La guerra preventiva della Bce

Il rischio di inflazione contro cui la Banca centrale continua ad aumentare i tassi somiglia al rischio delle armi di distruzione di massa irachene. Sono molto reali, invece, gli effetti negativi sulla crescita. Trichet, più che ai prezzi, guarda alle richieste contrattuali della IG Metall
Quando, all'inizio di dicembre, la Banca centrale europea ha annunciato un nuovo aumento dei tassi, i grandi giornali italiani, se si esclude Il Sole 24 ore, vi hanno dedicato meno spazio di quello assegnato a Scaramella. La ragione sembra essere che si trattava di una decisione già annunciata e anche scontata dai mercati. Eppure le decisioni della BCE che riguardano i dodici paesi dell'euro, la seconda area economica e commerciale del pianeta dopo gli Stati Uniti, si riflettono sull'economia e conseguentemente sui rapporti sociali dei dodici paesi. Per cui vale la pena di chiedersi per quale ragione la BCE abbia aumentato per la sesta volta consecutiva i tassi di riferimento nel corso di un anno. E'anche vero che la critica ai banchieri centrali di Francoforte è considerata "politicamente non corretta". In Francia ci hanno provato recentemente Villepin e, da sponde opposte, la candidata alla presidenza Ségolène Royal, e sono stati subito bollati di populismo. Negli ultimi giorni anche Romano Prodi ha sollevato dubbi sulla manovra dei tassi, per l'evidente rischio di frenare la ripresa, ed è auspicabile che non incorra nella stessa reprimenda.
 
Sui riflessi della manovra bisogna dire che  molti giornali hanno fatto i conti sull'aggravio consistente che comporta per una famiglia l'aumento della rata per un mutuo a tasso variabile, per non parlare degli acquisti di beni durevoli per i quali le fasce sociali maggiormente disagiate ricorrono al credito. Ma su Il sole 24 ore Lorenzo Bini Smaghi, il rappresentante italiano succeduto a Padoa Schioppa nell'esecutivo della BCE, ha sorprendentemente sostenuto che in realtà le famiglie ne traggono beneficio non solo sotto il profilo del contenimento dell'inflazione (cosa del tutto dubbia in Italia), ma anche per il fatto che essendo le famiglie mediamente titolari di 145.000 euro di attività finanziarie, con l'aumento dei tassi, godono di un aumento dei rendimenti. Tesi questa che porterebbe alla bocciatura di un allievo del primo anno di statistica, rimanendo valida la massima di Trilussa, secondo il quale la media di mezzo pollo a testa può nascondere il fatto che uno l'ha mangiato intero e l'altro niente.
 
Ma non è nemmeno trascurabile l'aggravio della spesa per il pagamento degli interessi sul debito pubblico in relazione ai rinnovi dei titoli a scadenze ravvicinate e ai titoli indicizzati sui quali si riflettono gli aumenti dei tassi. Aumenti di spesa ai quali lo Stato può far fronte, se non vuole accrescere lo straripante debito pubblico, ricorrendo a un maggiore prelievo fiscale o riducendo la spesa sociale.
 
A questo punto si può obiettare che la medicina può essere più o meno amara, e tuttavia necessaria, considerate un insieme di circostanze, di cui i banchieri centrali debbono farsi carico. Dobbiamo in altri termini tener conto delle motivazioni dei banchieri centrali. Per Jean-Claude Trichet, presidente della BCE, le ragioni che giustificano l'ennesimo aumento di dicembre sono fondamentalmente due, fra di loro più o meno connesse. La prima è che la zona euro attraversa un periodo di forte crescita che non richiede stimoli monetari; la seconda è che proprio il maggior ritmo di crescita genera un rischio inflazionistico, che deve essere combattuto preventivamente prima che si materializzi.
 
In effetti, l'argomento della crescita è scarsamente convincente. E' vero che il 2006 farà segnare, secondo le stime, una crescita media del PIL dell'ordine del 2,5 per cento nella zona euro. Un risultato confortante, ma che arriva dopo cinque anni di quasi stagnazione. Quanto al futuro, i dati più recenti non alimentano alcun particolare ottimismo. Nel terzo trimestre del 2006 la crescita nell'eurozona era già regredita al 2 per cento. Per il 2007, la previsione è ridotta all'1,9 per cento con una crescita misera per l'Italia dell'1,3 per cento e dell'1,5 per la Germania. Si tratta nell'insieme di dati non solo lontani dalla crescita media a livello mondiale prossima al 5 per cento, sulla quale incidono le performance dei grandi paesi in via di sviluppo come Cina, India e Russia, ma anche inferiori alla crescita degli Stati Uniti e del Giappone, paesi con i quali dobbiamo confrontarci.
 
Al tempo stesso il forte apprezzamento dell'euro sul dollaro tende a deprimere la competitività dell'eurogruppo. Ma la Banca centrale tende a rassicurarci, sostenendo che la sopravvalutazione del cambio non è un problema, perché la crescita europea dipende non tanto dalle esportazioni quanto dalla dinamica dei consumi. Tesi che ha un fondamento. Ma, ciò non di meno, sorprendente per chi sostiene ossessivamente che il declino dell'Europa dipende dalla mancanza di competitività rispetto al resto del mondo.
 
In ogni caso, l'apprezzamento dell'euro sul dollaro di circa il 10 per cento nell'ultimo anno, riflettendosi in un analogo apprezzamento nei confronti delle altre maggiori valute come lo yen e lo yuan strettamente legato al dollaro, ridurranno secondo gli esperti quella che sarebbe stata la crescita tendenziale in un arco compreso fra tre decimi e mezzo punto. La prova di una flessione connessa all'andamento del cambio si è già avuta - fanno notare alcuni commentatori - fra il 2004 e il 2005, quando il dollaro toccò quota 1,37 (ora siamo intorno a 1,33), e la crescita fra un anno e l'altro scese da dal 2,1 all'1,3 per cento.
 
