La legge 30 tra abrogazionisti e integratori

Un sindacalista replica a Umberto Carabelli entrando nel merito delle modifiche da attuare nel mercato del lavoro. Che ha bisogno di una riforma per cui ci vorrà tempo, ma, soprattutto, di un segnale netto e immediato di cambiamento di tendenza
Il contributo di Umberto Carabelli (vedi) è importante perché può contribuire a far evolvere una discussione nata male, sulla contrapposizione secca tra abrogazionisti ed integratori della legge 30, verso esiti auspicabilmente migliori e più produttivi. Perché ciò avvenga, sarebbe il caso che ciascuno si misurasse sulla necessità di una legislazione sul lavoro di carattere generale, che faccia i conti con le novità intervenute ma che al contempo non tralasci le scelte di valore da compiere.
 
Il fatto è che la legge 30, e prima ancora il Libro Bianco, esprimevano un taglio fortemente  e volutamente ideologico, cui è persino obbligatorio contrapporne uno di segno opposto. Di seguito proverò a prendere sul serio i temi posti da Carabelli, ed avanzare qualche pista di lavoro. In premessa, coerentemente con il mio ruolo di sindacalista e non di giurista, vorrei proporre un aspetto di contesto entro cui discutere. Il tema è la necessità di tenere insieme un approccio politicamente esplicito, che dica cioè con nettezza le finalità da conseguire, e al contempo faccia i conti con le risultanze, probabilmente non entusiasmanti, che il nuovo governo troverà riguardo alle disponibilità economiche. Detta in altri termini, come garantire gradualità e rigore senza che nessuno dei due termini sia penalizzato. Il che, ancora, significa predisporsi ad interventi che, da subito, diano il segno del cambiamento, riservando quelli “globali” e con rilevanti elementi di costo agli anni seguenti della legislatura, ma riuscendo a collegare i primi ai secondi.
 
A) Innanzitutto, la scelta del lavoro dipendente a tempo indeterminato come rapporto “normale”: il primo scoglio da affrontare riguarda il vero biglietto da visita della passata legislatura, ossia la rimozione delle causali tassative per il lavoro a termine. Di qui sono seguite, nella legge 30, conseguenze importanti su un istituto quale il lavoro interinale apparentemente transitato indenne dalla precedente legislazione (Pacchetto Treu). Il primo passo per riaffermare la centralità nell’ordinamento del lavoro a tempo indeterminato è ripristinare la necessità di causali che giustifichino l’adozione di rapporti con durata predefinita, casomai ampliando lo spazio per la loro individuazione riservato alla contrattazione collettiva,. Il che - notoriamente - non comporta esborsi economici ma segna un indirizzo di politica del diritto.
 
Ma l’altro corno del problema è la collaborazione: qui siamo in presenza di lavori svolti indifferentemente  in subordinazione o in regime di collaborazione. E’ il caso eclatante dei call centers, ma non solo. E qui nasce l’ambiguità, rilevata da Carabelli, che permane nel programma dell’Unione, che trae le sue origini in due differenti approcci, rappresentati rispettivamente dalla Carta dei Diritti delle lavoratrici e dei lavoratori elaborata dall’Ulivo, e dalle proposte di legge di iniziativa popolare, sottoscritte da 5 milioni di cittadini su iniziativa della Cgil, e tecnicamente presentate da alcuni deputati e senatori del centro sinistra. Nel primo testo si segue un approccio fondato su “diritti a cerchi concentrici” via via più intensi a seconda si tratti di lavoratori autonomi, di collaboratori, di lavoratori subordinati; nel secondo caso si modifica l’articolo 2094 del Codice civile, estendendo il concetto di subordinazione a tutti i rapporti caratterizzati da dipendenza economica.
 
Questa ambiguità del programma dell’Unione si manifesta nella scelta di non definire l’ambito delle collaborazioni, ma dichiarando di volerne scoraggiare l’uso attraverso un loro accresciuto costo previdenziale nei confronti del committente, sì da favorire indirettamente il lavoro subordinato, cui dovrebbe contestualmente applicarsi la riduzione di 5 punti del “cuneo fiscale” (e con ciò si avrebbe una doppia incentivazione del lavoro subordinato come lavoro”normale” o tipico, cui si aggiungerebbe addirittura una terza, se si ripristinasse il credito d’imposta per assunzioni stabili). Resta il fatto che procedere per aggravi di costo per una tipologia non garantisce avverso il ricorso ad altre forme elusive, ad esempio le associazioni in partecipazione o l’apertura di partite IVA. Qui si pone quindi un terreno di lavoro ulteriore e di “norme di chiusura” da pensare adeguatamente.
 
