offerta adeguata alla domanda che proviene dalle parti della società private di una rappresentanza, di questo Maurizio Landini, che ne è del tutto consapevole, fa benissimo a preoccuparsi e a richiamare l'attenzione. Anche perché è un pezzo di società che incontra grandi difficoltà nel dar vita a movimenti sociali, a maggior ragione per la tendenza della politica dominante a “far fuori” i corpi intermedi come intralci sulla via della decisione, ostacoli alla governabilità.

 

E' dunque sacrosanto che un leader sindacale della sua statura, nel suo percorso per collocare l'area di rappresentanza del sindacato in una più ampia coalizione sociale, si dimostri consapevole dei riflessi importanti che questo avrà ai fini della costituzione di una formazione politica di sinistra. E che nel contempo stia attento perché questo non lo porti, in quanto ne sia protagonista, fuori dai confini del sindacato. Ma deve evitare anche l'altro rischio, di indirizzarsi verso un conflitto nei confronti della politica e delle sue istituzioni, che perda di vista quello originario, classico, con le controparti sociali, perché lo porterebbe anch'esso fuori da quei confini.

 

Senza allontanarsi dal cuore della partita che si gioca attorno alla crisi di rappresentanza e di ruolo che investe, con il sindacato, tutti i corpi intermedi, potrà così sfidare il sindacato confederale, nella sua complessa articolazione (e perfino oltre la sua Cgil), a porsi il problema delle alleanze, dell'interazione e della convergenza con le espressioni più vive della rappresentanza sociale. Non aiuterebbe solo il sindacato ma sarebbe un passaggio fondamentale verso la riproposizione di una politica “buona”, con la ricostruzione di una sinistra vincente. Radicata, progettuale e vincente.

 

E' anche questo (se non soprattutto questo) un terreno da presidiare. Che richiederebbe l'impegno delle energie migliori. Non credo si possa dubitare che a un progetto di tale portata un dirigente con le qualità di Maurizio Landini debba dare un contributo importante.

Venerdì, 20. Marzo 2015
 

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