Non rimane che guardare all'altro argomento, quello dell'incombente rischio inflazionistico. Non c'è dubbio che tutta la politica della Banca è ossessivamente rivolta al controllo dell'inflazione. Si può osservare che questo atteggiamento è tipico di un Banca centrale, ma solo fino a un certo punto. Il monetarismo puro del recentemente scomparso Milton Friedman non viene applicato nemmeno negli Stati Uniti, dove la Federal Riserve media le sue scelte tenendo in conto non solo l'inflazione ma anche la crescita economica e la disoccupazione. Ma, posto che i reggitori dell'euro considerino il loro mandato statutario ristretto al burocratico ed esclusivo controllo dell'inflazione, rimane il fatto che il rischio paventato non trova conferma. Se il 2006 si chiuderà con un'inflazione media al 2,2 per cento (dato che fa inorridire i banchieri di Francoforte, essendo di due decimi al di sopra della fatidica linea di confine del 2 per cento), molti osservatori fanno notare che, nella media dell'eurogruppo, l'inflazione è rimasta, al netto dell'esplosione del petrolio, intorno all'1,7 per cento, che il prezzo ha cominciato a scendere, e che il forte apprezzamento dell'euro contribuisce a ridurre la spesa dell'eurozona che acquista petrolio e gas in dollari. In ogni caso, è un dato di fatto che l'inflazione tendenziale a novembre del 2006 era su base annua già al di sotto del due per cento.
 
Se si vogliono cogliere le ragioni dell'allarmismo bisogna guardare altrove. Ed è ciò che hanno fatto i commentatori dei grandi giornali finanziari, dal Financial Times al Wall Street Journal, quando si è capito che la Banca centrale non considera esaurita la fase di crescita dei tassi di riferimento e che, entro l'estate, sono probabili altri due aumenti di 25 punti base, portando il tasso al 4 per cento. In sostanza è apparso chiaro che la ragione dell'allarme inflazionistico va cercato nell'orrore dei banchieri centrali per l'aumento dei salari. La convinzione, questa non priva di fondamento, è che la crescita economica in atto, per quanto limitata, possa stimolare le rivendicazioni salariali, come effettivamente si annuncia in Germania, che è il fulcro economico della zona euro.
 
All'inizio di novembre la IG Metall, il sindacato tedesco dei metalmeccanici che è il più forte d'Europa, e il cui contratto ha una funzione pilota in Germania e di riferimento indiretto anche per gli altri paresi dell'eurozona, ha avanzato per la prima volta dopo molti anni di stagnazione e perdita di potere d'acquisto dei salari, una richiesta di aumento consistente, compresa fra il 5 e l'8 per cento. La rivendicazione ha fatto scalpore. Ma non ha creato sgomento né a livello politico né tra le imprese. Nel governo della Grande coalizione si sono sentite affermazioni di sostegno, quanto meno in linea di principio, e Angela Merkel si è discretamente attenuta alla regola che assegna alla piena  autonomia delle parti sociali i negoziati salariali. Perfino da parte delle imprese si sono levate voci di comprensione per una stagione salariale che innovi nella pratica restrittiva degli ultimi anni.
 
A questo punto è entrata in scena la BCE. Attenzione ai salari, la loro crescita è fonte d'inflazione - ha ammonito - lasciando intendere che la conseguenza sarebbe un ulteriore inasprimento dei tassi. L'ammonimento merita di essere preso sul serio. I banchieri di Francoforte sono i controllori delle politiche economiche dei paesi della moneta unica. I governi debbono astenersi dal sollevare riserve, per non dire critiche, nei confronti dei banchieri centrali, ma la Banca centrale si attribuisce il diritto di esercitare un controllo permanente e pervasivo su tutti gli aspetti della politica economica e, non ultimo, quello delle politiche salariali. Non c'è  perciò da stupirsi se l'attenzione è direttamente puntata sui negoziati salariali tedeschi, i cui risultati indirettamente costituiscono un riferimento per gli altri sindacati europei.
 
In sostanza Trichet ha in corso una "guerra preventiva" a un rischio inflazionistico che non ha fondamento effettivo. Più o meno sulla falsariga della guerra preventiva all'Iraq motivata dalla presenza di armi di distruzioni di massa mai trovate. Nella conferenza stampa del 7 dicembre, Trichet ha affermato che la Banca sarebbe rimasta "vigilante", lasciando intendere ai mercati che il prossimo aumento potrebbe essere a febbraio - data che coincide con l'apertura del negoziato sindacale in Germania. Insomma, per sapere a quale livello la BCE intenda fermare l'ascesa dei tassi, se sarà contenta di averli portati dal 2 al 3,5 per cento nel giro di un anno o li spingerà fino al 4 per cento entro i prossimi mesi, bisognerà guardare più che alla crescita del PIL e all'inflazione effettiva, ai risultati del contratto dell'IG Metall. Si tratta di una posizione per molti versi surreale. Ma, trattandosi di una istituzione che si fa guidare dal dogma della lotta all'inflazione come criterio supremo della politica economica, non ci si deve stupire. I dogmi alimentano il fondamentalismo, e l'Europa ha nella Banca centrale una delle rappresentanze più potenti oltre che pericolose di questa tendenza.
Venerdì, 15. Dicembre 2006
 

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