Terzo tassello di una terapia che combini gradualità e rigore, le cancellazioni vere e proprie di norme specifiche: già segnalata l’acausalità nel contratto a termine, il lavoro a chiamata e il lavoro in somministrazione a tempo indeterminato potrebbero sparire e darebbero il segno di un cambio di registro, così come le norme vessatorie per i lavoratori svantaggiati e i disabili (possibilità per le imprese che li assumessero temporaneamente di non corrispondere la retribuzione contrattuale in un caso, possibilità per le imprese di eludere l’obbligo alle assunzioni tramite il conferimento di commesse alla cooperativa che assumesse i disabili, nell’altro).
 
B) L’altro tema, puntualmente segnalato da Carabelli, è quello delle esternalizzazioni. Qui, a mio giudizio, si pone il maggior ritardo di elaborazione da parte di tutti, sindacati e forze politiche, dato che le modifiche introdotte dal governo Berlusconi si sono inserite su un terreno che mostrava da tempo i segni dell’inadeguatezza. Ciò non toglie che l’abrogazione secca della legge 1369/60 abbia liberato del tutto il campo dal principio della parità di trattamento per gli appalti interni. E tuttavia, l’insieme delle operazioni di conferimento all’esterno di attività - dagli appalti al trasferimento d’impresa o di sue parti, al distacco di lavoratori alla stessa accensione di rapporti di collaborazioni, al ricorso acausale di lavoro temporaneo (a termine o in somministrazione), fino al ricorso sempre più frequente a cooperative il cui pregio sembra consistere solo in costi minori rispetto al lavoro “interno”- così come l’affermarsi di attività in franchising o di gruppi d’impresa - tutto ciò ci dovrebbe interrogare e spingere verso una teoria dell’impresa più completa e tale da impedire operazioni giustificate soltanto da riduzioni di costo. Ben sapendo, io per primo, che il concetto di “ciclo aziendale” è spesso obsoleto rispetto alla velocità dei cambiamenti cui l’impresa è obbligata a ricorrere; e tuttavia occorrerebbe che il diritto privilegiasse solo quei mutamenti giustificabili da ragioni di accresciuta efficienza e fornitura di servizi, e non da minori costi, ottenuti magari applicando regolazioni contrattuali diverse da quelle della casa madre, o offrendo regolazioni dei rapporti di lavoro meno costose.
 
Qui si potrebbe procedere all’inizio in modo grossolano: riformulare l’articolo 2112 del codice civile ripristinando la preesistenza come requisito del ramo d’impresa, e riferendolo ad elementi oggettivi e non valutabili dalle sole parti contraenti, ma estendendo altresì la procedura di necessaria consultazione sindacale ad ogni operazione che alteri la composizione dell’impresa (compreso il conferimento in collaborazione). Parallelamente, cancellare le modifiche introdotte con la legge 30 al profilo del socio di cooperativa. Sull’elaborazione di una compiuta teoria delle esternalizzazioni, invece, vale il caso di dedicarci il tempo necessario.
 
C) Nell’elaborato di Carabelli non si accenna alla lotta al sommerso. Eppure qui, aldilà di ragioni etiche, si colloca un terreno fecondo di politica del diritto, che può segnalare svolte effettive, a costi quasi pari a zero. Tre esempi:
a) emanare finalmente la norma, prevista e mai attuata dal 2001, che contestualizza nello stesso giorno la comunicazione ai Centri per l’impiego e l’avvio concreto del rapporto di lavoro. Si potrebbe, approfittando della mancata emanazione di questa norma, anticipare la comunicazione ai Centri per l’Impiego al giorno precedente l’inizio del rapporto di lavoro  in modo da evitare che troppi incidenti capitino, casualmente, il primo giorno di lavoro!
b) emanare in tempi rapidi (un anno) gli “indici di congruità” per le principali attività che leghino in modo indicativo, alla stregua degli studi di settore, indici quantitativi dell’impresa (fatturato, ordinativi, ecc.) con le plausibili dimensioni occupazionali ed il conseguente gettito fiscale e previdenziale “atteso”. In alcune attività ciò è già operante, dà buoni frutti e potrebbe rappresentarsi così un segnale di buone prassi da seguire anche per le pubbliche amministrazioni nel conferimento di appalti solo ad imprese che applichino i contratti nazionali e in regola con gli indici;
c) conferire il permesso di soggiorno per la ricerca di lavoro agli immigrati che denuncino le condizioni di irregolarità (sulla falsariga delle donne che denuncino la tratta cui siano sottoposte);
d) riformare i servizi ispettivi, ridando agli stessi ispettori le risorse ma soprattutto la coscienza di un ruolo non scalfito da improprie commistioni con quelli di “consulenti d’impresa” che è e deve essere compito di altri rami dell’amministrazione
 
