Improvvisamente la Cina ci fa toccare con mano quanto sia difficile avere a che fare con la globalizzazione. Il primo gennaio de 2005 è entrato in vigore l'Accordo Multifibre che liberalizza le importazioni di prodotti tessili dai paesi emergenti. Una volta cadute le barriere, i prodotti tessili di provenienza cinese hanno inondato il mercato americano ed europeo con un aumento medio delle importazioni telescopico, del 200-400 per cento - e con punte di oltre il 1000 per cento per alcuni prodotti. Euratex che rappresenta le imprese tessili europee, per le quali lavorano due milioni e mezzo di addetti, considera a rischio un milione di posti di lavoro.
Cosa si può fare per fermare la débacle, che colpisce in particolare paesi come l'Italia, la Francia, il Portogallo? Peter Mandelson, responsabile della politica europea per il commercio estero, sia pure a malincuore, essendo tendenzialmente un liberista britannico, ha annunciato un'indagine alla quale potrebbero seguire misure di protezione attraverso l'applicazione di una clausola di salvaguardia. Ma prima di arrivare a tanto, è probabile che si punti attraverso negoziati informali a un accordo di autolimitazione "spontanea"delle esportazioni dei prodotti più sensibili da parte della Cina. In linea di principio e secondo le regole dell'Organizzazione mondiale del commercio, il ricorso a misure di protezione, mediante l'instaurazione temporanea di "quote" d'importazione per i singoli prodotti è possibile. (Del resto, è la via che si accingono a battere gli Stati Uniti sotto la pressione delle lobby dell'industria tessile, come hanno sistematicamente fatto per l'acciaio).
Ma la complicazione e l'apparente paradosso sta nel fatto che le misure protezionistiche aprono un duro conflitto all'interno degli stessi paesi ricchi. Da una parte vi sono, infatti, gli interessi delle industrie in difficoltà che chiedono protezione. Dall'altra, le multinazionali americane ed europee che investono enormi risorse in Cina per produrvi beni finali (o intermedi) che commercializzano in tutto il mondo col loro marchio.
L'emergenza che si è creata nel settore tessile ci aiuta a guardare da vicino, al di fuori delle semplificazioni più o meno apologetiche, la natura della globalizzazione, le contraddizioni e i conflitti che la caratterizzano. La Cina, profittando della globalizzazione dei mercati è in grado di inondarci di prodotti di massa a prezzi stracciati: dal tessile, alle scarpe, ai giocattoli, all'elettronica di consumo. Ma la globalizzazione della produzione e dei mercati non nasce in Cina, ma nei paesi ad alto sviluppo, da dove prende le mosse il grande capitale industriale e finanziario. Nel 2004 le imprese multinazionali hanno investito in Cina 60 miliardi di dollari. E, non a caso, le esportazioni "cinesi" provengono per il 60 per cento da imprese multinazionali americane ed europee. In altri termini, i paesi poveri ci mettono le braccia, il lavoro di massa, a basso costo e senza regole, né sociali, né ambientali. Ma il cervello, le scelte di investimento e decentramento, l'organizzazione della catena produttiva su scala planetaria, i quartieri generali della globalizzazione sono nei paesi altamente industrializzati.
Il commissario europeo Mandelson ha osservato che i salari cinesi andrebbero adeguati a quelli di altri paesi che operano negli stessi settori. Quali? L'India, il Bangladesh, il Vietnam, i Caraibi? Le condizioni di lavoro non cambiano. In questi paesi il reddito medio pro-capite è di circa 1000 dollari l'anno, venti volte più basso che nei paesi industrializzati. I salari sono il 5 per cento di quelli pagati in America e in Europa. I sindacati non esistono. Come non esistono regole a protezione del lavoro. Le clausole sociali fissate dall'Organizzazione internazionale del lavoro (OIL) rimangono una chimera.
Le multinazionali decentrano la produzione in questi paesi proprio perché queste sono le condizioni salariali e di lavoro. Se queste condizioni cambiano, le multinazionali migrano verso altri paesi o regioni. Il fenomeno comincia già a verificarsi in Cina. Nelle grandi aree urbane delle regioni costiere, dove si creano dieci milioni di posti di lavoro l'anno, i salari cominciano a crescere, e gli investimenti tendono a spostarsi verso le regioni interne. Una delle caratteristiche fondamentali della globalizzazione è che l'offerta di lavoro nei paesi sottosviluppati è praticamente illimitata. E le nuove tecnologie informatiche consentono di distribuire senza difficoltà la produzione industriale su scala globale, sfruttando le condizioni a loro più favorevoli, eufemisticamente definite "vantaggi comparativi".
