L'America di Obama e l'Europa di Trichet

Una volta innescato un processo di caduta della crescita la crisi tende ad avvitarsi. Per scongiurarlo gli interventi debbono essere non solo tempestivi, ma anche massicci. Obama ha varato misure fiscali e interventi pubblici; in Europa non se ne vede traccia.

L’Europa si presenterà al G20 di Londra il 2 aprile, con la  proposta di passare immediatamente all’elaborazione di nuove regole di funzionamento dei mercati finanziari. Una proposta all’apparenza efficace e lungimirante. Ma, sfortunatamente, solo all’apparenza, dal momento che si tratta più di un alibi più che di una proposta che il resto del mondo possa prendere sul serio. Che ci sia bisogno di nuove regole è fuori discussione. Bisognerà lavorarci ricercando il consenso di molti paesi, fra i quali quelli emergenti come la Cina, l'India, la Russia, il Brasile che possono a buon diritto considerarsi  vittime del caos prodotto dagli Stati Uniti e dalla stessa Europa. Con l’ironica aggravante che le banche europee sono state messe in ginocchio non dai mutui subprime, poco praticati in Europa, ma dall’acquisto speculativo di titoli americani che si sono poi rivelati spazzatura.

 

Bene, dunque, pensare a nuove regole. Ma, mentre la casa brucia, è prioritariamente necessario cercare di spegnere l’incendio. Nell'ultimo trimestre la crescita globale ha subito, secondo i dati del Fondo monetario internazionale, una contrazione del 5 per cento in termini annualizzati. E' la caduta più grave degli ultimi 60 anni. Le previsioni dicono che saranno i paesi avanzati a soffrire maggiormente dell'aggravamento della recessione. L'area dell'euro sarà fra le più colpite, con una decrescita di un ulteriore 3,2 per cento nel corso  del 2009. Per vedere un raggio di luce bisognerà aspettare la fine del 2010. Ma a una condizione: che si rafforzino le politiche di sostegno all'economia. Questo affermano le organizzazioni finanziarie internazionali. Ma, secondo Barroso, presidente della Commissione europea e Trichet, presidente della Bce, l'Unione europea ha già preso tutte le misure necessarie, e ora non rimane che aspettare che passi la nottata.

 

Ma anche quando la crisi si arrestasse per l’economia reale la nottata potrebbe ancora essere lunga, molto lunga. Dopo il crollo del 1929, nel corso dell’anno successivo, la Borsa si riprese, e il presidente Hoover si convinse che fosse sufficiente aspettare, perché tutto tornasse come prima. Ma nei due anni successivi l’economia continuò a peggiorare, e Franklin D. Roosevelt trovò nel novembre del 1932 un’America in ginocchio. Ci vollero le misure straordinarie del New Deal per ridare speranza, ma la crisi dell’economia reale, la mancanza di investimenti privati, non ostante la grande massa di quelli pubblici, simboleggiata dalla Tennessee Valley Autority, si mostrò dura a morire. Nel 1937, la disoccupazione tornò a crescere. E il superamento della crisi si ebbe solo con il riarmo e la guerra degli anni Quaranta.

 

Una volta innescato un processo di caduta della crescita, degli investimenti, dell'occupazione e dei redditi, la crisi tende ad avvitarsi, come negli anni 90 è successo al Giappone. Per scongiurare il circolo vizioso, gli interventi debbono essere non solo tempestivi, ma anche massicci, andando al di là di quanto sembra sufficiente. L’amministrazione americana si nuove in questa direzione, ma, come spiega Jeff Faux nell'articolo che segue, insieme con altri economisti liberal, per evitare il rischio della Grande Depressione sarebbero necessarie misure più forti. Gli 800 miliardi dedicati al rilancio economico non sono considerati sufficienti per colmare il buco che la crisi ha creato nella domanda di consumi e investimenti privati. Ed è probabile che in autunno Barack Obama sia costretto dal prolungamento della crisi a presentare al Congresso un altro pacchetto di misure di rilancio. Una politica che non mancherà di incontrare la resistenza dell’opposizione repubblicana che critica il disavanzo del bilancio federale di 1.700 miliardi di dollari - equivalenti al 12 per cento del prodotto interno lordo – fingendo di dimenticare che 1000 sono stati il lascito dell'amministrazione Bush. E che se il rischio dell’inflazione riguarda il futuro, la recessione e la crescita vertiginosa della disoccupazione sono una minaccia presente.

 

Ma, al di là delle polemiche, il fatto certo è che Obama ha assunto misure fiscali e di interventi pubblici, di cui in Europa non si vede traccia. Ha ridotto le tasse sulle classi lavoratrici e i ceti medi, aumentandole sui più ricchi – mentre il Congresso discute addirittura di tassare al 90 per cento i bonus distribuiti ai propri dirigenti dalle banche che fruiscono dell'aiuto pubblico.

 

Ma ancora più importante della manovra fiscale, pur dotata di un elevato impatto simbolico, che ha guadagnato a Obama l'epiteto di socialista, si mostra  il piano di investimenti pubblici diretti a modificare il modello energetico americano, a modernizzare il sistema dei trasporti pubblici, a riformare la sanità e la scuola. Molti parlano di un “nuovo New Deal”, ma per ora ne siamo lontani. Le resistenze sono enormi. E non ostante il suo fallimento, l’oligarchia finanziaria si mostra ancora tanto forte quanto arrogante.

