La solitudine del lavoratore

Dove stiamo andando/6 - Paure, ansie, afflizioni di quest’epoca non riescono a sommarsi, a cumularsi in una causa comune capace di correggere il corso delle cose. Questo depriva la politica sindacale solidaristica di gran parte della sua capacità di aggregazione e di mobilitazione. Il rischio è che prenda piede un disincanto che va di pari passo con la delusione e la sfiducia sulla possibilità di soluzioni democratiche ai problemi
(Sesto articolo di una serie – il primo – il secondo – il terzo – il quarto - il quinto)
 
facile capire perché la modernità propria dello sviluppo industriale abbia coinciso con l’epoca dei grandi capitalisti e la nascita del “proletariato industriale”. Ed anche perché essa sia stata costruita sul legame tra capitale e lavoro, fortificato dalla reciprocità della loro dipendenza. In effetti, la sopravvivenza dei lavoratori dipendeva dall’avere un lavoro. A sua volta la accumulazione e riproduzione del capitale dipendeva dalla capacità di impiegare mano d’opera. Per di più, il loro punto di incontro aveva un indirizzo stabile. Anche perché nessuno dei due poteva trasferirsi facilmente altrove. Per questo motivo le massicce mura delle fabbriche stringevano i partner in una sorta di prigione comune. Lo stabilimento era la casa di entrambi ed, al contempo, il campo di battaglia per una guerra di trincea.

 

Ad obbligare al faccia a faccia capitale e lavoro ed a legarli in qualche modo l’uno all’altro era la necessità di trovare una conciliazione nella compravendita. Una transazione nella quale i proprietari del capitale dovevano essere costantemente in grado di comprare lavoro ed i proprietari del lavoro dovevano  essere disponibili e stare all’erta. Cercare cioè di essere possibilmente sani, forti ed in condizione da non scoraggiare i potenziali acquirenti. Ciascuna parte aveva i propri interessi nel tenere l’altra in buona forma.

 

Non sorprende quindi che, in quella stagione, la “mercificazione” del capitale e del lavoro sia diventata la principale funzione e preoccupazione della politica e quindi dello Stato. Questi era infatti chiamato a provvedere a che i capitalisti fossero in grado di acquistare il lavoro e pagare il prezzo stabilito e che i lavoratori fossero alfabetizzati ed in relativa forma fisica. Pronti ad essere impiegati tutte le volte che se ne sarebbe manifestata la necessità. Perciò lo Stato assistenziale, vale a dire uno Stato dedito appunto ad assolvere questa funzione, serviva tanto alle aziende che ai lavoratori. Perché si trattava di un sostegno senza il quale né il capitale né il lavoro avrebbero potuto restare vivi e tanto meno crescere.

 

Naturalmente all’inizio alcuni considerarono lo “Stato Sociale” una misura temporanea. Destinata a sparire una volta che l’assicurazione collettiva contro le disgrazie avesse reso l’assicurato abbastanza audace e dotato di risorse da sviluppare appieno il proprio potenziale. O anche di trovare il coraggio di affrontare i rischi necessari per riuscire a reggere sulle sue gambe. Osservatori più scettici hanno invece visto nello Stato sociale un servizio sanitario finanziato e gestito collettivamente. Una operazione igienico-sanitaria da portare avanti almeno fino a quando l’iniziativa capitalista avesse continuato a generare spreco di risorse umane e sociali. Spreco che però questa non aveva le intenzioni, ed in alcuni casi nemmeno i mezzi, per riciclare. Il che significava per un lungo tempo. Tuttavia tutti (più o meno) concordavano sul fatto che lo Stato assistenziale fosse uno strumento volto a fronteggiare le anomalie. Ad evitare cioè le deviazioni dalla norma. Impegnandosi ad alleviarne le conseguenze qualora queste si fossero verificate. In effetti la concezione mai contestata, se non da minoranze eccentriche ed irrilevanti, era di favorire un funzionale rapporto reciproco tra capitale lavoro. Cercando di risolvere le più importanti e fastidiose questioni sociali che potevano insorgere nell’ambito di tale rapporto.

 

In questo contesto l’aspetto da tenere presente è che l’orizzonte temporale nella fase del capitalismo industriale era quello di lungo periodo. Per i lavoratori tale orizzonte derivava dalla prospettiva di un impiego a vita nella stessa azienda. Azienda che, seppure non considerata immortale, poteva comunque contare su un ciclo vitale stimato in generazioni. Per i capitalisti il “gioiello di famiglia”, destinato a durare oltre l’arco di vita dei suoi stessi fondatori, era incarnato soprattutto dalle fabbriche che venivano costruite e che entravano nell’asse ereditario, insieme al resto del patrimonio personale accumulato. Per farla breve: la mentalità “a lungo termine” nasceva dall’esperienza comune. Cioè dalla constatazione che i destini di chi comprava e di chi vendeva il lavoro fossero strettamente ed inseparabilmente interconnessi. E poiché si riteneva che lo sarebbero rimasti per lunghissimo tempo, diventava realistico ritenere che elaborare un modo di coabitazione sopportabile fosse “nell’interesse di tutti”. Come, in definitiva, lo era la negoziazione di regole di convivenza civile tra gli inquilini di uno stesso stabile. Naturalmente, perché quella esperienza riuscisse a mettere robuste radici è stato necessario un discreto lasso di tempo. Secondo alcuni storici, solo dopo la seconda guerra mondiale l’originario disordine del capitalismo ha potuto essere sostituito (almeno nelle economie più avanzate) da grandi aziende, forti sindacati, serie garanzie dello Stato sociale. Che, messe insieme, hanno costituito un fattore di sufficiente relativa stabilità.

