La Turchia nell'Unione e l'Europa di domani

Il "sì" all'ingresso del grande paese islamico era necessario per molte ragioni, ma ciò non significa che si possano ignore i problemi che comporta. Bisogna riprendere subito la discussione su un progetto per il futuro

Aprendo le porte alla Turchia, l'Unione europea ha compiuto una scelta controversa, e al tempo stesso determinante per il futuro dell'Europa. La decisione ha sollevato riserve e le obiezioni di varia natura. L'espansione dell'Unione al di al di là dei naturali confini europei - si osserva - ne edulcora l'identità culturale e istituzionale. Si tratta di un grande paese con 70 milioni di abitanti, destinato a diventare il più popoloso dell'Unione. E' un paese povero: il suo reddito pro-capite è meno di un terzo di quello dell'Unione. Ma non sono queste le obiezioni fondamentali. I timori riguardano piuttosto due aspetti che mutano radicalmente la fisionomia dell'Unione. Da un lato, la dilatazione delle sue frontiere fin dentro il Grande medio oriente, fino ai confini della Siria, dell'Iraq e dell'Iran. Dall'altro, l'immissione nell'Unione di un grande paese islamico.

E' evidente che non siamo di fronte a una semplice prosecuzione del processo di allargamento iniziato con i paesi provenienti dall'ex impero sovietico. Si tratta di una mutazione radicale. Se vada in una direzione giusta o sbagliata non si può dire guardando solo alla Turchia. La risposta deve essere trovata nel cuore stesso dell'Unione europea e nel ruolo che sarà in grado di assumere nei prossimi anni. Viviamo nell'epoca della globalizzazione e il futuro dell'Europa si giocherà in gran parte nei rapporti con l'India e la Cina. Rimanere chiusi entro i confini disegnati all'inizio del secolo scorso significa dimenticare che allora la Francia e l'Inghilterra avevano effettuata la loro porzione di globalizzazione attraverso i rispettivi imperi. Oggi, senza una nuova dimensione geografica, economica e politica, l'Europa sarebbe condannata al destino di una periferia. La Turchia è da questo punto di vista un'occasione, non una minaccia.

Le maggiori perplessità nascono oltre (e forse più) che dalla geografia, dal fatto che si tratta dell'immissione di un grande paese islamico. Ma anche qui dobbiamo chiederci: è un bene o un male? Il XXI secolo si è aperto con la prospettiva di un conflitto fra civiltà e, in primo luogo, fra occidente cristiano e islam. Si dà il caso che la Turchia sia un grande paese islamico e laico. Il governo di Erdogan è fondato su un partito islamico, ma pluralista, e determinato a compiere tutto l'itinerario liberale e democratico che impongono le regole per l'adesione all'Unione europea. La Turchia, smentendo il paradigma di Samuel Huntington, il politologo di Harvard che ha teorizzato il clash delle civiltà, è il paese che emblematicamente indica la possibilità della convivenza al posto dell'inevitabilità del conflitto fra due mondi.

Il problema non è nell'allargamento alla Turchia, ma nel seno stesso della vecchia Unione. Nell'ambiguità delle sue prospettive. Cosa veramente vuole essere l'Unione europea da grande? Questo non si sa. E ciò che è peggio non si discute, se non surrettiziamente, come appunto è avvenuto col dibattito sulla Turchia.

Il vecchio e ambizioso modello federale oggi è non solo scolorito, ma più o meno inconsapevolmente, procediamo verso il suo rovesciamento.Verso un'Unione intesa come un grande spazio di libero commercio, una zona di libero scambio come quella che gli Stati Uniti hanno realizzato con un paese avanzato come il Canada e uno in via di sviluppo come il Messico, in attesa di aggiungervi altri paesi del subcontinente.

La minaccia all'integrazione europea non sta nella promessa dell'allargamento alla Turchia, ma nell'equivoco che oggi sovrasta l'Unione, nell'incertezza tra un'originale comunità di Stati, e uno spazio in espansione a bassa intensità di coesione interna. Non si tratta nemmeno di un equivoco subdolamente mascherato. E' l'obiettivo della Gran Bretagna che non accetta l'euro, né una politica fiscale o sociale comune. Che pensa all'Unione come uno spazio governato dalla concorrenza interna, basata sui modelli economici e sociali di segno neoliberista. E' la via anglosassone alla globalizzazione.

Questo dilemma è presente oggi in Europa. Si deve sciogliere ben prima che entri la Turchia. L'allargamento non può essere più fermato. Ma un'Unione in espansione ha sempre più bisogno di articolazioni interne. Di un centro motore, comunque lo si definisca. Una comunità ha bisogno di una politica economica e non solo di una moneta unica, di una politica industriale e della ricerca, di un modello di coesione sociale. La soluzione non sta nell'imporre regole eccezionali ai paesi che chiedono di entrare, ma nel costruire un nucleo forte interno. La si definisca come si vuole: Europa a più cerchi o a più velocità. Ma si tratta di dare un'anima alle istituzioni, che non possono funzionare come meccanismi astratti, offrendo ai cittadini europei un progetto di politiche concrete. In mancanza del quale non possono che crescere scetticismo e sfiducia insieme con nuovi etnocentrismi e conflitti sostanziali, insieme con lo scadimento delle istituzioni.

Un nucleo centrale, fondato su una scelta sostanziale di cooperazione rafforzata può essere formato in prima istanza dai paesi dell'euro. L'Italia dovrebbe tornare a giocare le sue carte insieme con Francia, Germania, Spagna e quanti altri vorranno farne parte, all'interno ma anche oltre l'area dell'euro. Ma non sarà certamente il governo Berlusconi a farlo. Anche in questo d'accordo con l'America di Bush, ha continuato a spingere per l'entrata della Turchia, ma puntando sull'altro disegno, quello di una grande periferia dell'impero americano.

Al centro-sinistra, in particolare a Prodi, per la sua stessa esperienza, dovrebbe spettare il compito di definire il ruolo dell'Italia in un rinnovato disegno europeo.

Venerdì, 17. Dicembre 2004
 

SOCIAL

 

CONTATTI