La riforma costituzionale è figlia dell'Italicum

Non si può scindere, nel dibattito, il referendum dalla legge elettorale, perché se la riforma è stata disegnata in quel modo è stato proprio per tentare di evitare problemi di costituzionalità che quella legge poneva. In ogni caso, che vinca l'una o l'altra opzione si sarà spaccato il paese proprio su quello che invece dovrebbe unire

Una premessa è doverosa, per chiarezza nei confronti di chi legge. Voterò convintamente NO al referendum del 4/12. Sono altresì convinto che il confronto su questo tema debba essere approfondito, cercando di coinvolgere il maggior numero di cittadini, perché la Costituzione – la madre di tutte le leggi – merita di essere affrontata con la massima attenzione, e partecipazione. E il dibattito deve concentrarsi sul merito, badando a rispettare sempre la verità dei fatti.

Ciò premesso, il motivo che mi spinge a intervenire è che su un punto cruciale mi sembra che i sostenitori della riforma stiano usando un argomento che cozza con la verità dei fatti quanto al percorso con cui si è giunti alla riforma, o quanto meno la trascura o la dimentica. Pur tuttavia, lo sento ripetere ad ogni pie' sospinto, non solo dagli esponenti del SI ma perfino dai moderatori “neutrali”, quasi che si trattasse di un dato di fatto incontrovertibile. Mi riferisco alla tesi per cui se si parla di "combinato disposto", ossia del quadro che emerge dall’insieme di riforma e legge elettorale, si va fuori tema, giacché il referendum riguarda una legge costituzionale mentre l'Italicum, essendo legge ordinaria, può essere modificato in qualunque momento dall'assemblea legislativa.

Invece, se ripercorriamo la genesi di questa riforma ci accorgiamo che l'Italicum non è solo parte integrante della riforma ma è all'origine dei suoi contenuti più controversi. Ed ecco perché.

Partiamo dal compito che era stato affidato al Parlamento dopo lo stallo determinato dalla “non vittoria” nelle elezioni del 2013: cambiare, nel più breve tempo possibile, la legge elettorale, per cedere il passo a nuove elezioni (nel 2015, secondo l'ipotesi prevalente). Questo aveva detto il presidente Napolitano e il Parlamento aveva sottoscritto con applausi scroscianti.

Era anche d'accordo, quasi tutto il Parlamento, che l'abolizione incompleta delle Province dovesse essere accompagnata dalla loro cancellazione dal testo costituzionale e che il CNEL dovesse essere sciolto. Restava poi da affrontare il tema del titolo V, per il contenzioso cui aveva dato luogo: tema già più controverso, anche perché in gran parte risolto dai pronunciamenti della Consulta.

Mentre si ragionava, entro questi limiti, anche di ritocchi della Costituzione, andava avanti un dibattito più complesso, alla ricerca di una soluzione condivisa, sul tema di peso decisamente maggiore che riguardava il Senato e il bicameralismo perfetto. Quando è diventato imprescindibile questo tema, la riforma del Senato, fino ad assumere il posto centrale nella discussione sulla Costituzione, e perché? Per la doppia lettura (il ping-pong), per la velocità di decisione? Perché lo chiedevano i mercati (o l'Europa)? Nossignore: portare questi argomenti, oggi, a sostegno della decisione di mettere mano anche al bicameralismo perfetto significa fornire una ricostruzione della “volontà del legislatore” quanto meno fuorviante. È diventata centrale nel momento in cui si è incagliata la discussione sulla legge elettorale.

Il motivo era che il diverso elettorato attivo e il diverso meccanismo elettorale, previsti per il Senato in Costituzione, non avrebbero garantito di “conoscere la sera stessa delle elezioni il vincitore”: perché potevano prevalere due diverse maggioranze nei due rami del Parlamento, come era in effetti avvenuto nel 2013 ed altre volte in precedenza nella storia.