 

Stabilità che non escludeva certo una continua dialettica e la conseguente conflittualità. Che, a sua volta, era resa possibile e persino “funzionale” dal fatto che, nel bene e nel male, gli antagonisti erano consapevoli di essere legati gli uni agli altri da reciproca dipendenza. In effetti,  gli scontri anche aspri, le prove di forza ed i susseguenti negoziati, in una certa misura, hanno rafforzato le due controparti. Per la semplice ragione che nessuna di esse poteva permettersi di andarsene per la propria strada. Entrambe sapevano infatti che la loro sopravvivenza dipendeva dalla capacità di trovare un compromesso. Cioè soluzioni accettabili per tutti. Questo spiega  perché, fin tanto si è ritenuto che quel reciproco stare insieme era destinato a durare, le regole di integrazione-coabitazione siano state il centro di intensi negoziati. A volte di acrimonia, scontri e rese dei conti. Altre volte di tregue e di compromessi. Questa dinamica, seppure tra alti e bassi, ha  comunque consentito ai sindacati di trasformare l’impotenza dei singoli lavoratori in un potere di contrattazione collettivo. E di battersi, con alterni successi, per correggere normative penalizzanti i diritti dei lavoratori e per contrastare la pretesa libertà di manovra dei datori di lavoro nella determinazione delle condizioni di lavoro e dei trattamenti retributivi.

 

Oggi, questa situazione è radicalmente mutata. Addirittura capovolta. Il principale ingrediente del processo di cambiamento in atto è infatti la nuova mentalità a “breve termine”. Che ha sostituito quella precedente a “lungo termine”. Così sta avvenendo nel campo del lavoro, come in tanti altri aspetti della vita sociale. Persino i matrimoni “finché morte non ci separi” tendono ad andare fuori moda. Tra le nuove generazioni incominciano infatti a risultare una rarità. E’ comunque in diminuzione il numero di coppie impegnate a tenersi compagnia per sempre. Non stupisce quindi che la stessa sorte si sia riflessa anche sul lavoro.

 

Secondo stime recenti, un giovane americano, con un livello di istruzione medio, si aspetta di cambiare lavoro almeno 11 volte nel corso della sua vita lavorativa. Con ogni probabilità questa frequenza è destinata a crescere prima che il ciclo lavorativo dell’attuale generazione sia terminato. Non a caso, “flessibilità” è diventata la parola d’ordine più gettonata. E quando essa viene applicata al mercato del lavoro preannuncia la fine del lavoro come è stato inteso e vissuto dalle generazioni precedenti. In concreto essa annuncia l’avvento del lavoro intermittente, con contratti a termine, falsamente autonomo, privo di qualsiasi sicurezza, regolato fondamentalmente dalla clausola “fino ad ulteriori comunicazioni”. La vita lavorativa è perciò sempre più caratterizzata dall’insicurezza.

 

Si può ovviamente cercare di minimizzare questo stato di cose osservando che la storia dell’umanità è stata largamente costruita sull’incertezza. Non ci sarebbe quindi nulla di radicalmente nuovo. In una certa misura questo può essere vero. Tuttavia non si può non rendersi conto che l’incertezza odierna è di tipo completamente nuovo. I costi umani, i tipi di disastri che possono rovinare la vita di una persona, non sono della specie che si può contrastare, respingere, alleandosi con altri che si trovavo nella medesima condizione. Cioè cercando di unire le forze e di adottare misure  concordate ed appropriate, con il proposito di neutralizzare le conseguenze più insopportabili. Anche perché oggi i peggiori disastri colpiscono per lo più alla cieca. Tant’è vero che le loro vittime sono spesso il frutto di una logica incomprensibile. Non a caso non sembra esistere alcun modo concreto per prevedere chi sarà condannato e chi invece si salverà. Questo spiega perché l’odierna insicurezza spinge in modo irrefrenabile all’individualizzazione. La ragione è semplice: essa divide, anziché unire. E proprio perché non è possibile sapere chi domani si sveglierà in una situazione insopportabile, l’idea di “interessi comuni” diventa sempre più nebulosa. Tende a perdere significati concreti, percettibili. La periodica esplosione di proteste e ribellioni da parte di questa o quella categoria, di questa o quella corporazione (in difesa di interessi particolari) non cambia assolutamente i termini della situazione del lavoro dipendente.

