La rivolta francese ha qualcosa da insegnare

Sociologi e politici di tutto il mondo sono alle prese con schemi interpretativi fuori uso. Ma alla "separazione" delle periferie, che può trasformarsi in aggressività, domani forse anche in Italia, non basta rispondere con "legge e ordine"
Sociologi e politici di tutto il mondo si affannano per capire cosa sta veramente succedendo nelle banlieues francesi. I tradizionali schemi interpretativi si rivelano fuori uso. I giovani, spesso soltanto ragazzi, in rivolta che hanno incendiato migliaia di macchine, attaccato scuole e distrutto i luoghi del vivere collettivo dei loro stessi quartieri, non sono nuovi immigrati, non sono stati educati nelle moschee, non conoscono Bin Laden e le strategie del terrore, non sono affascinati, come nel 68, dalle ideologie palingenetiche marcusiane. Si tratta di ragazzi che sono cittadini francesi e che, in teoria, godono degli stessi diritti dei loro coetanei di pelle chiara.
 
Ma proprio questa pretesa tipica del modello d’integrazione francese - la presunzione di negare le differenze di razza, di etnia, di religione - è considerata da una larga parte della stampa anglosassone la principale causa della rivolta. Meglio, insomma, il riconoscimento delle diversità culturali e delle diverse comunità di origine.
 
Certo, l’eguaglianza formale della cittadinanza proclamata dal modello illuminista francese si rivela ipocritamente illusoria. Per non parlare dell’inutile arroganza che pretende di vietare il velo alle ragazze musulmane, non ancora pronte a liberarsene spontaneamente o in opposizione alle tradizioni familiari, sempre dure a morire. Ma la causa della rivolta è difficilmente riconducibile all’astrattezza del modello di cittadinanza. Semmai il problema è quello di una cittadinanza incompiuta, dell’oscuramento dei diritti sociali, del fallimento della scuola a intervenire efficacemente nei percorsi tortuosi dell’emarginazione, nella disoccupazione di massa dei giovani delle periferie, nel deperimento dello Stato sociale.
 
E poi chi l’ha detto che il riconoscimento delle differenze e l’aggregazione per gruppi etnici e culturalmente omogenei scongiurano la frustrazione, la protesta e le rivolte giovanili? La concentrazione del malessere nelle zone ghettizzate delle periferie, o dei vecchi centri urbani degradati, funge da polveriera pronta ad esplodere anche per un innesco apparentemente casuale, come la morte dei due ragazzi di Clichy, inseguiti dalla polizia e folgorati in una cabina elettrica. Ma il riconoscimento delle differenze etniche, del colore, delle tradizioni, delle confessioni non ha impedito le rivolte di Brixton, di Birmingham, di Watts a Los Angeles. Nei vecchi centri delle città americane, l’aggregazione comunitaria non ha risolto i problemi della disgregazione sociale, dell’estraneazione giovanile, dell’organizzazione per bande di quartiere. Nessuno vorrebbe trovarsi a circolare nei ghetti neri di Washington otre il tramonto. E i sindaci neri di Detroit non hanno esitato a proclamare lunghi periodi coprifuoco per i ragazzi al di sotto di 18 anni.
 
Vi è una rottura della comunicazione fra i mondi ghettizzati e le istituzioni che cova all’ombra dell’indifferenza politica e mediatica,  fin quando non esplode e diventa un evento da prima pagina. “Bisogna guarire questa Francia ferita che paga il prezzo della disoccupazione e dell’esclusione…Queste difficoltà, questi drammi, questa frattura sociale, che minaccia di allargarsi in una frattura urbana, etnica e talvolta religiosa, non sono il frutto della fatalità”. Ben detto. A pronunciare queste parole era Chirac. Ma tra le affermazioni e la realtà non c’è rapporto.
 
