Leggi sul lavoro, ricominciamo da cinque

La prova che lo scontro che si è riacceso sulla cosiddetta legge Biagi è più ideologico che altro sta nel fatto che le norme che generano gli effetti più indesiderati (la precarietà) sono essenzialmente in altri due provvedimenti. Proviamo a tracciare una "road map" in cinque punti per un dibattito più pacato e più realistico
Gli interventi di questi ultimi giorni che, nell'ambito del centro-sinistra, hanno aperto - invero con eccessiva e prematura foga - la questione dell'abrogazione o, alternativamente, della riforma della cosiddetta legge Biagi, appaiono ad un giuslavorista disincantato come gli strascichi di una tensione interna alle forze riformatrici della medesima area, le cui origini più immediate risalgono alla metà degli anni '90, nel corso del governo Prodi, ma affondano notoriamente le loro radici nella prima metà degli anni '80.

Non è il caso di ricordare in questa sede gli eventi che giustificano questa retrodatazione, perché so di rivolgermi ad un pubblico perfettamente memore delle vicende che - a partire dallo strappo di San Valentino, fino ad arrivare al Patto per l'Italia, passando per la caduta del primo governo Prodi - hanno caratterizzato le politiche del lavoro nel nostro paese negli ultimi 25 anni.  Credo, però, che valga la pena di segnalare che il problema delle decisioni che un prossimo governo di centro-sinistra dovrà assumere rispetto a quella legge meritino una riflessione scientificamente più accurata rispetto al confronto 'bruto' (per la cruda semplificazione dei concetti) e 'superficiale' (per la eccessiva, ma inevitabile, selezione dei temi trattati) tra politici e/o sindacalisti cui rischiamo di assistere nelle prossime settimane.

Invero, i predetti soggetti, per evidenti necessità comunicative legate al ruolo da essi ricoperto, sono indotti, anche quando latori di approfondita conoscenza della materia, a proporre, in occasione delle loro apparizioni nelle trasmissioni televisive o della scrittura di articoli giornalistici, letture semplificanti dei problemi sottesi alle riforme del diritto del lavoro. Si assiste così alla ripetizione, in quelle sedi, di slogan più o meno noti che, peraltro, proprio per l'estrema sinteticità ed immediatezza del messaggio che intendono trasmettere, rischiano di occultare la dimensione reale dei problemi sul tappeto.

Per avere un esempio preciso di queste affermazioni, basterebbe ricordare che la cosiddetta legge Biagi (intendendo per tale più che la Legge delega n. 30/2003, il Decreto delegato n. 276/2003, che ad essa ha dato attuazione) costituisce - cosa evidentemente ben nota ai cultori della materia giuslavoristica - solo uno dei tasselli di cui si è composta la strategia legislativa del governo uscente in materia di flessibilità lavoro, posto che ve ne sono almeno altri due di non minore importanza: il D. Lgs. n. 368/2001 in materia di lavoro a termine e il D. Lgs. n. 66/2003 in materia di orario di lavoro. E, a voler essere coerenti fino in fondo, questi ulteriori interventi legislativi non dovrebbero essere certo trascurati da un intervento riformatore di un futuro governo di centro-sinistra che volesse affrontare con nuovo spirito  il problema della flessibilità nell'utilizzo della forza lavoro.
 
Ciò vale soprattutto per il primo dei due decreti, cui è addebitabile la quasi-totale liberalizzazione del ricorso al contratto di lavoro a tempo determinato (ormai sottratto ai vincoli causali del passato), ed al quale molto probabilmente è imputabile, assai più che al D. Lgs. n. 276/2003, la proliferazione del lavoro precario di questi ultimi anni. Ma anche il secondo, a ben vedere, non dovrebbe essere escluso da un ripensamento riformatore, specialmente (anche se non solo) sul tema fondamentale della definizione legale della durata massima della giornata lavorativa, principio costituzionale mortificato dal D. Lgs. n. 66/2003 che, nella quasi totale indifferenza scientifica, politica e finanche sindacale, la ha attestata allo spaventoso limite delle 13 ore (indirettamente ricavabile dall'intervallo di 11 ore di riposo che deve intercorrere tra due prestazioni giornaliere), onestamente denunciato come 'apocalittico' da un giurista (recentemente scomparso) certamente non accusabile di 'sinistrismo'.

