La battaglia intorno alla programmazione risale agli Anni '60. Per la verità l'attitudine a programmare, preordinando le proprie attività e collegandole fra loro per conseguire certi obiettivi, sembrerebbe essere una caratteristica della specie umana. Secondo Kipling, nel "Libro della Giungla" questa caratteristica differenzia l'uomo dalle scimmie, che, sempre secondo questo autore, dimenticano ogni giorno quel che avevano fatto il giorno precedente.
In quegli anni in Italia il termine programmazione coincise con un certo tipo di intervento dello Stato in economia. Svolgendosi in parallelo con le esperienze totalizzanti dei regimi comunisti dell'Europa Orientale e in periodi di guerra fredda, essa assunse aspetti di politica internazionale ben lontani dalle concrete esperienze realizzate (come il Piano casa e il Servizio sanitario nazionale).
Questa forma di politica economica fu appannaggio di quella corrente della DC che si ispirava al solidarismo sociale di Toniolo e di pensatori della stessa scuola. Strumento tecnico, quindi, di una ideologia con elementi comuni con quelli dei partiti socialdemocratici. Non mancarono resistenze da parte della Confindustria, dettate dal timore di una limitazione delle scelte imprenditoriali o di uno sconfinamento nel pansindacalismo. Questa metodologia si riverberò in anni successivi anche nella organizzazione degli interventi comunitari, con eccessi di burocratizzazione formale, frutto del cartesianesimo della dirigenza tecnocratica francese.
L'avvento al potere negli Usa, in Gran Bretagna e in altri Paesi di governi di centrodestra segnò non solo la morte della programmazione pubblica come strumento di politica economica, ma anche l'affermarsi di una diversa "visione del mondo". Essa affondava le sue radici in modelli ottocenteschi basati sulla logica formale di apparati matematici. Ma, accarezzando anche l'intraprendenza individuale e il desiderio di libertà nei confronti dei vincoli burocratici, finì con il contaminare in parte le stesse correnti politiche di sinistra. Si trattò di un implicito rinvio al pensiero protomarxiano, in cui questo pensatore celebrava nel capitalismo il distruttore della oppressione feudale; salvo accorgersi ben presto che questa forma di organizzazione socio-economica lasciava ai lavoratori solo le loro catene.
La programmazione pubblica, dunque, tramontò man mano che sorgeva il sole trionfante del mercato, supremo arbitro del bene e del male delle azioni economiche. La conflittualità dei singoli soggetti, pur perseguendo la massimizzazione di interessi particolari, avrebbe dovuto determinare contemporaneamente la massimizzazione dello sviluppo e del benessere collettivo.
I motivi del successo mondiale di questo modello furono parecchi e solidi. Gli strati sociali ed economici superiori, dagli speculatori alla borghesia rampante, ritennero che la programmazione fosse di per sé foriera di aumenti della tassazione. Lo Stato minimo corrispondeva, dunque, perfettamente con i loro desiderata. Il ceto imprenditoriale più aggressivo pensò (e lo disse apertamente in un famoso convegno ligure) che programmare significasse imporre alle imprese "lacci e lacciuoli". Paradossalmente anche le classi sociali inferiori in preda agli imbonitori di professione o inconsapevolmente hanno identificato nelle liberalizzazioni e nel gioco di mercato un meccanismo atto a rendere "ognuno artefice del proprio destino".
