La politica economica che rincorre i miti

Meritocrazia, correlazione salario-produttività, maggiore efficienza del settore privato rispetto al pubblico, efficacia della manovra del tasso di sconto per combattere qualunque tipo di inflazione: tutti questi principi sono da tempo considerati "verità" economiche e su di essi manca ormai persino il dibattito teorico

Da oltre un decennio assistiamo ad un impoverimento della dialettica fra contrapposte scelte di politica economica, che pure fu vivacissima sul finire dell’800 e per tutto il 900. Nella fase neo-capitalistica, in parte coincidente con i fenomeni della globalizzazione, si sono gabellati come ovvietà frammenti di teoremi sganciati da un complesso di ipotesi restrittive volutamente dimenticate. Persino la sinistra discute sulla modalità di applicazione di presunte “verità” economiche, anziché contestarne la validità. Il fenomeno ha carattere mondiale: basti pensare al fatto che la maggior parte dei Nobel per l’economia negli ultimi decenni (con l’eccezione di Sen e di Stiglitz) sono andati ad aziendalisti, monetaristi ed econometrici e non a pensatori di teorie generali.

 

Questi veri e propri miti supinamente accettati come ovvii dai contendenti del gioco politico ed economico (miti che hanno effetti anche a livello della casalinga di Voghera e che sono non prodotti, ma amplificati dalle globalizzazioni) possono essere sommariamente elencati: la meritocrazia, la correlazione salario-produttività, la maggiore efficienza comparata del settore privato rispetto a quello pubblico e – ciliegina sulla torta – l’accettazione dell’efficacia della manovra del tasso di sconto per combattere qualunque tipo di inflazione.

 

Principiamo con la meritocrazia. Di per sé il termine è chiaro: premiare le persone o le imprese a seconda dei meriti. Ma questi meriti vanno riferiti ad una scala di valori, socialmente accettata dopo attenta valutazione. Nelle società guerriere, la meritocrazia premia i più capaci militarmente, come gli eroi e i grandi condottieri. Nelle società religiose, i beati e i santi. Nell’economia di mercato e nelle società che ad essa fanno riferimento, la meritocrazia è connessa all’efficienza ed efficacia gestionale (anche prescindendo dal valore etico e sociale degli obiettivi, il che è quanto meno opinabile, perché finirebbe anche con il premiare comportamenti criminali).

 

Si dimentica comunque che, quale che sia il parametro di valore assunto per calcolare il merito, questo sistema di valutazione, per essere corretto, presuppone una certa eguaglianza nelle posizioni di partenza, come è considerato ovvio nelle competizioni sportive. Quel che non viene evidenziato, quindi, è il fatto che la meritocrazia, oltre a non poter valutare tutti i risultati in termini monetari (si pensi agli ospedali) non può andare disgiunta dalla progressività delle imposte e dall’imposta di successione, che fu il cavallo di battaglia del socialismo ottocentesco.

 

Rimangono comunque dubbi sulla concreta applicazione di questi criteri ai manager aziendali: se cioè sia corretto affermare che Montezemolo ha più meriti della somma di 1.200 operai specializzati.

 

Un tema direttamente connesso è quello del rapporto tra salario e produttività del lavoro, E’ un cascame mal digerito del modello dell’equilibrio neo-classico. Questo modello si basava sull’ipotesi dell’assenza delle economie di scala e implicitamente sulla eguaglianza tendenziale della dotazione di capitale per addetto nelle singole imprese delle varie categorie produttive. Ciò è lontano dal verificarsi nelle società contemporanee, generando iniquità palesi. Come è possibile – nonostante gli eroici sforzi degli statistici per scorporare la produttività del lavoro dalla produttività totale – comparare la produttività di un becchino (che svolge con un badile un lavoro penoso ma di alto valore sociale) con quella di un ingegnere nucleare? L’accettazione acritica di questi principi finisce per generare, a lungo andare – in assenza di correzioni di natura fiscale e in presenza di rendite oligopolistiche – dei gap deflazionistici, con stagnazione della domanda globale, paradossalmente accompagnati da tensioni inflazionistiche. L’accettazione di questo criterio, ritenuto erroneamente “oggettivo”, ottiene certamente il risultato, forse voluto, di frantumare la solidarietà operaia. Ma tende a colpire non i salari dei lavoratori fannulloni, ma proprio di quelli che lavorano nelle condizioni peggiori. Nella stessa direzione si muovono gli sgravi fiscali sugli straordinari e più in generale l’eccessivo rafforzamento della contrattazione di secondo livello. Stupisce la timidezza dei sindacati così combattivi ai tempi di governi diversamente orientati.

