La malattia dell’Occidente

Un saggio di Marco Panara sulle origini della Grande Crisi e la combinazione dei fattori, non solo finanziari, che l’hanno generata. Una spiegazione chiara e piacevole da leggere che ripercorre la storia degli ultimi trent’anni e spiega, come dice il sottotitolo, “Perché il lavoro non vale più”

Le spiegazioni semplicistiche della grande crisi economica esplosa nel 2008 ci raccontano di bolle finanziarie, di mutui concessi incautamente agli americani anche poveri e sicuramente non in grado di rimborsarli, di mancati controlli da parte delle autorità monetarie. Tutte cose certamente vere, ma che non sono sufficienti a spiegare come mai, in un mondo che globalmente produce sempre più ricchezza, proprio nella parte che aveva raggiunto il maggior benessere diffuso – i cosiddetti “paesi industrializzati” – siano oggi esplosi fortissimi scompensi, alta disoccupazione, impoverimento di large fasce della popolazione.

 

A ritrovare il filo di una spiegazione complessiva si è cimentato Marco Panara, con il suo libro “La malattia dell’Occidente – Perché il lavoro non vale più”. Già dal titolo si capisce che il cuore del problema non viene individuato nella finanza, che pure nel libro (come del resto nei fatti che sono accaduti) ha uno spazio e un rilievo molto importanti. Non è la finanza, però, il motivo scatenante della malattia, della quale è stata piuttosto una concausa necessaria. La realtà è complessa è dunque questo motivo scatenante non può essere uno solo. Panara individua una serie di fattori, li descrive e ne analizza lo sviluppo e la combinazione, fino a costruire un quadro convincente di come nel corso degli ultimi trent’anni ci abbiano portato alla situazione in cui oggi ci troviamo.

 

I grandi motori del cambiamento sono stati lo sviluppo tecnologico, che ha generalmente ridotto il valore del lavoro umano, e la globalizzazione, con l’irruzione nel mondo produttivo di un paio di miliardi di lavoratori a basso – anzi bassissimo – costo. Questo ha generato una compressione delle retribuzioni. Nell’ultimo quarto di secolo, ricorda Panara, un 5% di ricchezza si è spostato dai salari ai profitti, che però, grazie all’aumento della ricchezza complessiva, nella media sono riusciti a mantenere il potere d’acquisto. Nella media, però: perché un altro fenomeno è intervenuto a complicare le cose, ossia il fortissimo aumento delle disuguaglianze. Tra i redditi da lavoro alcuni – quelli dei supermanager, dei grandi professionisti, dei trader finanziari – sono andati alle stelle, mentre la maggior parte hanno perso terreno.

 

Questo, però, rischiava di generare un corto circuito: la gente doveva continuare a consumare, sia perché nessuno riduce volentieri il suo tenore di vita, sia perché i consumi fanno girare l’economia tanto dei paesi ricchi, tanto di quelli che con la globalizzazione hanno cominciato la marcia verso un maggore benessere e non vogliono certo interromperla all’inizio. E allora è stato inventato quello che Panara chiama “lo scambio”. Che, osserva l’autore, “ci è stato venduto come uno scambio tra reddito e patrimonio, mentre era nei fatti uno scambio tra reddito e debito”. In altre parole: è vero che guadagnate meno, ma vi facciamo comprare la casa, il cui valore aumenterà indefinitamente, permettendovi di stipularci sopra ulteriori debiti per avere denaro da spendere; e una parte di quel denaro lo potete investire in azioni, che anch’esse aumentano continuamente di valore: quindi non protestate, quello che non prendete più dal lavoro lo prendete, moltiplicato, dai frutti del patrimonio.

 

E’ questo scambio che ha bisogno della nuova finanza, dai mutui subprime ai fondi speculativi, con tutto il oro contorno di mercati non regolati, società finanziarie non controllate, strumenti opachi e truffaldini. Panara guida il lettore nei labirinti di questa finanza malata, rendendola comprensibile anche a chi sia digiuno della materia.

 

Alla fine, com’era inevitabile, “siamo arrivati al redde rationem. Si è concluso con questa terribile crisi un lungo periodo durante il quale l’Occidente ha vissuto al di sopra delle sue possibilità, accumulando debiti per mantenere e accrescere un tenore di vita che aveva conquistato con il lavoro (…) e che a causa della progressiva perdita di valore del lavoro non avrebbe potuto più permettersi”. E ora il mondo industrializzato dovrà, “per un bel numero di anni, tirare la cinghia, ridurre il tenore di vita”.

 

L’ultima parte del libro esamina le conseguenze politiche di quanto è successo, le influenze sulla qualità della democrazia e sull’attività dei partiti e degli schieramenti. E’ ancora una parte di analisi, mentre alla parte propositiva è dedicato l’ultimo capitolo, che parte da una premessa che negli ultimi anni molti hanno dimenticato: “Bisogna tornare a ragionare di produzione della ricchezza e di sua redistribuzione, che non sono due momenti diversi”. Le proposte si concentrano sul problema dell’energia, individuato come il più strategico per un paese come l’Italia, la cui bolletta energetica è di 50 miliardi di euro l’anno, “petrolio e gas che importamo e poi bruciamo”, per passare poi ad alcune proposte sulla domanda e offerta di lavoro e sul funzionamento del mercato, che “è qualcosa di più largo della sola finanza”.

 

La conclusione è una nota di speranza: “Se per uscire dalla trappola faremo la nostra parte, la Storia potrebbe darci una mano”. Un saggio agile, scritto con chiarezza e piacevole da leggere, che aiuta a comprendere in modo non banale come e perché il mondo è precipitato nella Grande Crisi.

 

Marco Panara

La malattia dell’Occidente – Perché il lavoro non vale più

Editori Laterza 2010 – pp.151 – 16 €

Martedì, 15. Febbraio 2011
 

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