In queste pagine, tuttavia, vorrei trattare anche del fatto che la mera contrapposizione di opinioni sul futuro della cosiddetta legge Biagi, proprio perché condizionata da tensioni di lungo 'momento', rischia di occultare che - ove si accantoni il valore simbolico che la abrogazione e sostituzione quest'ultima con altra regolazione o, alternativamente, la sua 'mera correzione', quantunque sostanziale, può avere per gli uni o per gli altri - gli attuali termini del confronto ci dicono in realtà ancora poco circa il contenuto delle riforme che in un caso e nell'altro sono in corso di progettazione. E quel poco che comunque traspare dalla discussione politica e sindacale, ed in buona misura risultante dalle pagine del Programma dell'Unione, appare ancora, a ben vedere, abbastanza generico e, comunque, nel suo complesso, prono ad un'elaborazione culturale effettuata con lo sguardo rivolto piuttosto al passato che al futuro.

Ciò vale, in parte, per quella che si potrebbe definire 'la concettualizzazione' del contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato alle dipendenze di un datore di lavoro, emergente dalla riflessione di alcune aree della sinistra - di solito indicate come radicali, ma che chiamerei piuttosto radical-riformiste - quale fattispecie portante del sistema delle relazioni di lavoro del futuro, tenacemente e comprensibilmente difesa da chi non vuole, a buona ragione, rinunciare ad una società fondata sulla garanzia di stabilità dell'occupazione e del reddito; una elaborazione, questa, che tuttavia non riesce ad immaginare per le riforme altra strada se non quella praticata nella società fordista. Di qui la richiesta, impregnata in verità di  una buona dose di ideologismo, di una abrogazione della legge Biagi di valenza fortemente simbolica, e la sua sostituzione con una nuova regolamentazione che dia corpo formale e sostanziale alla predetta garanzia di stabilità.

Ma la critica vale anche, e forse a maggior ragione, per chi, intendendo fare pragmaticamente i conti con un ceto imprenditoriale che invoca continuamente più flessibilità  (spesso solo per inerzia, se non per pigrizia culturale nelle scelte di posizionamento della loro iniziativa economica nel mercato globalizzato: basti pensare, a questo riguardo, allo scarsissimo successo che alcune forme di contratto di lavoro flessibile previste dal D. Lgs. n. 276/2003 hanno avuto nei mesi scorsi), ritiene e sostiene che la ricetta della flessibilità contrattuale fatta propria dal D. Lgs. n. 276, depurata dalla sue forme più brutali, sia comunque la ricetta che occorre continuare a riproporre per le future politiche del lavoro. Una ricetta da ritoccare con due correttivi fondamentali: l'introduzione di incentivi per restituire maggiore appetibilità al contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato (disincentivando in corrispondenza le altre forme contrattuali precarie, tra cui in particolare le collaborazioni autonome coordinate e continuative - lavoro a progetto) e la predisposizione di una rete di ammortizzatori sociali che proteggano il lavoratore nella sua deambulazione da un posto di lavoro all'altro, intervallata da formazione o altro.