 

Perciò, per il lavoro paure, ansie, afflizioni di quest’epoca sono diventate situazioni che si vivono sempre di più in solitudine. Esse non riescono infatti a sommarsi, a cumularsi in una causa comune capace di correggere il corso delle cose. Questo depriva la politica sindacale solidaristica, che tanto ha contribuito al miglioramento delle condizioni dei lavoratori, di gran parte della sua capacità di aggregazione e di mobilitazione. Ma, con il venire meno del pilastro della solidarietà fondato sulla convinzione di un  destino condiviso, il rischio è quello che prenda piede un disincanto che va di pari passo con la delusione e persino la sfiducia circa l’esistenza e la possibilità di soluzioni democratiche ai problemi.

 

In ogni caso, il dato con cui ci si deve confrontare è che la società industriale, quale l’avevamo conosciuta nel secolo scorso, ha  ormai concluso la sua parabola. Con la sua estinzione anche lo stesso concetto di lavoro oggi assume un significato profondamente diverso dal passato. Le ragioni di questa trasmutazione sono molteplici e chiamano in causa diversi fattori. Compresa l’antropologia culturale. Ma, volendo rimanere ai semplici elementi di fatto, uno dei motivi di fondo del cambiamento in atto é che siamo passati dalla “società dei produttori” (nella quale i profitti derivavano in primo luogo dalla quantità di lavoro dipendente impiegato), alla società dei “consumatori” (nella quale i profitti vengono invece soprattutto dallo sfruttamento dei desideri dei consumatori). In sostanza è intervenuto un mutamento radicale nel modo di essere della maggior parte delle imprese. La cui funzione è sempre meno quella di rispondere a domande reali, quanto piuttosto quella di suscitare desideri.

 

Detto altrimenti, una delle novità con le quali siamo alle prese, consiste nel fatto che mentre la società industriale funzionava sulla base del presupposto che l’offerta doveva corrispondere ad una domanda reale, ora si ritiene invece che sia compito dell’offerta suscitare la domanda. E questo rovesciamento, questa filosofia di business, viene applicata a qualsiasi cosa venga prodotta. Dai beni di consumo, come da quelli finanziari. I prestiti perciò non fanno eccezione. Al punto che la società dei “consumatori”, nel giro di pochissimi decenni, si è trasformata nella società dei “debitori”. Infatti, fino alla esplosione della crisi finanziaria, l’offerta di credito serviva anche a creare ulteriore bisogno (e domanda) di credito. Poco importa se per fare speculazioni, od acquisti a rate di beni anche oltre le proprie disponibilità di reddito. Il risultato comunque è stato che la formazione prima e lo scoppio della “bolla” finanziaria poi sono state il prodotto di questa dinamica.

 

Agli aspetti derivanti dai cambiamenti intervenuti sul piano economico e sociale, si è aggiunto lo sconquasso provocato dalle scelte scriteriate della politica. Che, per quasi un trentennio, è stata ottenebrata da una sbornia ideologica fondata sul “liberismo” e sulla “deregolazione economica e finanziaria”. Quelle scelte dissennate ed avventuriste hanno pesantemente influito, tra l’altro, sul conto salato che siamo ora chiamati a pagare. Conto che include le conseguenze sia del “lavoro che cambia” che del “lavoro che manca”. Ci ritroviamo quindi nella situazione che Hannah Arendt aveva previsto già mezzo secolo fa. Con la formula profetica: “Alla società del lavoro viene a mancare il lavoro”. Nel senso tanto del significato, che della quantità del lavoro disponibile. Per altro, la Arendt interpretava giustamente questo sviluppo come una sorta di ironia della storia. Ironia riconducibile al fatto che nel più lontano passato nella società occidentale al lavoro era riconosciuto un valore minimo, in quanto gli si preferivano un mucchio di altre attività considerate più utili e sensate. Come: l’agire politico, la creazione artistica o la produzione artigianale. Con le quali, oltre tutto, potevano essere creati valori ed oggetti destinati a durare. Mentre, dopo che il lavoro dipendente ha incominciato ad assumere un significato preminente di appartenenza di identità, esso ha anche iniziato a diventare più rarefatto. Sia in termini di significato che di possibilità concrete di accedervi. Per di più con il passaggio dalla società “solida” a quella “liquida” (secondo la definizione di  Zygmunt Bauman), con la cultura dell’ “usa e getta”, il lavoro ha cominciato a cancellare immediatamente sé stesso nel consumo del proprio prodotto. E, poiché il lavoro dipendente ha pure iniziato a diradarsi (basti pensare ai tanti che vorrebbero lavorare, ma non riescono a farlo), la “società del lavoro” non ha più saputo che fare di sé stessa. Questo spiega perché la “società del lavoro stabile e retribuito”, predicata e promessa nel secolo scorso, sia diventata sempre meno credibile. E’ diventata meno verosimile per la decisiva ragione che il lavoro “stabile e retribuito” è da tempo in continua ed  inesorabile decrescita.

(segue)
Sabato, 11. Agosto 2012
 

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