Quando Theresa May improvvisamente convocò le elezioni generali per l’8 di giugno, la scelta apparve sorprendente. Si era ad appena un anno dal referendum che aveva dato la maggioranza ai Brexiters, coloro che volevano uscire dall’Unione europea. Il governo disponeva di una maggioranza esigua (17 voti) ma sufficiente per governare fino al 2020. Dopo le elezioni con 318 seggi non ha più la maggiorana necessaria di 326 seggi, e si accinge a formare un governo di minoranza, puntando sull’appoggio del DUP, il Partito unionista democratico dell’Irlanda del Nord che, disponendo di dieci seggi nella Camera dei Comuni, potrà garantire la tenuta del governo conservatore.
La domanda è come sia stato possibile che Theresa May, una politica con venti anni di esperienza parlamentare e per molti anni a capo del dicastero degli affari interni prima di essere nominata primo ministro nel 2016, abbia potuto compiere un errore di valutazione così grossolano, come avventurarsi in una prova elettorale non necessaria che le ha tolto la maggioranza di cui godeva. Il fatto è che lo stesso errore è stato compiuto dalla grande massa degli analisti politici e dai media britannici. Fino a due settimane prima della scadenza elettorale, il Partito laburista era considerato spacciato. E Jeremy Corbyn sembrava aver inciso il suo nome sulla pietra tombale del partito. Ancora qualche giorno prima della prova elettorale, un esponente dell’ala parlamentare del Partito laburista aveva confessato al Financial Times: sarà un “massacro”, e ovviamente si riferiva al proprio partito.
Senonché il massacro laburista non si è verificato. Il partito guidato da Corbyn, di cui in tanti si chiedevano quando avrebbe gettato la spugna come un pugile suonato, ha ottenuto uno dei migliori risultati della storia del Labour, guadagnando il 40 per cento del voto popolare, due in meno del Partito conservatore e dieci in più del partito guidato da Miliband alle elezioni del 2015. Il sistema elettorale ne limita il numero dei seggi conquistati a 261, che gli impediscono di concorrere alla formazione del governo, ma sono pur sempre una trentina di seggi in più di quelli guadagnati dal Partito laburista nelle tornate elettorali del 2010 e del 2015.
L’aspetto più sorprendente non è tanto, o non è solo, in questo plateale rovesciamento delle previsioni. Vi è una questione di sostanza. Anzi due. La prima è che Corbyn aveva rovesciato la posizione del Partito laburista rispetto al rapporto del Regno Unito con l’Unione europea. Aveva dovuto sostenere la posizione del “Remain” nel referendum dell’estate del 2016, come imponeva la grande maggioranza dell’ala parlamentare del partito, pur non essendone convinto. Ma dopo la sconfitta referendaria, posto di fronte
alla nuova sfida elettorale voluta da Theresa May, non aveva esitato. La Gran Bretagna si era espressa democraticamente per la Brexit, e il partito laburista doveva prenderne atto. A suo avviso, non era più in gioco la decisone di uscire, ma piuttosto le modalità e, per alcuni aspetti, i contenuti del negoziato con le istituzioni europee.
Una svolta radicale, e per molti versi rischiosa. In ogni caso una svolta insufficiente a mutare le sorti elettorali del partito laburista, dal momento che il campo della Brexit era stato già arato e ampiamente occupato dai conservatori. Ci voleva altro per ridare senso alla battaglia elettorale del partito. La scelta della Brexit era in realtà una premessa, la cornice necessaria ma non sufficiente di una generale svolta politica e programmatica del Partito laburista.
Chi ha avuto la pazienza di leggere il Manifesto elettorale del Partito laburista non poteva non rimanere stupito dinanzi a un programma limpidamente di sinistra, come in Gran Bretagna non si erano più visto dal tempo di Michael Foot nei primi anni della lunga era tatcheriana. La destra del partito aveva ferocemente attaccato il programma di Corbyn, giudicandolo un residuato novecentesco, non a caso espressione di un vecchio leader socialista da sempre all’opposizione del New Labour.
Nel Manifesto programmatico si potevano leggere alcuni obiettivi dimenticati dalla sinistra come quelli che seguono: l’aumento delle tasse sui redditi superiori a 80 mila sterline l’anno; investimenti pubblici per 240 miliardi di sterline in un decennio; una banca pubblica a sostegno degli investimenti delle piccole e medie imprese; la nazionalizzazione, alla scadenza delle concessioni, delle ferrovie privatizzate da Margaret Thatcher, definitivamente le più inefficienti in Europa; il rifinanziamento del servizio sanitario pubblico, antico fiore all’occhiello della storia politica laburista del dopo-guerra, ridotto da una sequenza di governi conservatori e laburisti degli ultimi decenni sull’orlo della bancarotta; un riassetto della parte pubblica del sistema pensionistico; l’eliminazione delle esose tasse universitarie diventate un’odiosa misura di discriminazione sociale nei confronti di una parte importante delle nuove generazioni provenienti da famiglie operaie e dei ceti medi.