Ma questo è solo un aspetto della globalizzazione: quello che possiamo definire la nuova divisione del lavoro a livello internazionale. Poi vi è l'altro, non meno importante, della penetrazione delle multinazionali e del capitale finanziario nei paesi emergenti per assumere il controllo dei settori in crescita e, soprattutto in quelli dei servizi. Con l'entrata della Cina nel 2001 nell'OMC, i paesi industrializzati si sono garantiti l'abbattimento progressivo delle tariffe e delle quote che proteggono il mercato cinese. In questo modo si potranno esportare in Cina non solo macchine utensili, ma prodotti agricoli, automobili (i dazi sull'import delle auto sono stati già dimezzati), prodotti di lusso. Ma ancora più importante è la progressiva liberalizzazione dei servizi bancari, finanziari, assicurativi che consente al capitale finanziario internazionale di gestire attività centrali e a più alta redditività nello sviluppo dei paesi emergenti.
Se la globalizzazione non scende dal cielo, e le decisioni fondamentali sono determinate dai paesi ricchi, la Cina ha tuttavia il vantaggio di poter negoziare, in una certa misura, i tempi e i modi dell'apertura del suo mercato interno. Un potere negoziale che manca ai paesi più deboli. Ma, pur trovandosi in una condizione di vantaggio derivante, oltre che dalle dimensioni, dalla capacità di crescere stabilmente con un tasso dell'8-9 per cento l'anno, la Cina rimane un paese povero. In 20 anni fra il 2000 e il 2020, avrà quadruplicato la sua ricchezza nazionale e il reddito pro-capite. E, tuttavia, vi saranno ancora nelle campagne centinaia di milioni di contadini relativamente poveri. A beneficiare della crescita saranno i ceti sociali urbani in vario modo inseriti nel processo di globalizzazione. I nuovi ricchi della costa saranno sempre più "occidentalizzati", e vorranno acquistare beni di lusso americani e soprattutto europei, come già fanno a Pechino e Shanghai.
In questi scenari della globalizzazione, la Cina sarà sempre di più un paese con alti livelli d'importazione. Il suo attivo commerciale è attualmente stratosferico (oltre 160 miliardi di dollari) nei confronti degli Stati Uniti - dove i maggiori importatori sono le grandi catene commerciali americane - ma l'attivo è esiguo rispetto al resto del mondo, e prossimo ad esaurirsi nel giro di qualche anno. Il futuro non è nel blocco delle importazioni dalla Cina, ma nella capacità di esportare prodotti ad alta tecnologia e beni di lusso in un mercato in espansione continua. Non potremo pretendere di esportare in Cina macchinario industriale, prodotti ad alta tecnologia e beni di lusso, senza importare i prodotti di massa che nella stessa Cina fabbricano le grandi multinazionali e, al loro seguito, le imprese autoctone. Dovremo, in altri termini, rassegnarci a importare le loro produzioni di massa a basso costo del lavoro, mentre i cinesi acquisteranno sempre di più beni capitali, oltre alle borse di Vuitton, ai vestiti di Armani, alle Tods di Della Valle, alle BMW e certo non le Fiat, ma forse le Ferrari.
C'è una lezione da trarre da questo squarcio di globalizzazione che ci viene offerto dal caso tessile? Probabilmente una lezione che avremmo dovuto apprendere da tempo e mettere in pratica prima di arrivare sulla soglia allarmante del declino industriale. Può anche essere, infatti, che nei prossimi mesi potremo ottenere, con l'aiuto della Commissione europea, una decisione cinese di autolimitazione, o con una clausola di salvaguardia, una boccata di ossigeno per i prodotti tessili di massa che inondano i mercati europei. Ma si tratterà, in ogni caso, di un sollievo di breve durata. La globalizzazione che non scende dal cielo, ma riflette le strategie del capitalismo più avanzato, impone una divisione internazionale del lavoro che nasce, come abbiamo visto, dall'interno stesso dei paesi ricchi.
Mettere la testa sotto la sabbia non può che portare guai. Da almeno un decennio si parla di globalizzazione per farne l'elogio o per esorcizzarla ma non si è fatto nulla (salvo privatizzare la parte che funzionava) per riorganizzare l'industria, i servizi, la ricerca. Parlare di politica industriale è diventato sintomo di nostalgico conservatorismo. La Francia e la Germania hanno fatto il rovescio. Producono macchine, automobili, treni ad alta velocità e conservano marchi di alto prestigio, anche quando i componenti sono prodotti in "outsourcing". E la bilancia commerciale tedesca mantiene costanti ed elevati attivi, non ostante la Germania paghi salari di un terzo superiori a quelli italiani.
Dobbiamo augurarci che l'emergenza tessile ci spinga a riflettere sugli errori e i ritardi di un paese avanzato che continua a mancare disperatamente di una strategia industriale. Se Prodi, che proviene da un'esperienza culturale e politica, che ha le sue radici nell'economia industriale, riuscirà ad applicarsi creativamente al problema del declino industriale del nostro paese, e delle possibili vie d'uscita nello scenario temibile della globalizzazione, avrà probabilmente fornito un asse centrale al programma di governo col quale il centro sinistra sarà chiamato a governare il paese.