Il risveglio da questo sonno della ragione è stato terrificante. Dopo aver costruito sul caos economico le piramidi cartacee dei derivati, il sistema è collassato prima nella parte finanziaria e poi in quella reale. Il bello o il brutto dell'esperienza italiana consiste nel fatto che i governi con la bandiera del "meno Stato più mercato" hanno coinciso con l'indebitamento massimo e con una concentrazione dei redditi da padroni delle ferriere. Il debito pubblico costituisce di per sé un fattore di ulteriore sperequazione reddituale per il ciclo perverso delle rendite sui titoli pubblici tassate meno del salario operaio, titoli sottoscritti dalle uniche categorie che dispongono della liquidità necessaria e pagati con una pressione fiscale che grava sulla totalità dei cittadini. A questo punto l'idolum tribus del Dio mercato che prometteva la felicità di tutti tramite la libertà di ognuno giaceva a terra infranto. Nel caso italiano fra le rovine, anche morali, del ventennio berlusconiano figura pure la carenza di manutenzione programmata del sistema sia fisico che intellettuale. La bolla immobiliare convive stoltamente con il dramma dei senza-casa; i centri storici vuoti con le periferie in espansione; i marciapiedi da motocross con edifici scolastici pericolanti; le reti dei pendolari da quarto mondo con un'alta velocità che affossa l'Alitalia già salvata a spese dei cittadini; il rallentato flusso di laureati con la disoccupazione intellettuale; mentre le eccellenze delle punte di tecnologia italiane, dalla ricerca spaziale ai nuovi materiali, appaiono scollegate da un apparato industriale boccheggiante e asfittico. Potremmo proseguire con questo elenco impietoso, del quale una parte del Paese sta divenendo consapevole, pur senza tradurre la consapevolezza in una chiara scelta politica. Si tratta del dilemma del "non hanno capito" o del "non mi sono spiegato".
Il disastro è stato aggravato dalle cure omeopatiche praticate dai governi europei. Si è invocato un minore e non un maggiore intervento dello Stato, curando la malattia con la sua causa. In Italia i cosiddetti "campioni nazionali" sono quasi scomparsi, mentre il mondo delle piccole imprese invoca (adesso!) quegli interventi programmatori contro i quali si era mobilitato con scelte politico-elettorali ben precise. Sta di fatto che l'esigenza della programmazione è ora più viva che mai, anche se molti politici esitano ancora a pronunciarne la parola. Assistiamo quindi ad un carosello di denominazioni, come dire, più soft, atte a non turbare la suscettibilità degli ultimi dei Mohicani post-reaganiani, trincerati nelle fortezze dei massmedia o sventolanti le bandiere dell'anti-casta. Si parlerà allora di politica industriale, di politica del lavoro, di spending review, di razionalizzazione degli interventi, di accordi quadro; come se non fossero altro che le facce di uno strumento che per poter essere usato non può che essere globale. Il discorso alle Camere del presidente del Consiglio e le sue successive dichiarazioni ne costituiscono un esempio. Come può una politica industriale prescindere dalla programmazione normativa, che include la legislazione sul falso in bilancio, la pianificazione delle autorizzazioni, la politica del territorio, la politica delle infrastrutture, la politica della mobilità e la stessa politica abitativa? Ed ancora può essa prescindere dalla formazione, dalla ricerca applicata e dal trasferimento delle tecnologie, anche per portare su scala le innovazioni dei nostri ricercatori anziché regalarle ad altri Paesi? Il filo invisibile che lega questa pluralità di interventi è - non nascondiamolo - quella politica fiscale redistributiva che è l'unica in grado di far decollare lo sviluppo sotto la spinta della domanda e non solo con i meccanismi dell'offerta. Si continuano ad invocare interventi sul costo del lavoro, come se fossero un toccasana di fronte ad una crisi che è chiaramente dovuta alla domanda interna. Le imprese esportatrici, infatti, vanno benissimo, non si curano molto del costo del lavoro ma contano sul livello della tecnica, sulla qualità del prodotto, sull'eccellenza della manodopera e su un'ondata di innovazioni di cui né la classe politica né l'opinione pubblica hanno sentore.
Sarebbe frettoloso pensare che in pochi giorni il governo sia in grado di elaborare un programma sostanzialmente alternativo rispetto a quello del governo precedente. Si può però maliziosamente pensare che proprio la programmazione potrebbe evidenziare le contraddizioni di fondo che separano i coniugi riluttanti di questo matrimonio di interesse, pregiudicando la fragile vita di tale esperimento politico.
Quel che ci premeva sottolineare è, comunque, che per un'equilibrata soluzione dei problemi italiani dovrebbe ergersi, sulle macerie di un liberismo all'amatriciana, il solido edificio di una programmazione economica più flessibile, meno burocratica, più partecipata.