A quest'ultimo riguardo, anzi, appare significativo che proprio in quest'area politico-culturale, che definirei come tradizional-riformista, non si sia negata una relativa continuità  tra gli interventi riformatori da effettuare e le aspirazioni dello stesso Biagi (quali emergenti dai suoi scritti e, in fin dei conti, dagli stessi progetti del Libro bianco'), laddove si evidenzia quanto la riscrittura del sistema degli ammortizzatori sociali fosse fondamentale nel famoso passaggio dal sistema di tutele "nel lavoro" ad un sistema di tutele "nel mercato". E per il vero questo aspetto, scoperto quasi con sorpresa nel recente dibattito mediatico,  era stata già sottolineato in passato in vari dibattiti scientifici - Firenze, Pesaro-Urbino, Ancona ed altri - in occasione dei quali alcune voci avevano segnalato, al di là delle critiche di fondo da rivolgere alle scelte di flessibilità radicale implicite nel progetto del governo Berlusconi, la pericolosità sociale ed economica di una riforma che, invece del mix di flessibilità-mobilità/ammortizzatori sociali, espandeva sine limite le prime senza contemporaneamente assicurare una rete protettiva per le esigenze del crescente precariato.

Orbene anche quest'area politico-culturale mi pare esprimere, al pari o comunque non meno dell'altra, una visione riformatrice caratterizzata dalle 'ombre lunghe del passato'. Tra flessibilità, ammortizzatori  sociali, incentivi/disincentivi per 'promuovere' la disponibilità delle imprese a stabilizzare il lavoro, traspare in realtà la mera ripresa di tematiche, nonché di progetti maturati nel periodo del primo governo Prodi, solo sottoposti ad un leggero maquillage. Né, per il vero, quest'area - che per la sua 'storica' composizione culturale e politica, nonché (è bene evidenziarlo) per la maggiore visibilità nel dibattito politico di cui gode grazie alla maggiore 'vicinanza' culturale con gli strumenti mediatici (giornalistici e televisivi) 'che contano',  è stata, ed è ancora in grado di esprimere una vera e propria egemonia culturale, nell'ambito del centro-sinistra, in materia di politiche del lavoro - sembra manifestare minori rigidità ideologiche dell'altra.
Nel dire questo non mi riferisco solo a coloro che, assumendo un atteggiamento quasi punitivo nei confronti di chi ha la fortuna di avere 'la ricchezza di un posto di lavoro',  continuano a leggere il mercato del lavoro alla luce della secca dicotomia insider/outsider e a proporre sostanzialmente una sua liberalizzazione totale (nonché di contenimento del ruolo gestionale delle confederazioni sindacali: ma sul punto tornerò tra breve), ostinatamente rifiutandosi anche solo di prendere in considerazione le (nonché rispondere alle) ormai abbondanti obiezioni e critiche che vengono rivolte in ambito scientifico nei confronti di quella costruzione di teoria economica.
 
Mi riferisco in generale a tutti coloro che, come detto, pur attenti ad assecondare l'aspirazione sociale verso la stabilità, continuano a proporre con inflessibile sicurezza le strategie di flessibilità pregresse 'condite' con interventi promozionali, senza manifestare nessuna propensione o disponibilità a ripensamenti ed omettendo di confrontarsi con idee nuove, che ad esempio potrebbero essere attinte anche da un'accurata ricognizione dei molteplici tentativi, esperienze, ma anche progetti e riflessioni elaborati in ambito europeo, e dunque in buona misura già noti. Un comportamento, questo, che finché resta confinato al campo scientifico è solo sconveniente (ahimè, avviene sempre più spesso che si legga e/o citi solo la dottrina familiare e affine, ignorando o addirittura rifiutando il confronto con quella critica!); ma quando si manifesta anche in ambito politico risulta addirittura autolesionista.

V'è dunque a mio avviso il pericolo reale dell'acuirsi di una contrapposizione che rischia di diventare addirittura 'insanabile': a causa di essa potrebbero perfino naufragare le speranze di stabilità di una legislatura già nata sotto l'infausto segno della incertezza e della faiblesse istituzionale.

Mi permetto allora di porre sul tavolo solo qualche idea destinata alla comunità scientifica,  ma che potrebbe in qualche misura arrivare a lambire le sponde dei 'territori' politico e sindacale. Si tratta di alcuni spunti di riflessione, che non hanno alcuna pretesa di completezza, per provare ad iniziare a discutere prospetticamente su basi un po' diverse.
 