La frattura sociale si mostra oggi come frattura urbana, tra i centri delle città splendenti di ricchezze e le periferie dei quartieri dormitorio. Come frattura della scuola, la cui selezione è stupidamente scontata in partenza a danno dei ragazzi esposti all’emarginazione, dei quali le famiglie possono prendersi scarso o nessun impegno educativo. Frattura che diventa esplosiva nella mancanza di lavoro con una disoccupazione endemica che può toccare il 50 per cento, e che lascia i ragazzi sospesi fra un presente senza radici e un futuro senza speranza.
 
Quando la rottura urbana si approfondisce e la protesta diventa endemica, il rimedio che raccoglie il più vasto consenso, non solo nelle classi benestanti che vivono nei quartieri alti, ma anche negli strati più deboli della popolazione, è “legge e ordine”. Allora la legalità diventa il principio regolatore e salvifico. Nelle banlieues i gendarmi sono autorizzati a eseguire sui giovani controlli ossessivi, fermi di polizia, maltrattamenti più o meno coperti per i quali Amnesty international denuncia l’assoluta impunità della polizia.
 
E’ nel fallimento della politica che Nicolas Sarkozy, ministro degli interni e candidato forte  alla presidenza della Repubblica nel 2007, annuncia che la “feccia” umana che incendia le periferie sarà spazzata via come si fa con gli insetti fastidiosi. E l’elegante Dominique de Villepin, primo ministro e anche lui concorrente alla presidenza della Repubblica, per non essere da meno, riesuma le leggi di emergenza del 1955, del  tempo della guerra d’Algeria, e per qualche giorno vede i sondaggi girare a proprio favore.
 
Ma il problema non riguarda solo la destra. Prima al governo c’era la sinistra, senza che i  temi della frattura urbana, dei fallimenti scolastici, della disoccupazione giovanile trovassero la centralità politica che dovrebbero avere nei paesi ricchi dell’occidente, dove la povertà e  l’emarginazione non possono trovare giustificazione nella concorrenza della Cina e dell’India, avendo piuttosto la loro origine nell’egoismo delle classi dirigenti e nella mancanza d’immaginazione politica e sociale dei governanti.
 
Può succedere anche in Italia? Non è questo un terreno per facili profezie. Ma certo in Italia non vi è una significativa immigrazione di seconda o terza generazione, com’è il caso francese e, in generale, dei paesi di tradizione imperiale, come la gran Bretagna o l’Olanda. I nostri conati di colonizzazione furono grottescamente tardivi e poveri di risultati. I nostri immigrati hanno le provenienze più diverse e, in buona misura, hanno finora trovato occasioni di accettabile convivenza, nel lavoro di cura per centinaia di migliaia di famiglie, occupazione alle dipendenze nelle regioni del centro e del nord a bassa disoccupazione, lavoro in autonomia.
 
Altre sono le cause del malessere giovanile nelle periferie urbane. Non il colore della pelle o la diversità etnica dei nomi. La somiglianza di una possibile miscela esplosiva sta nell’emarginazione sociale, nel fallimento scolastico, nella disoccupazione endemica, nella concentrazione di questi mali in aree urbane abbandonate al degrado. Tutte condizioni che spingono a cercare un’identità collettiva al di fuori delle ordinarie coordinate sociali e istituzionali, che si autoemargina e si alimenta della separazione anarchica e senza progetto. Una separazione che può diventare aggressiva e impaurire le classi benestanti come le più esposte alla marginalità.
 
Allora si ripropone con prepotenza la voglia, che sale dal basso, e l’offerta politica, che scende dall’alto, di “legge e ordine”, dove destra e sinistra si confondono, mentre i temi dei diritti sociali, dell’eguaglianza e della solidarietà sbiadiscono, e la frattura sociale si approfondisce, insieme col distacco dalla politica e dalle istituzioni. Si tratta di rischi presenti in tutte le grandi realtà urbane, e anche in Italia. Ma non sono fatali. La responsabilità della politica si misurerà sempre più su questi terreni. Ha fatto bene Prodi a richiamarne la centralità. Si tratta poi di tradurla in segmenti concreti di programma.
 
Lunedì, 14. Novembre 2005
 

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