La lezione sindacale di Renato Lattes

Lattes appartenne a una generazione di sindacalisti che seppe coniugare la riflessione teorica con l'impegno pratico. Dai "Quaderni rossi" al sindacato dei Consigli, all'esperienza nella Fiom, fino ai nostri giorni considerò l'unità come il fondamento ineludibile della democrazia e dell'efficacia dell'azione sindacale.

Negli anni Sessanta a Torino si formò una nuova generazione di sindacalisti. Non fu per caso. A Torino la lotta sindacale aveva vissuto i momenti più aspri. La Fiat dominava lo scenario torinese e nazionale. A metà degli anni Cinquanta aveva inflitto alla Fiom una memorabile sconfitta. Ma questa aveva anche segnato l’avvio della svolta strategica della CGIL. Quando Renato Lattes, intorno ai suoi venti anni cominciò a conoscere il sindacato, Torino era il crocevia della crisi e insieme della ripresa delle lotte. Una ripresa  che imponeva una riflessione e un cambiamento radicale del modo di vedere la classe operaia, il lavoro, il sindacato.

A Torino si erano riversati centinaia di migliaia di lavoratori provenienti dal Mezzogiorno. Arrivavano in una città dalle campagne del sud, senza scuola, alla ricerca di un lavoro nella grande fabbrica di cui non sapevano nulla. Non capivano nemmeno la lingua dei loro compagni di lavoro piemontesi. La Camera del Lavoro di Torino divenne la frontiera più avanzata nell’elaborazione di una nuova strategia di rappresentanza e di lotta. Alla sua testa c’era un gruppo dirigente per molti versi straordinario: Emilio Pugno, Sergio Garavini, Tino Pace, Gianni Alasia. Attraverso di loro, Renato conobbe il sindacato e ne rimase affascinato.

 

La revisione della strategia sindacale s’intrecciò in quegli anni con un dibattito radicale nella cultura politica della sinistra. Nel 1961 comparvero i “Quaderni rossi”, fondati da Raniero Panzieri, un socialista di sinistra che provava a reinterpretare Marx, saltando le molteplici contaminazioni e gli sviamenti dei diversi  filoni marxisti. Il primo numero della rivista fu aperto da un saggio di Vittorio Foa. intitolato  “Lotte operaie nello sviluppo capitalistico”, che illuminava il percorso intellettuale di una nuova analisi delle lotte operaie e ruolo del sindacato.

Il gruppo socialista in cui si riconosceva Renato – da Foa a Basso -rifiutava di mandare Marx in soffitta, ma lo rileggeva in una luce nuova. Non più la supremazia del partito e la funzione ancillare del sindacato che era posta a base del “centralismo democratico” dei partiti comunisti. Ma un’analisi del capitalismo che partiva dal processo di produzione e dalla condizione operaia. Possiamo immaginare con quale curiosità intellettuale Renato lesse il “Frammento sulle macchine”, tratto dai Grundrisse, pubblicato nel 1964 sui “Quaderni Rossi”, nel quale Marx analizzava la frantumazione del lavoro, la sua banalizzazione, la perdita d’identità del lavoratore, di fronte al “sistema delle macchine”, che segnava la nuova era della rivoluzione industriale.

Vi si potevano individuare le basi teoriche del lungo processo che ai avviava a cambiare i fondamenti stessi dell’organizzazione e dell’iniziativa sindacale centrata sulle condizioni di lavoro. Il controllo sul processo produttivo poteva essere recuperato solo con una riappropriazione di gruppo. E l’identità individuale poteva essere riacquistata solo come una nuova capacità di intervento e di controllo collettivo. Per Renato, i delegati di linea, di reparto e i Consigli di fabbrica che dominarono il dibattito e l’iniziativa sindacale del successivo decennio avevano radici solide e lontane. In questa scuola che intrecciava l’esperienza pratica dell’organizzazione delle lotte con la riflessione teorica sul processo di produzione e la condizione operaia,  Renato imparò il mestiere di sindacalista, e vi si appassionò.

Renato fu un giovane militante socialista, di un socialismo libertario e radicale, vicino prima ai “Quaderni rossi”, poi a “Problemi del socialismo” di Lelio Basso. La militanza nel PSI fu effimera perché nel giro di pochi anni, con la scissione, Renato entrò nel PSIUP. Ma il suo destino era già quello di un sindacalista. Aveva imparato presto l’importanza della fabbrica come punto di riferimento dell’analisi sociale e delle lotte sindacali.

Tutta la discussione postuma sul ruolo del movimento studentesco del 1968 e sul suo rapporto le lotte operaie dell’autunno caldo non tiene conto dell’intreccio straordinario che visse una generazione giovane in quegli anni di rivoluzione culturale. Renato era a metà dei suoi anni 20, era stato un dirigente del movimento studentesco, ed era chiara in lui la percezione della rivolta studentesca. Ma, a differenza di un’altra parte del movimento studentesco, aveva imparato a conoscere la fabbrica, la durezza dei rapporti di classe, il ruolo complesso della negoziazione. La difficoltà di rappresentare i bisogni, le aspirazioni, i comportamenti di quelle grandi masse di giovani, senza scuola, lontane dalle università, che venivano dal profondo sud,  inghiottiti nelle grandi fabbriche del nord.