1) Che si lasci da parte la questione della abrogazione o modificazione della cosiddetta legge Biagi, perché non è di questa soltanto che occorre discutere, ma di tutto il sistema di regolazione della flessibilità del lavoro. Si cominci subito a ragionare sui contenuti reali, effettivi degli interventi che dovrebbero dare concreta attuazione al Programma dell'Unione, e poi, una volta definiti questi, si vedrà come fare, dal punto di vista tecnico, per dare ad essi corpo normativo. In particolare, tra le varie soluzioni in campo, non andrebbe assolutamente trascurata la possibilità di giungere, finalmente, ad un Testo Unico delle leggi sul lavoro (una sorta di Codice del lavoro), o quanto meno sul mercato del lavoro, che contribuirebbe - oltre che a dare chiarezza agli operatori giuridici ed economici dopo le molte incertezze della passata legislatura - a spazzar via ogni strumentale polemica sulla cosiddetta legge Biagi.

2) In materia di mercato del lavoro, anche nell'area della sinistra riformista, mi sembra che nessuno abbia ricette di sicuro successo in mano. E' dunque necessario che ci si metta al lavoro con serenità, aprendo tavoli di studio per trovare soluzioni innovative ed avendo chiaro in mente l'orizzonte  politico verso cui muovere, che è ben rappresentato dalla 'tensione' verso la difesa del modello del lavoro subordinato a tempo pieno e indeterminato e dalla riconduzione delle fattispecie del lavoro precario nell'ambito del principio di 'eccezione'.

Da questo punto di vista, riconoscendo, appunto, che è unanime nel centro-sinistra il consenso sulla necessità di ritornare ad una stabilità occupazionale e reddituale, occorre peraltro prendere atto, da un lato, che vi sono valori anche professionali da tutelare (non si può pensare, in altre parole, che sia sufficiente assicurare un reddito minimo ed un'occupazione anche discontinua quale che sia per soddisfare le esigenze sociali delle future generazioni, dovendosi altresì cercare di garantire il più possibile la soddisfazione dei progetti professionali individuali) e, dall'altro lato, dell'emersione delle nuove forme del lavoro nell'impresa post-fordista, che tende comunque a divaricare (nella natura giuridica e nel contenuto professionale) le varie esperienze di lavoro, secondo gli ormai noti schemi evidenziati dal dibattito sociologico-organizzativo, a cominciare  da Reich.

Ferma dunque restando la necessità di riconoscere ancora l'importanza del tradizionale modello del lavoro subordinato a tempo pieno e indeterminato, occorre anche guardare più in là, ed interrogarsi sulle possibili mutazioni regolative da progettare per il breve, medio e lungo periodo rispetto anche alle due variabili appena indicate.
La parola d'ordine non dovrebbe essere, insomma, quella di fondare la riforma solo su una cristallizzazione del modello tradizionale del lavoro subordinato alle dipendenze dell'impresa industriale (anche eventualmente come mero destinatario di politiche promozionali), ma di diversificare coraggiosamente le scelte, tenendo presente che la stabilità del lavoro può essere anche raggiunta - sempre attraverso lo schema concettuale del lavoro a tempo pieno e indeterminato, ma senza rinunciare ad altre soluzioni equivalenti - sulla base di una ricomposizione della posizione soggettiva del lavoratore subordinato.

Ciò è stato ben compreso dalla commissione Boissonnat, che alla metà degli anni '90 ha ragionato in Francia su questi problemi, ed al cui lavoro faccio riferimento solo per fornire un'idea della ispirazione che potrebbe muovere la ricerca di soluzioni alternative (secondo una direzione indicata anche dal noto Rapporto predisposto per la Comunità europea da Alain Supiot, dal titolo Au de là de l'emploi, ormai noto a gran parte della dottrina italiana).
 