D) Una sottolineatura preoccupata di un’altra assenza nell’elaborato di Carabelli: i servizi all’impiego. Alla fine di quest’anno, nell’ambito della riorganizzazione del bilancio dell’UE, verranno meno gran parte delle risorse con cui il Ministero e le Regioni hanno provveduto a finanziare le attività dei CPI. La sfida per chi vuole scegliere la centralità dell’attore pubblico per la garanzia di un diritto di cittadinanza quale il diritto al lavoro (art. 4 della Costituzione), smentendo nei fatti l’ideologia dei benefici effetti della concorrenza nel reperimento di opportunità di lavoro per le persone, e valorizzando invece la corretta logica dell’integrazione dei privati là dove il pubblico non riesce ad arrivare, si gioca sulla capacità di garantire ai CPI risorse ordinarie adeguate, nonchè motivazioni al personale  lì impiegato spesso con rapporti essi stessi precari ed atipici.
 
E) Infine, ma non per importanza, gli ammortizzatori sociali. Qui una precisazione di accento, oltreché di sostanza. Troppe volte si usano gli ammortizzatori sociali (anzi la loro mancata riforma) come argomento principe per criticare la legislazione del centro destra e giustificare la necessità di “integrare la legge 30” (Piero Fassino sul Sole 24 Ore). Segnalo che così non va: nessuno nega la centralità di ammortizzatori sociali riformati ed universalizzati, ma chiarisco che essi andrebbero pensati come sostegno alla stabilità del lavoro e alla sua valorizzazione, piuttosto che come compensazione di una sostanziale precarietà dell’impiego.
 
A chi indica il modello danese o scandinavo chiedo di assumerne tutte le fattezze, e non solo la banale semplificazione “nessuna tutela contro i licenziamenti, tante tutele per trovare un nuovo impiego”. Il che significa sapere che la durata del sussidio è di quattro anni, l’importo del sussidio è del 70/90% dell’ultima retribuzione, che le offerte lavorative sono strettamente collegate ad attività di riqualificazione costantemente offerte dai servizi all’impiego, che il tutto è parte di un sistema dove la tassazione è sopra il 45% e l’evasione sotto il 10%…
 
Ma aldilà di questi, che sono giochi della politica spettacolo, resta il fatto che una riforma decente degli ammortizzatori sociali costa, e neanche poco (8/10 milioni di euro secondo le diverse stime). E’ quindi il caso di procedere come auspicato: dare segnali inequivoci, e precostituire linee di riforma successive.
 
Detto in esplicito: alla fine di quest’anno viene meno la copertura economica che il passato governo aveva iscritto a bilancio per l’elevazione al 50% per nove mesi dell’indennità di disoccupazione ordinaria. Se non si fa nulla, quindi, dal 1° gennaio i trattamenti di disoccupazione subiranno una riduzione del 10%! E’ il caso che la finanziaria 2007 riconfermi in esplicito la posta, ed estenda l’elevazione al 50% a tutti i tipi di disoccupazione (includendo quindi quella a requisiti ridotti), rinviando ad apposita legislazione, con posta pluriennale, la riforma generale degli ammortizzatori.
 
Ugualmente, vanno cancellate le norme vessatorie introdotte dal passato governo verso chi è beneficiario di ammortizzatori, basate sull’idea autoritaria di obbligare il percettore di sussidio ad accettare più o meno qualunque proposta di lavoro pena la decadenza dal diritto, e passare invece all’idea di servizi personalizzati da offrire al percettore di sussidio da parte dei CPI come strumento di politica attiva del lavoro, con l’idea che le persone che hanno perso il lavoro hanno comunque un patrimonio personale da valorizzare in particolare verso il sistema economico. Così il termine workfare usato spesso per mascherare bieche operazioni repressive può sposarsi con le atre parole d’ordine della formazione ricorrente come diritto soggettivo, e quindi l’intera riforma degli ammortizzatori sociali perdere il connotato del risarcimento ed assumere invece quello della rete di promozione sociale che le dovrebbe essere proprio.
 
(Claudio Treves - Dipartimento Politiche attive del lavoro della Cgil)

Gli altri interventi

Venerdì, 5. Maggio 2006
 

SOCIAL

 

CONTATTI