Ricostruisco i fatti, per rinfrescare la memoria: la legge elettorale inizia il suo iter in Commissione Affari Costituzionali della Camera il 10 dicembre 2013, su pressione di Matteo Renzi, allora segretario PD, con l'esame di una proposta di iniziativa popolare che giaceva sin dal 2009, unificando quel testo con altre 30 (trenta) proposte di iniziativa parlamentare. Portata in aula, subito dopo le dimissioni del governo Letta e l'insediamento a fine febbraio del governo Renzi, l'11 marzo 2014 si decide, su proposta di un deputato PD, di stralciare dalla legge la parte riguardante il Senato. Il motivo era quello di cui si è detto: rendere la legge valida solo per la Camera dei Deputati, con l’idea di affidare alla riforma costituzionale il compito di togliere all'assemblea di Palazzo Madama il potere di concedere la fiducia al governo e di renderla non più direttamente elettiva. Ciò che si verifica immediatamente dopo, con il testo di riforma che il governo approva il 31 marzo e presenta al Senato l'8 aprile.

Qui è però sorta la complicazione. Avendo fatto approvare, con un inedito ricorso al voto di fiducia, una legge elettorale che poteva portare ad una Camera composta con un premio di maggioranza spropositato (tanto più in un quadro tripolare), abolire del tutto il contrappeso rappresentato dal Senato avrebbe configurato una violazione palese dei fondamenti stessi della Costituzione. È stato così che, ferma restando l’eliminazione del voto di fiducia sul governo (ma anche il vincolo della non-elettività) si è posto il problema di compensare lo squilibrio dei poteri con contrappesi procedurali e istituzionali, da cui è derivata la complicazione del nuovo articolo 70, nonché l’intrico di un’elezione dei Senatori per via indiretta, nonché la manomissione di procedure delicatissime come quelle per l’elezione del Presidente della Repubblica e delle istituzioni di garanzia.

Insomma, questa riforma, nelle sue parti controverse e contestate da tutto il fronte del NO, è figlia dell'Italicum. Di lì discende la previsione di dieci differenti procedimenti di approvazione delle leggi al posto del bicameralismo paritario. Idem dicasi per la perdita di autorità e di legittimazione sostanziale di un Senato non eletto dai cittadini, come per l’oscurità della formulazione di compromesso che al riguardo si è dovuta escogitare all’ultimo momento, quel richiamo a una “conformità alle scelte espresse dagli elettori” che non può negare il potere di scelta affidato ai Consiglieri regionali, individuati dalla nuova Costituzione come corpo elettorale, ma vorrebbe apparire tale da condizionarlo fino ad annullarlo.

Non solo. Aver fatto ricorso a questo insieme di escamotage (difficile darne una diversa definizione) al solo scopo di allontanare il sospetto che dal “combinato disposto” (ebbene sì, proprio da quello) sorgesse il timore di una deriva autoritaria, mina la credibilità circa i reali intenti della riforma. Perché in tema di Costituzione vige un principio incrollabile: se una legge ordinaria può portare, senza violare il dettato costituzionale, a ledere principi fondamentali di democrazia configurando un regime autoritario, la sola eventualità che ciò accada, per quanto remota possa essere, rende quel dettato costituzionale fragile e perciò pericoloso. Da evitare.

Su questo nodo si è spaccato un Parlamento che non aveva fin lì dato segnali di questo genere, se non in due precise occasioni: il Jobs Act (approvato a tamburo battente con il ricorso alla fiducia su una delega di larghezza senza precedenti) e, per l’appunto, l’Italicum.

Prescindendo da ogni altra previsione, sempre fallibile, un dato appare certo già da ora: chi vincerà il referendum sopravanzerà l’altro schieramento di pochi punti percentuali. In altre parole, la spaccatura che si è creata nel Parlamento si rifletterà in una spaccatura verticale del corpo elettorale. Su una questione quale la Costituzione che non è, come pure ha teorizzato un certo pensiero politico (reazionario), il patto che i vincitori (delle elezioni) impongono agli sconfitti. Ma il sostrato comune che unisce una cittadinanza facendone a tutti gli effetti un popolo sovrano.

Domenica, 20. Novembre 2016
 

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