A titolo di esempio si potrebbero ricordare le esperienze estremamente interessanti che sono state e sono ancora in corso di sperimentazione in altri paesi europei, sulla base delle quali si riesce a ricondurre ad unità datoriale le vicende lavorative  differenziate che il lavoratore 'post-fordista' è costretto ad affrontare, nel rispetto del suo bagaglio professionale; esperienze che solitamente riguardano proprio settori particolarmente importanti per la nostra economia: quelli dell'artigianato e delle piccole e medie imprese (al riguardo, sui poco noti fenomeni dei raggruppamenti o associazioni di imprese, quali unitari datori di lavoro per conto delle imprese associate, mi permetto di rinviare più specificamente alla parte centrale  di un mio saggio comparato sul lavoro interinale, pubblicato negli Studi in onore di Gino Giugni, Cacucci, Bari, 1999, t.1).

3) Rispetto al punto 2 dovrebbe assumere particolare rilievo una riforma degli ammortizzatori sociali, se concepita in modo da dare sostegno pure alla ricomposizione di cui si è detto.

Tale riforma, in generale necessaria ed anzi indispensabile per accompagnare le ristrutturazioni e riconversioni del nostro tessuto produttivo, rimasto colpevolmente abbarbicato - salvo qualche eccezione - a difendere aree esposte implacabilmente alla incontenibile concorrenza internazionale (in questo sta l'ulteriore grave colpa delle politiche di flessibilità totale seguite in questi ultimi anni, che hanno assecondato questi ritardi), non dovrebbe infatti essere chiusa in sé stessa, ma strategicamente collegata ad una riforma complessiva del welfare state, in cui dovrebbero trovare soddisfazione i molteplici valori della persona, la cui chiara percezione è maturata nell'ultimo ventennio nelle società occidentali.

Il diritto alla stabilità occupazionale e del reddito, insieme a quelli all'istruzione, alla formazione, alla non discriminazione, alla parità di genere, alla piena riappropriazione delle scelte in materia  del tempo di lavoro e di non lavoro, etc. dovrebbero, in altre parole, essere riconosciuti come parte integrante di un progetto articolato e di lungo periodo di riscrittura del sistema del welfare state, disegnato nei suoi grandi tratti sin dalla fase progettuale, per evitare che l'inevitabile gradualità resa necessaria dai costi reali dei singoli interventi faccia perdere l'unitarietà del disegno complessivo.

4) Occorrerebbe poi riconoscere la massima centralità, nel progetto riformista del centro-sinistra, al problema delle esternalizzazioni produttive, prendendo piena consapevolezza che quest'ultimo è di fondamentale importanza non solo per la tematica del costo del lavoro (l'unica invero presa a cuore dalla riforma del governo Berlusconi), ma soprattutto per la necessità di  favorire, nell'assetto dei rapporti economico-commerciali dell'impresa post-fordista, un virtuoso connubio tra ottimizzazione dell'impiego delle risorse (quantità) e specializzazione produttiva (qualità).

Da questo punto di vista è, ad esempio, a dir poco singolare che nel Programma dell'Ulivo non si faccia esplicito cenno al profilo della parità di trattamento dei lavoratori negli appalti. L'abrogazione della  L. n. 1369/1960 da parte del D. Lgs. n. 276/2003 ha spazzato via il vincolo di uniformità di trattamento dei lavoratori dipendenti dall'appaltante e dall'appaltatore, imposto nel caso di appalti funzionalmente collegati al ciclo produttivo dell'appaltante. Il silenzio del programma appare dunque preoccupante, perché il problema dell'uniformità di trattamento è non solo politicamente delicato, ma anche tecnicamente sofisticato.