Nell’insieme, una piattaforma difficilmente definibile estremista, se non per ragioni strettamente ideologiche. Ma con un difetto radicale: Il New Labour di Blair aveva rinunciato a quegli obiettivi esattamente venti anni fa in nome del “Nuovo centro” che tanto successo avrebbe avuto in tutta l’Europa continentale. Non è un caso che tornare a una politica vagamente keynesiana di intervento pubblico nel campo degli investimenti e di sostegno dei pilastri fondamentali del welfare come la sanità e l’istruzione, venga considerato un rigurgito di novecentismo.
Ma fin qui siamo nell’ambito di una più o meno aspra dialettica politica interna. La novità dirompente della piattaforma del partito laburista di Corbyn è nella sua estraneità alla filosofia politica che guida l’Unione europea: l’intervento pubblico diretto dal lato degli investimenti, le nazionalizzazioni nei casi di palese inefficienza del privato, la progressività delle tasse a carico dei ceti abbienti; il finanziamento del welfare come sostegno alla cittadinanza. In una parola, il ripudio ella politica di austerità, come dire, la violazione dei sacri principi del fondamentalismo di mercato alla base della politica dell’Unione europea.
In una sintesi estrema, la novità audace e rischiosa e fino a qualche settimana fa considerata suicida per il Partito laburista di Corbyn non sta solo nell’aver condiviso la Brexit in ossequio a una scelta democratica popolare, ma nell’aver conferito un inequivocabile segno di sinistra – di una sinistra ragionevole e, per ciò stesso, radicale – alla scelta della Brexit. Una scelta finora praticata dai conservatori e dall’UKIP di Farage in Gran Bretagna, da una destra nazionalista come nel caso del Fronte nazionale di Marine Le Pen in Francia, o dalla Lega di Salvini in Italia. Ora, con l’inatteso e sorprendente successo del Partito laburista di Corbyn la Brexit assume un inequivocabile significato di sinistra.
Molte cose ancora possono accadere. E’ probabile che Theresa May, uscita sconfitta dalla prova elettorale che aveva voluto, senza che fosse necessaria, debba cedere, dopo un breve periodo, la leadership a un altro esponente del partito: in questo caso, molto probabilmente a Boris Johnson, ex sindaco di successo di Londra e oggi ministro degli Esteri. Inoltre, un nuovo accento potrà avere il negoziato con le istituzioni europee per la Brexit, per una doppia circostanza: la prima è che più dell’80 per cento degli elettori britannici ha votato per i partiti formalmente schierati per l’uscita dall’UE, ben al di là del precedente esito referendario.
La seconda è che il Partito laburista si spenderà per un negoziato il più possibile soft, sia pure vincolato al raggiungimento degli obiettivi essenziali della Brexit. A questo punto sarà difficile per i falchi di Bruxelles e di alcune altre capitali europee insistere nella grottesca pretesa di infliggere una punizione alla Gran Bretagna, per scongiurare il pericolo che il suo esempio possa instillare il germe del contagio nell’eurozona lacerata dalla stagnazione economica e dalla disoccupazione di massa.
Il futuro può avere molti risvolti, come indica il fatto che viviamo in un’epoca nella quale gli “imprevisti” sono diventati eventi sempre più probabili. Ma il risultato britannico dell’incipiente estate del 2017 ci lascia una inequivocabile certezza. I partiti del tipico centrosinistra europeo sono stati spazzati via l’uno dopo l’altro. Tutte le prove elettorali si sono dimostrate per loro una ghigliottina inesorabile.
In Austria , il partito socialista con oltre un secolo di storia e di partecipazione al governo è scomparso dalla scena politica. La stessa cosa si è verificata in Olanda, dove, con le lezioni di metà marzo, del Partito socialista si sono perdute le tracce. Altre sconfitte si erano abbattute sulle vecchie socialdemocrazie europee: dal caso del Pasok in Grecia, a sua volta dissolto dopo la pluridecennale dinastia dei Papandreou, alla sconfitta del Psoe in Spagna, ridotto ad appoggiare il traballante governo di minoranza di Rajoy, dopo essere stato il partito più lungamente al governo nel corso dell’era post-franchista. Una deriva inarrestabile della sinistra europea diventata un disastroso naufragio con la dissoluzione del Partito socialista francese ridotto al sei per cento del voto dopo la debacle della presidenza di François Hollande.
Sotto questo profilo, la rinascita del Partito laburista britannico all’insegna di Corbyn segna una novità importante non solo al di là della Manica, dove era nata l’infausta Terza via di Giddens e Tony Blair. L’inatteso successo del Partito laburista è (o potrebbe essere ) una lezione e una boccata di ossigeno per la sinistra (non per quella che si vergogna di essere tale ) nell’Europa continentale. Il Manifesto programmatico laburista, la salda coraggiosa coerenza della leadership di Corbyn, il suo successo fra i giovani, fra gli operai e in una grande parte dei ceti medi meritano di essere analizzati, approfonditi e presi ad esempio. Nella strategia del vecchio leader socialista inglese non c’è niente di rivoluzionario. E’ solo una strategia politica di sinistra. Ragionevolmente di sinistra.