 

Cosa fa intanto l’Unione europea? E’ semplicemente soddisfatta di ciò che ha già fatto, che è quasi nulla, rispetto al repentino crollo della produzione e all'aumento della disoccupazione. La Commissione europea continua a raccomandare di non allontanarsi dal fatidico tre per cento di disavanzo pubblico e, in ogni caso, di predisporre un piano di rientro verso il feticcio del pareggio del bilancio. E' come se invece di curare la polmonite in atto con una giusta dose di antibiotici, ci preoccupassimo di programmare le prossime vacanze alle Maldive.

 

A Paul Krugman che critica la politica passiva dell’Unione e della Banca centrale europea, Lorenzo Bini Smaghi, membro italiano del consiglio esecutivo della Bce, con una difesa d’ufficio simile a un volantino pubblicitario, ha risposto che la Banca centrale ha fatto tutto quello che è necessario, e anche di più. Fingendo di dimenticare che la BCE ha insistito fino all’autunno del 2008, un anno dopo l’inizio della crisi finanziaria  americana, che il problema era l’inflazione, fino all’incredibile aumento dei tassi di interesse, in clamorosa controtendenza col resto del mondo. E ha poi stentato a ridurli, lasciandoli ancora all’1,5 per cento, mentre la Fed, la Banca centrale britannica e quella giapponese li hanno sostanzialmente azzerati. Il risultato è l’apprezzamento del cambio dell’euro su tutte le valute concorrenti. La bilancia commerciale della eurozona, che era attiva nel 2007, ha  registrato un disavanzo di 15 miliardi nel 2008. E l’apprezzamento dell’euro peggiorerà le prospettive dell’industria esportatrice già duramente colpita dal calo della domanda internazionale.

 

Krugman ha probabilmente torto quando sostiene che qualche paese potrebbe trovarsi con un compito facilitato in assenza dell’euro. Ma il problema non è l’euro, che è anzi uno scudo rispetto alla turbolenza dei mercati monetari in tempo di crisi, ma la politica adottata nei suoi dieci anni di vita dalla Bce. Una politica fondamentalmente restrittiva, diretta al contenimento dei salari e alla restrizione della domanda interna, in vista di una illusoria maggiore competitività nei rapporti commerciali col resto del mondo. Ciò che si può obiettare è che la politica di Barroso e Trichet  gode dell’appoggio della maggioranza dei governi dell’Unione monetaria. In effetti, l’appoggio che conta è quello del governo tedesco – la Francia ha tentato inutilmente di proporre un coordinamento attivo delle politiche, l'Italia non conta, la Gran Bretagna è fuori dall’euro. La Germania è il primo paese esportatore al mondo. Il suo obiettivo non è espandere la domanda interna, utilizzando il bilancio pubblico, ma attendere che passi la crisi per riprendere il ruolo proprio di grande esportatore. C’è di più. A settembre ci sono le elezioni, e la signora Merkel è in pole position per un possibile futuro governo senza i socialdemocratici della Spd e con il partito liberale.

 

E’ una politica forse a breve sopportabile per la Germania, non ostante la caduta della crescita,  il crollo della produzione industriale e delle esportazioni. Ma è una politica di attesa miope per la stessa Germania e per l’Europa. Entrambe aspettano la ripresa americana. Il Giappone, che ha ormai praticamente azzerato i tassi d’interesse, e ha un colossale disavanzo pubblico, una volta e mezzo quello italiano, aspetta, a sua volta, la ripresa americana e, possibilmente, quella cinese. L’aspetta anche il Regno Unito che, fuori dall’euro, e si muove con grande spregiudicatezza sul piano della politica monetaria e fiscale.

 

Larry Summers, il principale consigliere economico di Obama, ha ammonito che gli Stati Uniti da soli non possono farcela. E l’amministrazione americana chiede un rafforzamento e un coordinamento delle politiche di rilancio a livello planetario e, in primo luogo, all’Unione europea. Ma l’Europa si presenta al G8 a mani vuote. In attesa che passi la nottata.

 

(Non abbiamo fatto cenno all’Italia, non per dimenticanza, ma perché il governo italiano è semplicemente fuori da qualsiasi dibattito sull’uscita dalla crisi che abbia senso. Per Berlusconi la crisi è la proiezione psicologica di timori artificialmente alimentati da una perversa campagna mediatica. Ma il fatto più grave è che nessuno più si sorprende. C’è una forma di crescente assuefazione alle assurdità politiche che Berlusconi e i suoi ministri somministrano senza sosta al paese. Quanto all’opposizione, non rimane che sperare. Per molti versi il suo compito, dopo una lunga débacle, è difficilissimo. Ma per altri versi, potrebbe perfino avvantaggiarsi del fatto che il governo è retto dalla peggiore destra che, da molti decenni a questa parte, dopo il crollo degli ultimi regimi fascisti, si sia vista in Europa).

Giovedì, 26. Marzo 2009
 

SOCIAL

 

CONTATTI