La sorprendente lezione tedesca

L'annunciata vittoria dei conservatori non c'è stata perché i tedeschi, pur scontenti delle riforme di Schroeder, ancor meno volevano quelle annunciate dalla Merkel. Ora lo scenario è complicato e non si può escludere che sfoci in nuove elezioni
I risultati delle elezioni tedesche hanno creato turbamento e un'angosciata delusione nella stampa conservatrice europea. Il risultato doveva segnare una svolta non solo per la Germania, ma anche un esempio per tutta l'Europa con la fine dell'illusione socialdemocratica e la vittoria di un centrodestra votato a percorrere i sentieri rassicuranti del modello anglosassone. Ma i risultati hanno rovesciato tutti i pronostici.
 
Com'è potuto succedere? L'analisi dei comportamenti elettorali è spesso complessa e sfuggente. Ma, a ben guardare, non lo è in questo caso. La Germania era pronta a votare per l'opposizione e per un nuovo governo, come aveva dimostrato in tutte le elezioni regionali degli ultimi due anni che avevano visto un inesorabile arretramento della socialdemocrazia al governo. La vittoria per il centro-destra era a portata di mano. Ma con l'avanzare della compagna elettorale, Angela Merkel veniva annunciando un programma sempre più dissonante dalla tradizione tedesca e dalla stessa tradizione democristiana.
 
Tra gaffe e parziali marce indietro, la Merkel metteva in programma la riduzione delle imposte dirette fino all'adozione di un'imposta unica del 25 per cento, a vantaggio dei ceti più ricchi, e contemporaneamente l'aumento di due punti dell'Iva che grava sulle fasce più deboli; un'aliquota contributiva unica, sganciata dal salario, per il finanziamento della sanità; l'estensione della libertà di licenziamento senza giusta causa; la facoltà delle imprese di uscire dalla contrattazione collettiva settoriale…E, scusate, se è poco. Aggiungendovi, per buona misura, un capovolgimento dei rapporti con l'amministrazione Bush, come se la guerra in Iraq non si fosse rivelata un immane disastro, e il rifiuto di parteciparvi, la scelta più giusta di Schroeder e Fisher degli ultimi anni.
 
Come una politica di questo tipo avrebbe dovuto rilanciare l'economia tedesca e ridurre la disoccupazione non è stato spiegato, se non attraverso il prisma ideologico del miracolismo neoliberistico. Tutta la politica di Schroeder del secondo mandato era stata improntata a una linea di riforme - come si dice - strutturali. Le aliquote fiscali erano state ridotte. I salari contenuti, mentre si flessibilizzavano e allungavano gli orari di lavoro; le indennità di disoccupazione ridotte a un anno e condizionate all'accettazione di offerte di lavoro anche meno remunerate. Tutto ciò gli era valso un duro confronto interno alla SPD sfociato poi nella secessione guidata da Lafontaine, in combinazione con il PDS finora radicato solo nei lander dell'Est. Intanto aumentavano la produttività, i profitti e la competitività dell'industria tedesca, consentendo alla Germania di consolidare la sua posizione come prima potenza esportatrice del mondo.
 
Il problema continua a essere per la Germania quello di un'unificazione incompiuta, con all'est il 20 per cento di disoccupati. Mentre a questo si aggiunge una permanente stagnazione della domanda interna, che le esportazioni da sole non possono compensare. Se vi era un errore nella politica del governo rosso-verde non era nella rigidità del mercato del lavoro e dei salari, ma nella rigidità della politica macroeconomica: i tassi d'interesse reali della BCE stabilmente alti rispetto a un'inflazione vicino allo zero; un cambio sul dollaro intollerabilmente cresciuto, che costringeva a contenere i salari e ridurre l'occupazione; una politica di bilancio non manovrabile, salvo constatare ex post l'aumento del disavanzo,  come inevitabile conseguenza della stagnazione economica.
 
In ogni caso, giuste o sbagliate che fossero le riforme, con cinque milioni di disoccupati e una lunga stagnazione alle spalle, Schroeder appariva destinato a un'irreparabile sconfitta. Ma ha avuto la fortuna di incontrare un centrodestra privo d'immaginazione, spudoratamente incline a sposare le ricette dei circoli finanziari e bancari. Angela Merkel, per la quale la destra europea auspicava un futuro alla Thatcher - o, come ha scritto ineffabilmente  Dahrendorf, una Thatcher col volto di Blair - ha voluto strafare, avventurandosi su un terreno che non appartiene alla tradizione solidaristica tedesca, procurando alla CDU uno dei peggiori risultati elettorali dell'ultimo mezzo secolo.
 
E ora? In altri paesi europei, i partiti socialdemocratici non esitano ad allearsi con la sinistra radicale per formare una maggioranza di governo. In questo caso, un governo rosso-rosso- verde avrebbe una maggioranza più che confortevole. Ma le ferite della secessione e lo scontro tra le persone sono troppo recenti e profonde per consentire questa maggioranza. Rimane sulla scena la grande coalizione, un'esperienza che risale alla fine degli anni 60. Ma è del tutto improbabile vedere Schroeder, al culmine di una trionfale rimonta che lo ha portato a meno di un punto dalla CDU, dopo essere partito con 21 punti di distacco, cedere la cancelleria alla Merkel e ritirarsi dalla vita politica.
La grande coalizione potrebbe realizzarsi sotto la sua leadership. Ma per ragioni simmetricamente contrarie anche questa soluzione appare irrealistica.
 
Dopo un vano tentativo della Merkel, la crisi di governo potrebbe rivelarsi senza soluzione, la palla tornare nel campo di Schroeder, incaricato di gestire l'ordinaria amministrazione e preparare nuove elezioni. Sarebbe una sorta di secondo turno. Avremmo allora la prova del nove. Potrebbe essere definitivamente chiaro che il modello neoliberista non è fatto per la Germania, e in definitiva nemmeno per l'Unione europea, di cui la Germania rimane il motore centrale.
 
Certo, tutto questo agita le cancellerie di Londra e di Washington che puntavano su un ben altro risultato. Potrà non piacere, ma non si può dire che gli elettori tedeschi abbiano votato senza cognizione di causa. L'elettorato tedesco ha onorato al meglio la trasparenza democratica di un voto che fa riferimento ai programmi, e non agli impulsi emotivi. Con grande delusione della destra neofondamentalista, il "modello renano" non è stato mandato in soffitta dalle sirene neoliberiste. Anche questa è una lezione per l'Europa.
Martedì, 20. Settembre 2005
 

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