La fabbrica non poteva essere ridotta a mito e bandiera di una rivoluzione imminente quanto astratta. L’ex dirigente del movimento studentesco, che era stato Renato, aveva imparato a districarsi nei labirinti dell’organizzazione del lavoro, conosceva le tecniche del cottimo, la manipolazione delle mansioni e delle qualifiche, le molteplici forme della nocività, che intorno alla Camera del lavoro di Torino era diventata oggetto di un’analisi scientificamente nuova e politicamente dirompente.

In questa nuova prospettiva, l’unità sindacale appariva a Renato una cosa naturale, quanto innaturale gli appariva la divisione. Dopo l’autunno caldo, nel pieno fulgore del sindacato dei Consigli e della nascita dell’FLM, Renato fu tra coloro che si schierarono per l’unificazione dei metalmeccanici come primo segmento dell’unità organica di CGIL CISL e UIL. Era convinto che la democrazia dei Consigli e l’autonomia sindacale non potessero vivere e svilupparsi senza l’unità sindacale organica. Purtroppo, le Confederazioni giudicarono non maturi i tempi dell’unificazione articolata - come si diceva allora - e per tappe successive. Quella stagione passò, e i tempi dell’unità non sono più tornati.

Gli anni 70 furono per Renato anche quelli dell’impegno politico di partito. Sciolto il Psiup, mentre si acuiva la rottura fra PCI e PSI, cominciò il tentativo di costituire formazioni partitiche della “nuova sinistra”. Renato vi si applicò con dedizione e disinteresse, Non ambì mai ad alcuna carica di partito, scrupolosamente difendendo L’incompatibilità fra responsabilità di sindacato e di partito. Ma fu per Renato, e per tanti suoi compagni, una stagione deludente. Più piccole erano le formazioni della nuova sinistra, più difendevano i propri minuscoli spazi. Fino a quando la ricerca spasmodica delle identità separate lasciò il campo alla disintegrazione, di cui, attraverso diversi e illusori passaggi, vediamo ancora oggi le conseguenze.

Chiusa l’esperienza dei micro-partiti della “nuova sinistra”, culminata con la sconfitta della lista di “Nuova sinistra unita” nelle elezioni politiche dell’estate del 1979, Renato fu sempre di più impegnato nel sindacato.  Fu tra gli oppositori della linea dell’Eur che poi si rivelò, nel breve giro di qualche mese, si rivelò un fallimento. Nel 1981 fu eletto segretario nazionale della FIOM.

 Gli anni Ottanta, iniziati con la dura sconfitta alla Fiat, furono anche gli anni della rottura sindacale. Renato, dopo la dissoluzione della vecchia sinistra sindacale, seguita alle rotture interne generate dallo scontro trasversale sulla svolta dell’Eur, era stato nel 1979 tra i fondatori della Terza componente che raccolse per la prima volta nella CGIL un gruppo di compagni senza tessera di partito.

Renato si dedicò con pienezza d’impegno al lavoro sindacale, ma non fu mai solo un sindacalista. Quando lasciò la Cgil, dopo aver lavorato con Bruno Trentin all’Ufficio del programma, fu consigliere per le questioni ambientali nel ministero dei Lavori pubblici del governo di centro-sinistra: un tema al quale non smise mai di applicarsi. Aveva un inesausto bisogno di sperimentarsi su terreni diversi e nuovi.

Fare politica per Renato significava non la conquista di ruoli gerarchici, ma l’apertura di spazi per la ricerca, l’analisi, la comprensione di ciò che succedeva nel mondo reale dei bisogni di donne e uomini in carne e ossa. Quando si era fatta un’idea dei problemi, cercava una soluzione. La sua era un’immaginazione concreta. E questo era spesso motivo non solo di entusiasmo ma anche di delusione, quando le cose non andavano per il verso giusto. Quando la burocrazia dei partiti, dei sindacati, delle istituzioni rimaneva ferma al modo tradizionale di vedere le cose, alle certezze della routine.

Negli anni più recenti Renato aveva trovato un nuovo terreno di sperimentazione e lavoro in “Paralleli, istituto euro-meditrrrano per il Nordovest” , di cui era divenuto presidente. Vi ha lavorato fino all’ultimo giorno, accrescendone il prestigio a livello internazionale. Criticava il fatto che l’Unione europea, mentre lavorava all’approfondimento della partnership con i paesi dell’est, fino alla Georgia e all’Azerbaijan  sulle rive del Caspio, aveva una politica del tutto inadeguata verso il “cortile di casa”, la riva sud e orientale del Mediterraneo.

Aveva un vasto programma di iniziative che lo avrebbero impegnato a partire dal mese di maggio, una volta riprese le forze, dopo un periodo di acutizzazione della malattia. Ma, andandosene, all’alba del 24 di aprile, questa volta non ha potuto mantenere gli impegni. Prima alla Camera del Lavoro di Torino, poi al cimitero monumentale, molti compagni della CGIL e della CISL e tanti suoi amici l’hanno salutato con grande affetto e rimpianto.

Martedì, 5. Maggio 2009
 

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