 

Sul tema un tempo controverso dell’efficienza comparata del settore pubblico rispetto a quello privato, il dibattito è ormai praticamente spento. Non si discute più, come sarebbe corretto fare – non solo in Italia, ma anche nel mondo, come ad esempio in Cina – del fatto che l’efficienza si calcola rispetto ad obiettivi ben definiti, e che tali obiettivi spesso sono diversi fra i due settori, perché non sempre i valori sociali coincidono con quelli di mercato. Un esempio agghiacciante di queste “dimenticanze” si ha nella gestione manageriale delle cliniche, soprattutto private.

 

Ma anche prescindendo da questo pur fondamentale criterio di valutazione, da che cosa risulterebbe la maggiore efficienza del mercato? Non certo dai fallimenti dei grandi gruppi, dalla crisi dei sub-prime, dalla miriade dei protesti cambiari. Essa risulterebbe invece, in una versione più sofisticata, atta a tener conto dell’evidenza dei fatti, dalla tesi secondo la quale il mercato punirebbe i responsabili delle inefficienze proprio attraverso il fallimento. Ciò poteva forse essere vero nel capitalismo originario, in cui l’imprenditore impegnava la ricchezza sua e della propria famiglia. Non certo nella società contemporanea, nella quale il fallimento colpisce gli incolpevoli (risparmiatori, operai, fornitori, enti previdenziali, fisco) e talora premia proprio coloro che sono causa del disastro.

 

La ciliegina sulla torta è data (come dimostra la recente manovra della BCE) dall’opinione secondo la quale uno degli strumenti efficaci per combattere l’inflazione consiste nell’aumento del costo del credito. Eppure è noto che l’inflazione può avere origini diverse. Può dipendere da un’eccessiva creazione di moneta primaria e/o creditizia (liquidità) rispetto all’offerta di beni reali; creazione alla sua volta originata da una spinta salariale, un eccesso di profitti o una spesa pubblica in deficit. Oppure da una carenza di offerta di merci, sulla quale si innestano fenomeni di speculazione. Ed allora il razionamento della liquidità attraverso l’aumento del costo del denaro vale nel primo caso ma non nel secondo.

 

Se la spinta inflazionistica fosse dovuta alla speculazione, vi è qualcuno al mondo che possa credere che la crescita dello 0.25% del tasso di interesse possa bloccare chi specula su aumenti del 40% dei prezzi delle materie prime nel giro di sei mesi? Se invece è dovuto a carenza di offerta rispetto alla domanda, occorre accrescere l’elasticità dell’offerta; se imputabile ai costi di intermediazione, come nel settore alimentare, occorre accorciare la filiera e razionalizzare le strutture; se infine dipende da extra-profitti, occorre usare la leva fiscale. La manovra della BCE renderà più difficili le esportazioni; colpirà il settore turistico; aggraverà la crisi dei mutui; ridurrà gli investimenti diminuendo proprio l’elasticità dell’offerta.

Stupisce che a settant’anni dalla Teoria Generale di Keynes e ad una trentina d’anni dai primi grandi fenomeni di stagflazione, le classi dirigenti politiche ed economiche (a livello mondiale, ma a noi interessano quelle nazionali) non siano in grado di leggere e interpretare le conseguenze delle statistiche che indicano l’enorme divaricazione nei ritmi di incremento dei consumi rispettivamente di lusso e di base; ignorino il gap deflazionistico che si è andato creando; dimentichino le alternative anche teoriche dell’inflazione da profitti e da rendite; chiudano gli occhi di fronte all’iniquità dell’abolizione dell’ICI su appartamenti con superattico al Gianicolo, a spese (forse) del ticket sulla diagnostica.

 

Se, nelle sedi dei partiti, nelle Università, nelle categorie professionali, nei sindacati, sui grandi quotidiani dei cosiddetti benpensanti, questi temi venissero dibattuti, naturalmente in termini tali da consentire ai cittadino comune di valutare l’impatto delle alternative sul proprio bilancio individuale (non solo economico, ma anche sociale) la rassegnata apatia nei confronti della politica verrebbe probabilmente meno.

Venerdì, 3. Ottobre 2008
 

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