Se, infatti, è senza dubbio necessario che si torni alla parità di trattamento per contenere le esternalizzazioni in cui l'appalto mira soltanto a ribassi del costo del lavoro e delle tutele normative (la normativa del D. Lgs. n. 276/2003, nell'incentivarle, ha di fatto assecondato la conservazione di produzioni drammaticamente esposte alla concorrenza internazionale, consentendo loro di sopravvivere malamente - e non certo per troppo tempo - all'ombra di bassi salari), diverso discorso andrebbe fatto in parte per le esternalizzazioni che seguono opportunamente le tendenze alla specializzazione qualitativa nella fornitura di fasi o parti della produzione dell'impresa appaltante, nei confronti delle quali il problema si pone piuttosto in termini di uniformità di tutele dei lavoratori dell'impresa appaltatrice (che sia effettivamente in grado di soddisfare la suddetta specializzazione qualitativa) rispetto a quelle operanti nel settore produttivo specifico di riferimento.

5) Quest'ultimo problema richiama alla mente altri due problemi di portata generale, tra loro strettamente legati. Il primo è quello relativo alla riforma del sistema di contrattazione collettiva (mi riferisco ovviamente alla tematica dei livelli contrattuali, anch'essa vittima strumentale di uno scontro in cui lo sguardo è puntato più che sulla qualità del sistema relazionale, sul costo del lavoro). Il secondo è quello dei soggetti sindacali e, più in generale, della rappresentanza sindacale e dell'efficacia soggettiva dei contratti collettivi (soprattutto per quanto concerne il profilo relativo alla democratica misurazione del consenso dei lavoratori). Si tratta di questioni di vasta portata, che richiedono senza dubbio un coraggioso e spassionato confronto per un processo riformatore.

In questa prospettiva, non minore importanza ha la  questione, intimamente connessa alle precedenti, di quale strada intenda seguirsi in merito al coinvolgimento del sindacato rispetto ai processi di flessibilizzazione normativa nell'ambito dell'ordinamento. Non dico certo eresie se affermo che il sistema  di delegazione di poteri dalla legge alla contrattazione collettiva è ormai afflitto da un processo degenerativo, che le recenti riforme del governo Berlusconi  hanno contribuito ad aggravare, ma che trova notoriamente le sue ormai lontane origini nel sempre più evidente abuso del ricorso allo schema della 'maggiore rappresentatività'.

Rispetto a tutti questi ultimi temi non è certo il caso in questa sede di avventurarsi nemmeno in qualche riflessione nel merito, salvo a segnalare che pure in su questo piano il confronto (mi riferisco non soltanto a politici e sindacalisti, ma anche agli scienziati del lavoro), dovrebbe in buona misura essere depotenziato dalla sua carica ideologica (anch'essa proveniente da lontano) e con buon senso di responsabilità essere indirizzato verso un sostanziale riconoscimento dell'esistenza di buone ragioni dall'una e dall'altra parte. Personalmente, ad esempio, non riesco a vedere una incommensurabile incompatibilità tra la posizione di chi richiede un sistema contrattuale più flessibile e aperto verso il basso e chi desidera salvaguardare forme di redistribuzione centralizzate. Così come non credo che ci sia nessuno disposto a negare che occorra rivivificare i meccanismi di verifica democratica della rappresentanza degli interessi  dei lavoratori, e questo sia in generale sia (forse ancor di più) nei casi in cui la contrattazione collettiva è coinvolta in processi di flessibilizzazione normativa.

Una buona e aperta discussione scientifica a ridosso del dibattito politico-sindacale, che non demonizzi le idee degli altri, potrebbe probabilmente dare un contributo non trascurabile nella ricerca di soluzioni anche tecnicamente equilibrate che contribuiscano a far convergere verso un contemperamento dei contrapposti interessi.
 
Concludendo, le strade delle riforme sono indubbiamente lastricate di grandi difficoltà, ma non c'è modo peggiore per affrontarle che pretendere di essere portatori di verità assolute, irrigidendosi sulle proprie posizioni e rifiutando di aprirsi verso nuove prospettive. E ciò vale per tutti coloro - politici, sindacalisti e scienziati - che sono chiamati ad un quinquennio di grandi responsabilità.
 
Venerdì, 21. Aprile 2006
 

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